Caso Salis e immunità parlamentare: quando non tutto è come sembra

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di Alberto Di Chiara

Nel dibattito politico degli ultimi giorni si è affacciata l’ipotesi di una candidatura di Ilaria Salis – nostra connazionale attualmente detenuta e sottoposta a processo penale in Ungheria – alle elezioni europee dell’8 e 9 giugno prossimi.

L’obiettivo dichiarato di tale iniziativa sarebbe quello di sfruttare l’immunità parlamentare europea, in modo da garantire la libertà personale alla nostra connazionale, facendone allo stesso tempo un simbolo contro la lotta alla democrazia illiberale che il premier Orban ha da tempo instaurato in Ungheria. Tale risultato verrebbe raggiunto attraverso l’applicazione dell’art. 9 del Protocollo sui privilegi e le immunità, secondo cui i membri del Parlamento europeo beneficiano, in ogni Stato membro dell’Unione, dell’esenzione da ogni provvedimento di detenzione e da ogni procedimento giudiziario.

Un’ulteriore conferma sull’operatività dell’immunità parlamentare nel senso auspicato per il caso in esame potrebbe venire dalla sentenza sul caso Junqueras (C-502/19), in cui la Corte di Giustizia aveva stabilito che la carica di eurodeputato – con le connesse prerogative – si acquisisce con la sola proclamazione dei risultati elettorali. In linea teorica, dunque, applicando il ragionamento del giudice lussemburghese, quest’ultimo atto avrebbe l’effetto di spalancare le porte del carcere alla nostra connazionale.

Il risultato auspicato appare tutt’altro che a portata di mano. Anzitutto, l’ostacolo principale è rappresentato dalla collaborazione delle autorità ungheresi, necessaria per arrivare all’effettiva scarcerazione. Lo dimostra il caso Junqueras, il quale, pur avendo trovato ragione dinanzi alla Corte di Giustizia, non riacquistò la libertà e non approdò mai a Strasburgo. È vero che nelle more del giudizio venne condannato per i reati connessi alla tentata secessione della Catalogna, tuttavia, le complicate vicende degli eurodeputati catalani di quest’ultima legislatura dimostrano che la cooperazione degli Stati nazionali rimane imprescindibile anche per l’attuazione delle prerogative parlamentari degli eurodeputati.

Il secondo elemento da tenere in considerazione è rappresentato dalla richiesta di revoca dell’immunità che con ogni probabilità verrebbe avanzata dall’Ungheria. In questo caso, l’assemblea parlamentare si troverebbe dinanzi a tre possibili scenari: negare la revoca dell’immunità sia dal processo che dagli arresti; concedere l’autorizzazione per il primo e negarla per i secondi; revocare l’immunità per entrambe le richieste. Più di un dubbio potrebbe esservi sulla capacità dell’immunità parlamentare di coprire anche un procedimento penale iniziato ben prima dell’eventuale elezione.  

Va tenuto poi presente che il Parlamento europeo ha pressoché sempre accolto le richieste degli Stati membri in materia di immunità parlamentari, dimostrando finora una scarsa volontà di rivendicazione nella difesa delle prerogative dei propri componenti. È pur vero che il caso in esame presenta più di un elemento peculiare – primo tra tutti il coinvolgimento di uno Stato membro più volte censurato sia dalla Commissione che dalla Corte di Giustizia proprio per il mancato rispetto dei valori dello stato di diritto – tuttavia, non si può non considerare il peso che potrebbero avere nella prossima legislatura quei partiti ultra-conservatori e nazionalisti cui sembra essersi avvicinato il premier ungherese Orban, soprattutto dopo l’espulsione dal PPE.

Uno scenario ancora diverso si aprirebbe nell’ipotesi di una condanna penale: che effetti potrebbe produrre la sentenza nell’ordinamento domestico, soprattutto ai fini dell’eventuale applicazione della legge Severino? Ci sono – come ci si immagina – dei modi per evitare di recepire una pronuncia – anche se emessa in uno Stato dell’Unione – che in più occasioni ha dimostrato di non rispettare i principi dello stato di diritto e del giusto processo?

Come si è cercato di evidenziare in queste righe, la candidatura e l’eventuale elezione di Ilaria Salis potrebbero non risolvere la grave situazione di detenzione cui è sottoposta la nostra connazionale, senza la necessaria cooperazione delle autorità ungheresi.

D’altro canto, ancora peggiore apparirebbe la situazione nell’ipotesi di una candidatura non seguita da elezione, che condurrebbe ad un’ulteriore politicizzazione della vicenda – senza giungere all’effetto sperato – prestando il fianco alle obiezioni in tal senso del governo ungherese che, dal canto suo, sta strumentalizzando il caso proprio a fini politici: non si possono dimenticare le parole del ministro degli esteri Péter Szijjartó, secondo cui «Questa signora, presentata come una martire in Italia, è venuta in Ungheria con un piano chiaro per attaccare persone innocenti per le strade […]. Spero sinceramente che questa signora riceva la meritata punizione in Ungheria», indirizzando un chiaro messaggio politico a Fidesz e ad altri movimenti di estrema destra molto attivi sul territorio ungherese.

L’ipotesi di una candidatura potrebbe essere valutata diversamente nel caso vi fosse una ragionevole garanzia di elezione, come nell’ipotesi di una posizione da capolista all’interno di una lista bloccata. In quest’ultimo caso, quanto meno, vi sarebbe la certezza dell’operatività dell’immunità parlamentare, al netto delle precisazioni sopra ricordate. Com’è noto, i candidati alle elezioni europee devono raccogliere diverse decine di migliaia di preferenze per poter guadagnare un seggio. È facile immaginare l’obiezione: il Partito radicale, pur non ottenendo mai un consistente ammontare di seggi parlamentari, riuscì in almeno due occasioni a far eleggere candidati la cui libertà personale era stata limitata, come il filosofo Toni Negri, eletto alla Camera nel 1983 con 13.000 preferenze, o il giornalista Enzo Tortora, che approdò a Strasburgo nel 1984 con 485.000 voti individuali raccolti. Si trattava, con tutta evidenza, di due vicende peculiari: anzitutto, la risonanza dei due casi giudiziari nell’opinione pubblica fu enorme e protrattasi per anni prima delle candidature del Partito radicale; in secondo luogo, erano vicende svoltesi interamente nel contesto nazionale; infine, l’ultimo – e forse il più importante – elemento da tenere in considerazione è rappresentato dalla mobilitazione che i partiti di allora (anche i più piccoli) riuscivano ad attivare nel corpo elettorale. Siamo davvero certi che qualunque partito sarebbe oggi in grado di fare altrettanto? È lecito nutrire più di qualche dubbio a riguardo.

Che fare, dunque, di fronte alla condizione di una nostra connazionale tradotta in un’aula di tribunale in catene? La strada non può che essere quella diplomatica, posto che almeno sul trattamento dei detenuti il governo ungherese non potrà nascondersi dietro il paravento dell’indipendenza della magistratura, visto che l’amministrazione penitenziaria dipende esclusivamente dall’esecutivo.

I partiti e i gruppi parlamentari dispongono già di tutti gli strumenti per impegnare il Governo italiano nell’intraprendere con maggior forza ed efficacia la strada della diplomazia: proporre una mozione parlamentare che raccolga un consenso trasversale potrebbe essere una buona iniziativa per tirare fuori dalle secche della polemica politica una vicenda già in sé fin troppo strumentalizzata.

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