di Paola Pannia*
Con sentenza n. 9428 del 2024, depositata il 9 aprile 2024, la Corte di Cassazione si è pronunciata su una questione più che mai urgente e attuale: la suddivisione per “uomini e donne” delle liste, degli elenchi e degli schedari elettorali. Questa organizzazione è frutto delle previsioni contenute nel Dpr n. 223/1967, articoli 5, 8, 16 e 37, sulla cui legittimità costituzionale la Corte di Cassazione è stata chiamata ad esprimersi con la sentenza in commento.
Secondo i ricorrenti, il sistema binario rigido ed escludente di cui le norme censurate si fanno portatrici (uomo o donna, tertium non datur) compromette in modo illegittimo l’esercizio libero e incondizionato del proprio diritto-dovere di voto, e viola contestualmente altri fondamentali principi, sanciti a livello costituzionale e sovranazionale. Le previsioni in oggetto, infatti, impongono alla persona transgender che si accosta alle urne di conformarsi ad una categoria identitaria che non le appartiene, o non del tutto. Da ciò consegue una limitazione della libera espressione e manifestazione della propria identità personale nonché il mancato riconoscimento del proprio diritto all’identità di genere. Inoltre, in un momento già particolarmente delicato quale quello delle consultazioni elettorali, la normativa impone ai cittadini di condividere alcuni dati sensibili, legati alla propria identità di genere e al proprio sesso biologico, che risultano irrilevanti e sproporzionati ai fini dell’esercizio del diritto di voto, violando così il diritto alla riservatezza e alla protezione dei dati personali. Infine, ad essere compromesso è anche il principio di eguaglianza e pari dignità sociale nell’esercizio del diritto di voto. Infatti, al momento delle consultazioni elettorali, le persone cisgender non subiscono interferenze nella propria sfera individuale, riconoscendosi pienamente nella dicotomia normativa uomini-donne (percepita anzi come “la norma” perché elevata legislativamente a “modello”). Diversa è la situazione delle persone transgender, costrette dalla legge ad un coming out pubblico, non sempre voluto e sicuramente non necessario, da cui possono derivare sentimenti di ansia, disagio e vulnerabilità, e l’esposizione ad atti violenti.
I ricorrenti avevano già presentato queste istanze dinanzi alla Commissione Elettorale Circondariale di Bologna, cui avevano chiesto di essere iscritti nelle liste elettorali comunali senza iscrizione del loro nominativo né nella lista degli uomini né in quella delle donne. Di fronte al rigetto della Commissione, che dichiarava di non avere competenza in ordine alla modifica delle liste elettorali, così come definita dalla normativa statale vigente, hanno quindi presentato ricorso dinanzi alla Corte d’Appello di Bologna. Quest’ultima, con ordinanza n. 773/2023, ha respinto la questione di legittimità costituzionale sollevata dai ricorrenti, perché priva del requisito dell’incidentalità. La Corte ha ritenuto che, nel caso in questione, il petitum del giudizio a quo e la questione di legittimità costituzionale delle norme coincidessero del tutto, privando, così, il giudice del merito di un margine decisionale autonomo e residuale, a seguito di un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte Costituzionale.
Avverso la decisione della Corte d’ Appello, i ricorrenti hanno proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione. Dopo aver argomentato circa la sussistenza del requisito di incidentalità, hanno riproposto le questioni di legittimità costituzionali già menzionate, che, tuttavia, sono state nuovamente rigettate. La Corte di Cassazione, infatti, non ha ravvisato alcuna violazione del diritto ad un pieno e libero esercizio del proprio diritto di voto, affermando: “sotto il profilo della compromissione del diritto di elettorato attivo, non è chiaro in quale modo la suddivisione cartolare degli elettori a seconda del genere potrebbe conculcare tale diritto in capo ai soggetti che non si riconoscano né nel genere maschile, né in quello femminile, posto che nessun pregiudizio sul diritto di voto può ipotizzarsi o è previsto da una qualche norma quale conseguenza della suddetta mancata immedesimazione di genere”. Se la Corte d’ Appello aveva rilevato un’integrale identificazione tra il petitum e il thema decidendum, la Corte di Cassazione ha ravvisato la mancanza del requisito della rilevanza, ritenendo insussistente il “nesso di strumentalità necessaria tra la definizione del giudizio principale e la risoluzione della questione afferente al bene della vita per il quale si agisce”. In altre parole, non sarebbe la norma censurata a produrre la lesione lamentata dai ricorrenti. Piuttosto, “la prassi dell’incolonnamento in fila per genere, in attesa dell’accesso alle urne, di cui i ricorrenti si dolgono (e come notoriamente è dato riscontrare nella realtà dell’esercizio del diritto politico), appare riconducibile ad una impropria evenienza fattuale […] e non già ad una disposizione normativa della cui legittimità costituzionale si possa dubitare”. Peccato, però, che, come rilevato dalla stessa Procura Generale, l’evenienza fattuale di cui parla la Corte non è altro che la trasposizione obbligata di quanto afferma in modo chiaro e inequivocabile il precetto legislativo. Così, sebbene la Corte di Cassazione non escluda che lo svolgimento delle operazioni elettorali “ben potrebbe essere diversamente organizzato”, risulta difficile immaginare come ciò potrebbe accadere a quadro legislativo invariato.
La questione è già stata sollevata dalla società civile in più occasioni. Nelle ultime tornate elettorali è stata lanciata una petizione da parte di attivisti e delle associazioni per i diritti delle persone trans. È stata inoltre avviata una campagna di sensibilizzazione (#IoSonoIoVoto) e sono state promosse alcune soluzioni temporanee, volte ad evitare, o quantomeno attenuare, le violazioni ai diritti prodotte dall’attuale organizzazione delle liste elettorali (quali assicurare la presenza di un accompagnatore, evitare di diffondere a voce alta dati sensibili o lasciare che l’elettore genderfluid sia libero di posizionarsi nella fila che preferisce).
Un’ulteriore strada percorribile potrebbe essere offerta dal principio del primato del diritto dell’Unione, che, nelle parole della Corte di Giustizia, “impone non solo agli organi giurisdizionali, ma anche a tutte le istituzioni dello Stato membro di dare pieno effetto alle norme dell’Unione”. Pertanto, “gli organismi incaricati di applicare, nell’ambito delle rispettive competenze, il diritto dell’Unione, hanno l’obbligo di assumere tutte le misure necessarie al fine di garantire la piena efficacia di tale diritto, disapplicando all’occorrenza qualsiasi disposizione o giurisprudenza nazionali che siano contrarie a tale diritto. Ciò implica che, per garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione, detti organismi non devono chiedere né attendere la previa soppressione di una siffatta disposizione o giurisprudenza in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”.
Il principio del primato del diritto dell’Unione europea viene in rilievo anche nel caso ad oggetto, con particolare riferimento alle norme sul trattamento dei dati personali. In proposito, la distinzione uomini/donne tra i titolari del diritto di elettorato attivo, imposta dalla legislazione nazionale presenterebbe alcuni profili di contrasto con le norme ivi stabilite. Il GDPR, infatti, vieta il trattamento di dati personali qualora essi non siano “adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati” (art. 5(1) lett. c). Inoltre, il trattamento dei dati può considerarsi lecito nella misura in cui “è necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento” (art. 6(1) lett. e). Questi requisiti e il principio di minimizzazione dei dati cui essi rispondono non sembrano invece soddisfatti dalla normativa italiana. La distinzione uomini/donne, in essa contenuta, infatti, non risponde ad un’esigenza pubblica tale da giustificare la compressione del diritto all’identità personale. Come affermato anche dalla Corte di Cassazione, le operazioni di voto ben potrebbero essere organizzate diversamente, ad esempio, utilizzando il criterio già individuato dalle norme censurate, quello alfabetico. In sede di redazione degli elenchi elettorali, dunque, i funzionari della pubblica amministrazione (contestualmente autorizzati al trattamento dei dati) potrebbero già procedere a disapplicare gli articoli del Dpr procedendo alla creazione e trasmissione degli elenchi elettorali sulla base del solo criterio alfabetico.
In attesa che il legislatore intervenga, al fine di assicurare la debita protezione ai diritti in questione, di fronte alle incombenti elezioni, non resta che invocare l’intervento di un altro fondamentale attore istituzionale: il Garante della Privacy. Quest’ultimo, infatti, nell’alveo dei poteri di monitoraggio che gli sono propri, potrebbe individuare le condizioni necessarie perché tutti possano usufruire di un luogo giuridico accogliente e rispettoso, in un momento cruciale e sensibile quale l’esercizio del diritto di voto.
* Ricercatrice di diritto costituzionale comparato, Università statale di Milano