di Claudio Stefano Tani
Il decennio 1970/1980 si era aperto con la strage di Piazza Fontana e gli echi della bomba (morte di Pinelli, Calabresi e la strage alla Questura di Milano) e chiuso con la strage di Bologna; nel mezzo l’Italicus, via Fani e l’assassinio di Aldo Moro, di Guido Rossa e Walter Tobagi. In questo drammatico clima politico venivano approvati lo Statuto dei lavoratori, il divorzio, il diritto all’aborto, la riforma sanitaria e si avviava l’attuazione dell’art.115 della Costituzione. Questo il contesto alla nascita e alle prime esperienze delle Regioni a statuto ordinario, che smentirono scetticismo di molti.
1, Senza aspettare la l.n.382/1975 sull’ordinamento delle Regioni a statuto ordinario e il d.p.r. n. 616/1977 di attuazione della delega, alcune Regioni anticiparono un intenso processo riformatore della legislazione dello Stato. Due esempi spiegano l’affermazione. Mi limito alla Lombardia, che fu antesignana, ma analogo ruolo svolsero all’epoca altre Regioni.
La riforma sanitaria (l. 833/1978) istitutiva del Servizio sanitario nazionale e la riforma “Basaglia” (l. 180/1978, il più alto esempio di civiltà legislativa mai più superato) furono varate dopo la l.r. 37/1972 della Lombardia di “Istituzione dei comitati sanitari di zona e della medicina preventiva, sociale e di cura”. Gli aggettivi segnavano la svolta.
Un esempio riguardante, invece, l’assetto della proprietà privata in conformità con gli scopi di cui all’art. 42 della Costituzione fu la l. 10/1977, “Norme in materia di edificabilità dei suoli”, nota come legge Bucalossi, approvata dopo la l.r. 51/1975 della Lombardia “Disciplina urbanistica del territorio e misure di salvaguardia del patrimonio naturale e paesistico”.
La qualità normativa regionale di quel decennio era figlia di una genuina visione dell’effettività dei diritti sociali e individuali. Il legislatore regionale proveniva da un largo contesto sociale che lo aveva selezionato e che conosceva bene. La chiarezza della normativa era la premessa per un ceto politico consapevole della necessità di una svolta anche per questo aspetto. La legge regionale esprimeva la volontà di farsi capire dai destinatari e di rispettarli. Il consigliere regionale sapeva che quando parli ti rivolgi a qualcuno e se il tuo interlocutore non ti capisce non parli a nessuno; quando scrivi, scrivi per qualcuno e se il tuo scrivere è non difficile, ma incomprensibile quello che scrivi sarà respinto e dimenticato e la legge non sarà applicata.
Nessuno si aspettava un processo indolore. Seguì un continuo braccio di ferro con i Ministeri decisi a fare delle Regioni nuove burocrazie controllate non dagli organi politici eletti, ma dal personale statale trasferito, padrone delle assegnazioni di risorse e di poteri di spesa in settori strategici come la sanità e l’agricoltura, data l’insufficienza delle risorse ricavabili dalla prima legge (l. 281/1970) sull’autonomia impositiva delle Regioni.
La panoramica più completa di quel decennio sull’evoluzione della legislazione regionale, della giurisprudenza costituzionale, ordinaria e delle giurisdizioni speciali venne offerta da Sergio Bartole e Luciano Vandelli (Le Regioni nella giurisprudenza – 1980, il Mulino).
In quella ricerca (si rinvia all’introduzione di Sergio Bartole) trova conferma il fatto che, in virtù della legislazione regionale e dei nuovi rapporti con i poteri locali, mutava faticosamente anche la dimensione politica dei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadini. I principi organizzativi della riforma regionale e dei poteri locali tentavano, in una nuova dimensione, con qualche illusione di troppo, di costruire una collettività intelligente in cui l’individuo sociale e il suo rovescio, quello liberale isolato, proprietario, calcolatore, avrebbero potuto integrarsi, secondo l’indirizzo dell’art. 2 della Costituzione. Ma le cose andarono diversamente.
2 – Cominciò la sovraeccitazione delle Bicamerali. Alla Commissione Bozzi ‘83/’85, seguirono quella De Mita/Iotti ‘93/’94 e, la più ambiziosa, D’Alema/Tatarella ‘97/’98, che avrebbero dovuto, tra le altre cose, sovvertire il riparto di competenze tra Stato e Regioni. Nessuna finì il lavoro. Il problema era rinviato, ma in un clima politico ormai insofferente alla Costituzione.
Negli anni ’90 l’accresciuta influenza di alcune personalità estranee alla matrice costituzionale fu decisiva; tre nomi su tutti, Gianfranco Miglio, Giuseppe Tatarella e Mirko Tremaglia. Le Regioni furono un duro campo di battaglia di questa seconda fase, egemonizzata dall’ascesa di una classe politica e di Governi espressione della decadenza industriale e della conseguente perdita di peso numerico e di ruolo politico unitario nazionale della classe operaia.
Se le Regioni del Nord oggi sono in prima linea in difesa dell’autonomia differenziata è perché al Nord si è affermata una borghesia semicolta e piena di sé, convinta della propria superiorità e di poter autogovernarsi, frustrata dalla presunta mancanza di attenzione nei propri confronti (su tutto la questione fiscale), incitata da un ceto industriale in cerca di rivincita dopo lo Statuto dei lavoratori e a sua volta messo all’angolo dall’irresistibile ascesa del primato della finanza.
Al Centro Sud la questione meridionale persisteva sotto il segno dell’ambiguità. Sull’avvio dell’esperienza regionale gravarono a lungo gli effetti limacciosi delle rivolte fasciste de l’Aquila e dei “boia chi molla” di Reggio Calabria.
È intatta l’attualità della mai abbastanza studiata lezione gramsciana sulla questione meridionale e di quella liberale di Giovanni Amendola. Anche dal versante più conservatore, che pure aveva grandi responsabilità per l’arretratezza del Sud, non mancarono diagnosi amare di testimoni del fallimento del meridionalismo liberale. Giustino Fortunato scriveva a Pasquale Villari del 1899: “La classe dominante del mezzogiorno sarà per un Governo di reazione e di violenza. L’abisso fra Nord e Sud, anche per questo si andrà sempre più allargando…Ah, l’Italia ufficiale ignora le terribili angustie dell’Italia meridionale”. (G. Fortunato, Carteggio, Laterza, 1981).
Meno di cinquant’anni dopo Rodolfo Morandi, sull’Avanti di Torino del 25 luglio 1945, ricordava come il Nord con i partiti e con il CLN avesse compiuto “un’esperienza politica molto più avanzata. Ciò causa uno sfasamento con il resto del Paese. C’è un divario di metodo e di vedute, perfino di sensibilità, nell’impostare il problema politico italiano”.
La connessione tra divario economico e divario politico non fu mai spezzata. I drammi del Centro Sud della malavita, della disoccupazione e dell’emigrazione, furono affidati a un’industrializzazione coloniale, nel lungo periodo finita nella spoliazione dei territori e nel degrado ambientale ad opera di una criminalità manageriale politicamente protetta.
Lasciamo al loro posto nella storia la devolution o la tripartizione in Padania, Etruria e Mediterranea. A partire dagli anni ’90 vi è stato un processo di osmosi tra Nord e Sud, di segno opposto a quello dal dopoguerra. La criminalità organizzata ha occupato una parte dell’economia del Nord. Gli schiavi e i caporali non sono più soltanto al Sud, ma nel Lazio, nel Veneto, in Lombardia, in Emilia-Romagna, al servizio di multinazionali della logistica, non solo nella raccolta di pomodori, negli allevamenti di bestiame, o nelle risaie vercellesi. Un processo storico concluso con la concomitante sconfitta del principio solidarista e di quello liberale.
3 – La legge sull’autonomia differenziata è soltanto uno stadio avanzato di un processo degenerativo di cui tutta la politica è responsabile.
Il tentativo di risposta organica alle pressanti rivendicazioni autonomiste, dopo la riforma del 2001(l. cost. 3/2001), che nelle intenzioni tendeva a rafforzare le Regioni secondo la logica della sussidiarietà, si risolse nella riforma costituzionale cd. “Renzi/Boschi” con l’intento di diminuire l’autonomia (funzioni e competenze) delle Regioni ordinarie e di congelare con efficacia differita quella delle Regioni speciali con la cd. “clausola di salvaguardia”, puntando al livellamento graduale dell’assetto regionale.
Il dibattito che seguì si concentrò invece, naturalmente, sulla fine del bicameralismo perfetto e sulla riforma connessa del sistema elettorale. Dopo la sconfitta di quella proposta nell’indifferenziato coacervo plebiscitario del referendum del 2016, la riforma del 2001 del Titolo V ha trovato attuazione con la legge Calderoli.
Il referendum e i ricorsi diretti alla Corte costituzionale sono tentativi di terapia sintomatica, che non elimineranno le cause della crisi perché è una sconfitta di sistema, come è stata quella autolesionista inferta con la riforma Monti (l. cost. 1/2012) degli articoli 81 e 97 della Costituzione. E il cerchio si chiude qui, perché sarà proprio la riforma Monti del 2012, con i limiti dettati in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, (vedi art. 2, art. 5, art.9 e art.11 della legge Calderoli) a fissare il quadro finanziario di manovra delle leggi di approvazione delle intese, che in quanto leggi rinforzate non saranno assoggettabili a referendum. L’autonomia differenziata è concepita già paralizzata dalle regole dell’austerità e del patto di stabilità che, va da sé, colpiranno le Regioni finanziariamente più deboli.
4 – Più che giustamente è stato ricordato (G. Azzariti, il manifesto 23 luglio 2024) che non ci libereremo dal “pericolo dell’autonomia così come concepita dall’attuale maggioranza… finché non si riuscirà a cancellare l’attuale disposizione costituzionale”.
Si parva licet: Il rischio più insidioso per il referendum sta proprio nell’affermazione appena citata, nella misura in cui, oggettivamente, gli avversari potrebbero dedurre che la legge Calderoli è l’oggetto simulato della consultazione referendaria, perché quello vero è “l’attuale disposizione costituzionale” da “cancellare” in quanto fonte del “pericolo dell’autonomia” come concepita dalla maggioranza. Il referendum rischia così di essere interpretato come il tentativo obliquo di intervenire sulla disposizione costituzionale e quindi dichiarato inammissibile, anche a prescindere dal dubbio, infondato, se la legge Calderoli sia o non sia a contenuto costituzionalmente necessario o addirittura vincolato.
La fretta è una pessima consigliera. La Prof. Roberta Calvano (su questa rivista 01/07/ 2024) ha messo giustamente in guardia sui rischi del referendum con un quesito unico avente ad oggetto tutta la legge Calderoli e dei ricorsi diretti delle Regioni alla Corte costituzionale.
La precipitosa decisione per un quesito referendario unico su un testo di legge avente ad oggetto tante, troppe, materie tra loro disomogenee suscita forti perplessità. Voglio essere smentito, ma il rischio di inammissibilità del referendum abrogativo totale, alla luce del trend giurisprudenziale della Corte costituzionale ricordato dall’Autrice, è tutt’altro che ipotetico. La Corte costituzionale non ha mai cambiato la propria idea a proposito di libertà di voto nel referendum; materie diverse non possono essere sottoposte a un unico quesito indifferenziato. In altre parole la Corte ci ha sempre detto che, nel referendum ai sensi dell’art 75, la libertà di voto consiste nella libertà di scegliere cosa abrogare e cosa non abrogare di una legge.
Non deve trarre in inganno l’illusione che in gioco ci sarebbe una sola materia omnicomprensiva, ovvero in un unico indivisibile contesto tutte le forme e le condizioni di autonomia di cui al terzo comma dell’art 116 e nemmeno il fatto che l’art.75 della Costituzione contempli anche l’abrogazione “totale” di una legge mediante referendum.
Il criterio è quello dell’omogeneità; la domanda ricavabile dalla lettura delle singole abrogazioni richieste e di quelle non richieste deve essere chiara, semplice, coerente e comprensibile. Invece il quesito unico costringe a dire sì o no, con una sola manifestazione di volontà, indifferentemente a ciò che si vuole abrogare e a ciò che non si vuole abrogare; anzi a ciò che il cittadino medio “crede di sapere” di voler abrogare o non abrogare. E se non gli è chiaro, salvo che sia teleguidato, come dargli torto se in buona fede non voterà?
È come sperare nel jackpot, ammettiamo, ma l’unica esile chance di ammissibilità del quesito di abrogazione totale è, forse, soltanto che la normativa residua non potrebbe essere accusata di incoerenza, nella misura in cui in caso di vittoria dei “sì” tutto tornerebbe come prima, con il tempo per un’inversione di rotta. Si creerebbe una situazione di stasi, che a volte, anche in politica, è un’incomparabile chance, di cui però è dubbio che l’attuale classe politica, compresi i promotori del referendum, approfitterà per rimediare ai guasti del passato.
Per il ricorso diretto alla Corte costituzionale il problema è la sussistenza dell’interesse al ricorso, consistente nella lesione attuale e concreta della sfera di competenza costituzionalmente garantita della Regione ricorrente (Corte cost. n. 216/2008). L’interesse ad agire potrebbe anche presupporre la sola esistenza della legge da impugnare, a prescindere dal fatto che non sia stata ancora applicata (Corte cost. 88/2006), ma soltanto se è sicuro che quando sarà applicata, ciò avverrà con quel concreto e sin da ora predeterminato contenuto ritenuto lesivo della sfera di competenza della Regione ricorrente (art. 127 Cost.).
Tuttavia non si versa in questa eventualità, tanti sono i labirintici percorsi (vedi l’art.2 sul Procedimento di approvazione delle intese) che rendono incerti sia i tempi, sia i concreti contenuti applicativi della legge. La possibilità (art.116, III c. Cost.) di ulteriori forme particolari di autonomia sono affidate a un futuro ed incerto contenuto di ogni singola intesa. Se non vi è alcuna certezza su quale sarà il concreto regolamento degli interessi disciplinato da ogni intesa con le singole Regioni, né quali pregiudizi deriveranno agli interessi costituzionalmente garantiti di altre Regioni, manca la prova della lesione; prova che deve essere data per ogni fattispecie che attribuirà le “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”.
Insomma, siamo di fronte a una legge di natura eminentemente procedimentale, congegnata, oggettivamente, per scongiurare sia il referendum, sia i ricorsi diretti delle Regioni. La giustizia costituzionale non potrà essere di aiuto senza un’autocritica radicale e un’iniziativa “politica” che segnino l’inversione di rotta rispetto a quella intrapresa dalla sovraeccitazione dei decenni passati nel mettere mano alla Costituzione.
Smettiamo anche di chiedere alla Corte costituzionale di farsi camera di compensazione di quello che la politica non sa, non può o non vuole fare. La cosiddetta “anima politica” della Corte non può essere sempre invocata ed è una doverosa prudenza evitare cocenti delusioni. Ma riprendiamo il vero problema più evidentemente politico.
5 – Si tratta di un referendum su una legge che non offre all’elettore opzioni culturali e ideologiche chiare e immediate riguardanti i diritti soggettivi individuali, ma coinvolge molti aspetti eminentemente tecnici. Si versa quindi in una situazione in cui al referendum, in ipotesi dichiarato ammissibile, si arriverà con tanti aspetti non proprio chiari per il cittadino.
Nei referendum la presenza di opzioni ideologiche e culturali chiare è condizione necessaria, ma non sufficiente. Come è sempre avvenuto, se non vi è sintonia, o vi è contrasto con lo stadio evolutivo della società il voto sancirà la sconfitta dei promotori. I referendum su divorzio (1974) e aborto (1981) sanzionarono la sconfitta della destra integralista cattolica rispetto all’evoluzione della coscienza sociale dei diritti civili cui quella parte sociale e politica non voleva rassegnarsi e, sul secondo, non si è tuttora rassegnata.
Sul versante opposto l’esito del referendum del 1985 per abrogare il colpo di mano del decreto di San Valentino sulla scala mobile sanzionò la sconfitta della sinistra la cui base sociale aveva sostenuto quasi da sola tutto il peso della ripresa post bellica. Era una base sociale composta anche da grandi masse di immigrati dal Sud, che erano portatrici non solo di manodopera alla catena di montaggio, ma di cultura, come lo sono stati tutti i grandi fenomeni migratori. L’esperienza del Nord e quella del Sud Italia si erano giustapposte completandosi a vicenda in un processo storico unitario, laddove l’Italia liberale aveva segnato il suo più tragico fallimento.
A questa base sociale, che dalla metà degli anni ‘70 era alle prese con la prima grande crisi industriale, da anni (dal 1977 con il discorso di Berlinguer all’assemblea degli operai del Pci di Milano) erano stati proposti, a chi li aveva sempre praticati, rigore e austerità; mentre la parte di ceto medio antioperaia si stava riorganizzando e riprendendo (la marcia degli ottantamila) gli spazi lasciati liberi dalla sinistra che aveva raggiunto l’apice elettorale e di influenza politica, ma iniziava la parabola discendente. Quel referendum chiuse definitivamente ciò che era rimasto dei quindici anni inaugurati con lo Statuto dei lavoratori.
6 – Il problema di oggi, è che stiamo trattando di una legge contestata non dalla società, ma da una parte della classe politica e sindacale, per di più essenzialmente perché “limitativa delle prerogative parlamentari e costituzionali” (G. Azzariti, il Manifesto, 23 luglio 2024), cioè delle prerogative della cd. “casta”, con riferimento particolare alla delega al Governo per la determinazione dei cd. LEP; una legge che “potrebbe” essere base di “eventuali” future intese che a loro volta “potrebbero” essere incostituzionali (Azzariti); tutto sempre al condizionale, espressione di un dubbio, di un’incostituzionalità futura ed “eventuale”. Ma per sapere “se il corpo elettorale può abrogare una legge ritenuta alle origini di un regresso di civiltà” (Azzariti) soltanto da una parte della classe politica, affidarsi all’”elevato grado di imprevedibilità” (Azzariti) della Corte costituzionale è la resa della politica. Valutare questo non significa “indugiare su letture regressive della giurisprudenza costituzionale” (Azzariti).
Non c’è la legge Calderoli alle “origini di un regresso di civiltà”. Essa è soltanto una tappa di un processo politico che nessuno sembra avere intenzione di porre in discussione. Pochi esempi. La precarietà si è ammantata della flessibilità; il diritto alla salute è sul mercato delle polizze assicurative; di progressività tributaria nemmeno a dirlo, si fa solo demagogia facendosi prendere in giro dai più ricchi che “implorano (!) di essere tassati di più”; il diritto al titolo ha sostituito il diritto allo studio e le università e gli istituti privati telematici dominano lo squid game del mercato dei titoli per conquistare l’abilitazione per diventare insegnanti.
Quali sono i partiti realmente pronti a invertire la rotta definita nel 2001 e nel 2012 “alle origini di un regresso di civiltà” ? Non è dal referendum o dalla Corte costituzionale che verrà la risposta.