Si può delegittimare il conflitto sociale senza rischiare la Terza guerra mondiale?

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di Andrea Guazzarotti)

 Il primo e il secondo conflitto mondiale hanno segnato la fine del gold standard e del predominio dell’economia finanziarizzata a trazione britannica, ossia del capitalismo laissez-faire e del suo contraltare istituzionale, lo stato liberale monoclasse.

L’insostenibile divario reddituale e le diseguaglianze sociali estreme figlie di quel paradigma furono livellate dall’inaudita distruzione di ricchezza che si produsse per effetto del conflitto (Piketty), dando vita a una nuova fase del capitalismo, più compatibile con la democrazia parlamentare: Keynes e Kelsen furono gli ispiratori di questo felice, ma transitorio connubio. Il conflitto inter-capitalistico (guerra tra stati europei), innescato dalla crisi dell’egemonia britannica attorno cui ruotava la globalizzazione economica dell’epoca, era pienamente legittimato dal diritto internazionale e da quello costituzionale (ius ad bellum). Tra le due guerre (Società delle Nazioni e Patto Briand-Kellogg) e nell’immediato secondo dopoguerra si affermò, con l’ONU, la messa al bando della guerra e, dunque, del conflitto inter-capitalistico. Gli stati ad economia capitalistica dovevano smettere di esternalizzare i propri problemi redistributivi interni attraverso guerre di stampo coloniale (Kalecki). Parallelamente, il conflitto intra-capitalistico (tra capitale e lavoro) subiva una fondamentale metamorfosi: dopo essere stato a lungo ostracizzato nello stato liberale monoclasse, fino all’estremo della sua criminalizzazione nei regimi nazi-fascisti o autoritari, esso veniva rilegittimato proprio in quelle stesse costituzioni che contenevano, per la prima volta, il divieto della guerra d’aggressione. La redistribuzione della ricchezza avrebbe dovuto avvenire per vie pacifiche, all’interno di ciascuna economia statale capitalistica, con la facilitazione delle istituzioni di Bretton Woods, non più per le vie dell’economia di guerra e dell’annessione militare di nuovi mercati. La legittimazione della guerra e la delegittimazione del conflitto sociale viaggiano assieme e si invertono simmetricamente: una legge di tendenza del costituzionalismo?

Negli anni in cui si è assistito al superamento del paradigma keynesiano, non c’è stata solo la neutralizzazione del conflitto intra-capitalistico nelle democrazie costituzionali per opera della finanziarizzazione e dell’ultra-libertà dei capitali, bensì anche la rilegittimazione del conflitto bellico da parte degli USA, con scarsa o debolissima resistenza da parte degli Stati europei. Mentre le interdipendenze economiche e il grado di apertura dei mercati crescevano, aumentavano anche le spese militari degli Stati (Brancaccio, Giammetti, Lucarelli). Nulla di sorprendente, se è vero che alla vigilia della Prima guerra mondiale si erano raggiunti record di interdipendenza economica.

Dopo il crollo della cortina di ferro, nuove, preoccupanti teorie sulla guerra giusta sono riemerse, in apparenza con la funzione di lottare contro alcune autocrazie mediorientali o contro il terrorismo, in realtà con quella di compensare la fine dell’equilibrio geo-economico nato dalla fine del secondo conflitto mondiale e geneticamente legato alla legittimazione del conflitto sociale e delle politiche redistributive che a esso si coniugavano. Il livello di diseguaglianze di reddito e, dunque, di condizione sociale raggiunto nelle democrazie liberali occidentali è tale da far dubitare che possa trattarsi ancora di autentiche democrazie. Si prefigura all’orizzonte un nuovo scontro inter-capitalistico (stavolta con gli anomali capitalismi russo e, soprattutto, cinese). È ipotizzabile che la strenua volontà degli USA di perpetuare il proprio dominio finisca, come fu in passato, per causare un’eterogenesi dei fini, ossia per ri-azzerare le diseguaglianze economiche distruggendo ricchezza e rimettendo in moto, tra le macerie, forme di solidarietà tra classi e tra stati. Ma è più plausibile che quel ribaltamento sia ben più radicale, stante il pericolo sempre più tangibile dell’autodistruzione atomica (Caporalini). Ed è sconcertante come ciò non trattenga le maggiori potenze globali, USA in testa, dall’invertire la rotta e negoziare un nuovo ordine mondiale alla pari con l’altra metà del mondo guidata dalla Cina.

Il contributo dell’UE per scongiurare lo scenario dell’autodistruzione sembra attualmente irrisorio, per l’appiattimento degli Stati europei sulla posizione degli USA e azionata per il tramite della NATO (Cantaro, Losurdo, Salmoni). Il mercantilismo dell’Eurozona, che alla vigilia della pandemia ha fatto registrare surplus di bilancio mai sperimentati prima, non è certo un modo per contribuire alla pace mondiale, come insegnava Keynes. Quella politica fu favorita dalle vecchie regole fiscali dell’UEM, come irrigidite durante gli anni della crisi. Il fatto che nella recente proposta della Commissione del nuovo Patto di stabilità si affaccino margini di flessibilità per le spese militari, ma assai meno per gli investimenti sociali decisi democraticamente dai singoli governi, non sembra annunciare nulla di buono.

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