L’altro ieri in Svezia abbiamo avuto l’ennesima riprova dei limiti intrinseci ai meccanismi di razionalizzazione del rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo.
Si tratta di quei meccanismi, introdotti soprattutto nelle Costituzioni del secondo dopoguerra, diretti a favorire la nascita degli esecutivi e a stabilizzarne la durata, quali ad esempio: la presunzione della fiducia iniziale (come ad esempio in Gran Bretagna, Francia, Danimarca, Finlandia, Islanda e Norvegia); il suo conferimento da parte dell’unica, tra le due, camera politica; la fiducia espressa al solo Primo Ministro, anche eleggendolo (come avviene a scrutinio segreto in Germania).
In questo quadro, spicca, per la sua “debole razionalizzazione” il rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo delineato nella nostra Costituzione, visto che siamo l’unico paese al mondo, insieme alla Romania, in cui il Governo – e non solo il Presidente del Consiglio – deve avere la fiducia (a maggioranza semplice) di entrambe le camere, per cui basta la sfiducia di una sola per farlo cadere. L’unico serio limite è costituto dall’obbligo di voto palese (e, per di più, per appello nominale) onde evitare i c.d. “franchi tiratori” quando è in gioco la fiducia al Governo. Per il resto gli altri requisiti previsti dall’art. 94 Cost. si sono rilevati pressoché inutili: le motivazioni delle mozioni di fiducia e di sfiducia sono generiche e (nel primo caso) rinviano adesivamente alle dichiarazioni programmatiche del Governo; l’obbligo, per le mozioni di sfiducia, di essere firmate da almeno un decimo dei componenti di una camera e di essere discusse non prima di tre giorni dalla loro presentazione non ha mai impedito le c.d. crisi extraparlamentari (che tali sono sempre state le nostre, tranne quelle dei governi Prodi I del 1998 e Prodi II del 1998 dovute piuttosto alla mancata approvazione di questioni di fiducia).
Ebbene, la tendenza del parlamentarismo contemporaneo a razionalizzare il rapporto di fiducia trova il proprio apice in Svezia (e in Portogallo: art. 192.4 Cost.) dove il Primo Ministro è nominato dalla Camera (Riksdag) se non vi è una maggioranza contraria. Secondo l’articolo 3 del capo VI di quella Costituzione, infatti, “entro e non oltre due settimane dalla sua convocazione, il neo-eletto Riksdag determina tramite voto se il Primo Ministro ha un sufficiente sostegno nel Riksdag. Se più della metà dei membri del Riksdag vota no, il Primo Ministro si dimette. Non si vota se il Primo Ministro si è già dimesso”.
In definitiva in Svezia il Primo ministro viene nominato (a scrutinio palese, al contrario dell’elezione a scrutinio segreto prevista in Germania) non perché ottiene una maggioranza (anche se relativa) favorevole ma perché non vi è una maggioranza (assoluta) contraria.
Ebbene, nella seduta di ieri, 24 novembre 2021, il Riksdag ha scelto come Primo Ministro la leader socialdemocratica Magdalena Andersson che ha ottenuto, su 349 membri, 117 favorevoli, 57 astenuti e 174 voti contrari, appena uno in meno rispetto alla maggioranza assoluta richiesta di 175 (349:2= 174,5 da arrotondare ovviamente alla unità superiore).
La fragilità di tale esito si è dimostrata però poche ore dopo quando lo stesso Riksdag ha approvato la legge di bilancio presentata da Moderati, Cristiano-Democratici e Democratici svedesi (partito di estrema destra), determinando l’uscita dei Verdi dalla coalizione appena formata e costringendo la Andersson a presentare le dimissioni al Presidente del Riksdag che ha annunciato l’apertura di nuove consultazioni con i partiti.
Morale: l’ingegneria costituzionale può aiutare la formazione di maggioranze politiche a sostegno dei governi, ma non fino al punto da supplire alle sue eccessive debolezze.