di Claudio Stefano Tani
1 – Janek – Siamo alla fine del 1942 con un gruppo di resistenti polacchi; si attendono notizie sull’esito della battaglia di Stalingrado e la capitolazione dell’esercito hitleriano. Il quindicenne Janek aveva aperto il grosso volume di diritto costituzionale dell’amico Tadek Chmura alla pagina che riportava la Dichiarazione dei diritti dell’uomo – Rivoluzione Francese del 1789, richiudendola “con un sorrisetto canzonatorio”.“Sì lo so, – disse Tadek con dolcezza – è davvero difficile prendere quelle cose sul serio, vero? L’Europa ha sempre avuto le migliori e più belle università del mondo. È là che sono nate le idee più alte, quelle che hanno ispirato le nostre opere più grandi: i concetti di libertà, di dignità umana, di fraternità. Le università europee sono state la culla della civiltà. Ma esiste anche un’altra educazione europea, quella che viene impartita adesso: i plotoni d’esecuzione, la schiavitù, la tortura, lo stupro, la distruzione di tutto quel che rende la vita bella. È l’ora delle tenebre”. (Romain Gary, Educazione europea ,1945, Ed. Gallimard 1956, ed.it. 2006, p. 82).
Alla fine Janek, ricordandolo con la giovanissima innamorata partigiana Zosia, dà ragione all’amico Tadek, il quale “sapendo che stava per morire, metteva l’ironia dappertutto”. “L’educazione europea sulla quale era solito scherzare è quando fucilano tuo padre, o quando tu stesso ammazzi qualcuno in nome di qualcosa di importante, o quando crepi di fame, o radi al suolo una città. Ti dico che siamo stati a una buona scuola, tu e io, ci hanno educati davvero” (ivi, 256).
Sotto le bombe, al precario riparo di un rifugio per studenti, doveva essere davvero difficile prendere sul serio un manuale di diritto costituzionale e i sacri principi dell’89. Le tenebre del nazifascismo furono vinte anche grazie a quegli studenti. E passò il tempo dell’euforia. Oggi è passato il tempo del ricordo dell’esperienza umana che fu quella guerra. In Europa si è tornati a morire in guerra, soldati e civili nel freddo e nei patimenti, circondati dall’odio, dal disprezzo e dalla solitudine che la guerra genera. Anche oggi è difficile prendere sul serio un manuale di diritto costituzionale, la Dichiarazione dell’89 e tutte le altre solenni successive dalla Carta dell’ONU in poi. Non c’è più la maturità dalla quale le illusioni sono escluse ma non tutto è dimenticato. Non ci sono più i sistemi di controllo e di regolazione dei conflitti internazionali con cui dal dopoguerra si riuscì ad evitare il baratro e a contenere l’esplosione della violenza teorizzata della guerra permanente di quest’epoca, in cui si apre all’idea dell’uso di armi atomiche “tattiche”, tante piccole Hiroshima che farebbero “soltanto pochi milioni” di morti. E il ricordo va al poeta inglese del XVI secolo: “non chiedere mai per chi suona la campana, /essa suona per te”.
“Amo tutti i popoli, ma nessuna nazione. Sono un patriota, non un nazionalista” – “Che differenza c’è?” chiede Janek al commissario politico Dobranski: “Il patriottismo è amare la propria gente; il nazionalismo è odiare gli altri. Russi, americani…Un grande sentimento di fraternità va maturando nel mondo, i tedeschi saranno serviti almeno a questo” (R. Gary, cit.,238). Dopo aver ucciso un soldato tedesco inerme, prendendo la mira “con calma”, Janek reagirà “con collera” alle parole di Dobranski:” Ma alla fine, quel che ti insegna tutta questa famosa educazione europea è come trovare il coraggio e delle buone ragioni, valide e convenienti, per ammazzare un uomo che non ti ha fatto nulla e che se ne sta seduto sul ghiaccio con i pattini e a testa china, aspettando la fine”. “Hai imparato molto”, disse tristemente Dobranski” (R. Gary, cit., 263). Janek e il soldato tedesco in quel momento erano il centro della grande storia.
Oggi al centro della grande storia ci sono l’uomo e la donna palestinesi, vite che non contano come quella del bambino di Gaza che non ha mai avuto una vita davanti a sé. È un altro sterminio più grande, a Gaza non è neanche guerra, è un esercizio di tiro contro bersagli che non possono neanche muoversi e che non finirà con il breve respiro di qualche settimana di sospensione della carneficina che ricomincerà con qualsiasi pretesto; è la ripetizione di un’idea che nega l’umanità del nemico, anche del singolo individuo come aveva imparato Janek, una vecchia storia di violenza e di bugie. E fra le bugie c’è la speranza, anzi di più il “dovere” della speranza, che è il più crudele inganno inventato dalla religione per illudere gli oppressi.
“Nessuno è così pazzo da preferire la guerra alla pace. In pace sono i figli a seppellire i padri, in guerra sono i padri a seppellire i figli” (Erodoto, Le Storie, I, 87). Ma per pace non tutti intendono la stessa cosa. Vive ancora l’idea che “la gloria più grande per una nazione sia di fare il deserto intorno a sé devastando il territorio circostante…pensano che tale situazione li renderà più sicuri…” (Giulio Cesare, De bello gallico, VI, 23). La pace nella storia è seguita sempre alla resa, alla vittoria dell’uno sull’altro; prima c’è solo rapina, massacro, saccheggio. “Parcere subiectis, et debellare superbos” (Virgilio, Eneide, VI, 853), risparmiare chi si sottomette e annientare chi non si piega. Se poi la guerra è incalzata dal fanatismo religioso la violenza è senza limiti.
2 – Dopo le guerre vengono gli affari – Alle guerre seguono gli esodi e gli affari. Per frenare gli esodi hanno inventato l’affare dell’esternalizzazione delle frontiere. Non si può confidare che il processo possa essere fermato da iniziative giudiziarie che risolvono singoli casi; lo dimostra anche la recente ordinanza della Corte di cassazione, minuziosamente bilanciata tra le opposte tesi sulla competenza ad accertare caso per caso se sussiste l’instabile, discutibilissima garanzia di “paese sicuro”; garanzia soltanto formale per il singolo migrante, basata su interessi politici estranei e a danno dei diritti e della reale condizione soggettiva del richiedente asilo, la cui situazione rimarrà comunque in balia della variabilità dell’opinione dei diversi giudici. La sentenza della Corte di Lussemburgo che seguirà, pure se, in cauta ipotesi, favorevole alle tesi del Tribunale di Roma, non arresterà un processo politico in corso in Europa nel suo insieme, al massimo lo condizionerà in parte e per qualche tempo, perché gli interessi politici ed economici in gioco trascendono i singoli casi.
Tra gli interessi economici in gioco ci sono anche quelli consistenti in pratiche di violenza, accaparramento di terre e deportazioni come il land grabbing, sostenuto dalla Banca Mondiale (il 70% concentrato nell’Africa subsahariana), considerato reato ambientale tra i più gravi dalla Corte penale Internazionale. Ma è un affare anche l’organizzazione della detenzione dei migranti in appositi centri, prigioni senza garanzie, affidate a multinazionali private come il CPR di Ponte Galeria, dove si suicidò Ousmane, l’ORS (Organization of Refugees Service) Italien s.r.l. che fa parte del NEW ORS GRUPPE, con 1300 dipendenti in Germania, Francia e Italia e opera in altri paesi europei. Altre società dello stesso tipo sono sorte, a volte sono rilevate da private equity il cui scopo è valorizzarle e rivenderle. L’opposizione della sinistra democratica e liberale si oppone più per l’inefficienza e gli sprechi che per lo scandalo umanitario.
Quanto agli interessi politici il fatto è che in Europa si sta affermando una classe politica dirigente composta in prevalenza da politici e capi di stato interessati, mossi soltanto da sete di dominio e avidità e impostura; in altre parole non da patrioti come quelli di cui Dobranski parlava al giovane Janek, ma da “predicatori di patriottismo” come quelli auspicati da Novalis (Frammenti, ed. it. BUR 1976, introduzione di Enzo Paci, trad, di E. Pocar, frammento n. 884, p.227) del quale Hitler era ammiratore.
3 – Le donne anche oltre la guerra – Per le donne la guerra è una tragedia che si aggiunge alla violenza quotidiana di sistemi religiosi, di istituzioni sociali e politiche. I corpi delle donne fanno ancora un problema (Enrico Redaelli, Judith Butler. Il sesso e la legge, Feltrinelli, 2024). Non regge più il precedente sistema di relazioni sociali, le radici del patriarcato sono marcite, ma non sono estirpate e le promesse di libertà convivono con nuove forme di schiavitù. In tutto il mondo lo statuto delle donne è pessimo; conquiste di decenni incontrano ostacoli, i livelli di libertà che sembravano irreversibili sono rimessi in discussione e la guerra aggrava ancora di più la loro condizione.
Nel nostro piccolo mondo, nonostante le vite di donne eminenti in ogni campo della vita sociale e culturale, la questione femminile e la violenza verso le donne, le sfaldate ma persistenti ideologie del patriarcato e la violenza che vi si annida, una vera e propria guerra che divide verticalmente la società, si risolvono in discussioni sull’educazione scolastica alla sessualità, all’affettività, come se fossero materie qualsiasi di un ordinario curriculum di studi, ma non si attaccano le cause di classe della tragedia sociale e individuale di tale portata. L’ipocrisia sociale e politica prevale e nonostante la tragica quotidianità svelata nelle aule di giustizia, addossa ancora tutto il peso alla sempre più stanca, precaria e disfunzionale “società naturale fondata sul matrimonio”. “Magnifica istituzione morale, famiglia santa, fondazione divina, inattaccabile, che deve educare i cittadini alla sincerità e alla virtù! Tu sacro focolare di ogni virtù, dove i piccoli innocenti vengono torturati fino dalla loro prima menzogna, dove la forza di volontà viene frantumata dal despotismo, dove lo spirito d’indipendenza viene cancellato dal più cieco egoismo! Famiglia, sei il focolare di ogni vizio sociale, sei il rifugio di ogni donna indolente, una stretta catena per ogni padre di famiglia, l’inferno per i più piccoli!” (August Strindberg, Fame e paura, in Tempo di fermenti- Il figlio di una serva – 1849/1867, Ed. Garzanti, 1975, p. 11).
4 – Le farisaiche lamentele sul “deficit democratico” per giustificare la messa in discussione delle forme di legittimazione dello Stato costituzionale – Prestando attenzione a non appiattire sull’attualità un termine come “bonapartismo”, il populismo del XX secolo e quello attuale, nella loro essenza, sono varianti evolute di quello di Luigi Napoleone, descritto da Marx ne “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”, che per profondità di analisi e rilevanza dell’oggetto è ancora attualissimo. Poco prima della battaglia di Sedan Marx scriveva a Engels che il Secondo Impero sarebbe finito come era cominciato, con una parodia: “ho davvero indovinato nel mio Bonaparte!…Credo che noi due siamo gli unici che from the beginning abbiamo considerato Boustrapa (-Luigi Napoleone) in tutta la sua mediocrità come semplice showman e non ci siamo mai lasciati confondere dai suoi successi momentanei”(Carteggio Marx-Engels, VI trad. it. Roma, 1953, p.116. La lettera è datata 17 agosto 1870; le parole in inglese sono nel testo). A sua volta Engels scriveva a Marx alla vigilia della guerra austro-prussiana, a parte il caso dell’Inghilterra, dove un’oligarchia governa per conto della borghesia, “una semi dittatura bonapartista è la forma normale; essa attua gli interessi materiali della borghesia perfino contro la borghesia, ma non le lascia nessuna partecipazione al potere” (Carteggio Marx-Engels, IV, Roma 1953, p.126).
Nuovi nazionalismi e nuovi populismi si sono affermati oggi in Europa e mettono in discussione le forme di legittimazione dello Stato costituzionale. Si parla in continuazione di “deficit democratico”; si lamenta, senza spingersi oltre, l’esistenza di sistemi elettorali che trasformano gli elettori in mandrie da voto (voting cattle, Arthur F. Bentley, Il processo di governo, ed.it. 1983, p. 503) e le istituzioni nella pianta organica di partiti sempre più contendibili, in un attacco alla democrazia che in Italia farebbe rivoltare Luigi Sturzo e Piero Gobetti. Nessuno va oltre la litania del rafforzamento dell’Unione Europea come parte di un processo di costituzionalizzazione del diritto internazionale, nell’illusione che questo basterà per superare la crisi. Prendiamo atto che il diritto sovranazionale europeo ha snaturato il diritto costituzionale dei singoli paesi e ha fallito gli scopi prefissati; non c’è accordo nemmeno sull’idea di diritto che le costituzioni esprimono. E il populismo dilaga senza ostacoli.
Prestando, si ripete, attenzione quando si esamina l’attualità, nondimeno prendiamo atto che lo scopo dei populismi non cambia; variano le tecniche di propaganda adattandosi sul fronte sociale interno, dei soldati sui fronti di guerra, dei nemici e degli alleati. I nazionalismi e i razzismi dilagano. Le invocazioni identitarie e all’annullamento di valori e documenti culturali diversi dai propri alzano la voce. La libertà di stampa e d’informazione è neutralizzata dall’interno.
5 – Il giornalismo e i manipolatori della storia – Viene in mente il dialogo immaginario all’inferno tra Machiavelli e Montesquieu. Il secondo difende le sue convinzioni sull’inarrestabile marcia del liberalismo. Machiavelli risponde profetizzando, post eventum, il modo in cui chi si sarebbe impadronito del potere avrebbe messo a tacere le opposizioni con la violenza e con le lusinghe, creato diversivi con avventure militari e dietro il paravento delle libertà formali creando un “despotismo gigantesco”, concludendo amaramente che “Il despotismo è l’unica forma di governo davvero adatta alla condizione dei popoli moderni. Intravedo la possibilità di neutralizzare la stampa per mezzo della stampa stessa. Poiché il giornalismo è una forza così potente, il mio governo diventerebbe giornalista. Sarebbe il giornalismo incarnato…” (citazione da uno scritto apparso in forma anonima a Bruxelles di un avvocato, Maurice Joly oppositore di Napoleone III che nel 1864 mise in scena Dialogue aux Enfers entre Machiavel e Montesquieu, ou la politique de Machiavel au XIX siècle par un contemporain, Bruxelles 1864, pp 48/49 – Lo scritto venne ripubblicato col nome dell’autore, tradotto in tedesco, Lipsia 1865, riscoperto e ripubblicato, Parigi 1948, 1968).
Mussolini forse non aveva letto quello scritto, ma da esperto giornalista praticò a mano bassa la pubblicità commerciale come modello di propaganda politica. Hitler teorizzava la propaganda negli stessi termini: “il suo compito deve consistere … come nel manifesto pubblicitario, nel rendere attenta la massa… l’azione di massa deve essere sempre diretta più al sentimento, e solo secondariamente al cosiddetto intelletto… Chi vuol guadagnarsi la grande massa, deve conoscere la chiave che apre la porta del suo cuore. Non si chiama oggettività, cioè debolezza, ma volontà ed energia”. (A. Hitler, Mein Kampf, citato da Delio Cantimori, Appunti sulla propaganda, 1941, in Politica e storia contemporanea. Scritti 1927-1942, Torino 1991, pp. 685-686). Enfasi pubblicitaria, manipolazione occulta sono il carattere micidiale di tutte le varianti del despotismo del nostro tempo. La libertà di stampa viene neutralizzata per mezzo della stampa stessa. Al nazionalismo e al razzismo non servono grandi uomini politici e grandi statisti. Mediocrità individuale e talento da showman, autoritarismo e plebisciti sono le qualità indispensabili; un miscuglio che ha spesso grande fortuna. I governi diventano giornalisti e oltraggiano la cultura e la storia del proprio paese.
L’analisi di W. Benjamin, forse la mente più acuta del secolo scorso, sul fascismo come regime pubblicitario è attualissima. Tra i materiali raccolti da Walter Benjamin per il suo grande progetto incompiuto su Parigi capitale del XIX secolo vi è uno squarcio che fa luce sul passato, sul presente e sul futuro: “Un giorno un osservatore perspicace ha detto che l’Italia fascista era diretta come un grande giornale, nonché da un grande giornalista: un’idea al giorno, dei concorsi, delle sensazioni, un abile e insistente orientamento del lettore verso alcuni aspetti della vita sociale smisuratamente ingranditi, una deformazione sistematica della comprensione del lettore per determinati scopi pratici. Insomma i regimi fascisti sono regimi pubblicitari” (J. De Legnères, Le centenaire de la Presse, 1936, citato da W. Benjamin, Das Passagen Werk, a cura di R. Tiedemann, 1982, trad.it. Parigi capitale del XIX secolo, Torino, 1986, pp. 954-55).
6 – La guerra è la fine dello stato sociale – Alle origini della collera verso il fisco – Lo stato nelle mani di pochi, trasformato in una struttura giuridica-burocratica al servizio di un’aristocrazia del denaro – Oggi nell’Unione ha vinto l’idea che c’è troppo welfare e che bisogna adeguarsi alla nuova realtà della guerra, rassegnandosi a nuovi sacrifici. Il sistema fiscale va adeguato alla gravità del momento. L’argomento è buono per oscurare le responsabilità politiche.
La storia si ripete da secoli. Il “pagamento della decima”, raffigurato nel famoso dipinto di Peter Brueghel del 1618, serviva alla Chiesa non per le opere di carità, ma per i bisogni del culto e il mantenimento dei sacerdoti. Quando mai le somme riscosse sono state devolute ai poveri, o sono servite ad alleviare le condizioni delle classi sociali inferiori dalle quali spesso sono ricavate? Alle origini storiche della collera dei ceti popolari verso il fisco predomina il sentimento di iniquità, perché all’incapienza e all’impossibilità di pagare le somme pretese si aggiunge la convinzione che il denaro versato servirà soltanto ad arricchire quelli che stanno in alto. Gli esempi non mancano anche nella nostra storia recente.
Le crisi ricorrenti e la disgregazione del sistema industriale, in Italia e altrove, sono state sempre pagate con denaro pubblico ricavato dalle imposte ai ceti medi e medio bassi e girato alla proprietà e ai manager responsabili delle crisi; un’oligarchia che usa i parlamenti, che si lasciano usare di buon grado, mettendo in scena una drammaturgia mediatica soltanto per estorcere soldi allo Stato e alimentare la speculazione. È stata distrutta la conquista principale della Costituzione, che non fu la mera dichiarazione astratta di principio dei compiti della Repubblica (artt. 2 e 3), ma la concreta predisposizione dei mezzi per realizzarli (art.53), sull’insegnamento di due insigni economisti cattolici, Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno, dimenticati proprio dagli stessi cattolici al governo dagli ultimi cinquant’anni.
Ma guai a interrogarsi, a destra e a sinistra, sulle ragioni per le quali a partire dalla metà degli anni settanta la progressività tributaria, che aveva favorito la ricostruzione, è stata bandita, l’art. 53 della Costituzione è stato gettato alle ortiche, le imposte per i ricchi sono state ridotte e per i ceti medi e medio-bassi moltiplicate, il debito pubblico è schizzato alle stelle, abbattendosi drammaticamente in termini reali su salari già in caduta rispetto ai profitti a causa dell’inflazione, ostacolando la redistribuzione del reddito. Dal 1974 al 2018 tutto ciò ha causato una riduzione del gettito di 146 miliardi di Euro e lo Stato per ovviare al disastro da esso stesso provocato è ricorso ai mercati finanziari, accollandosi, in virtù degli interessi composti, circa 300 miliardi di debito (cfr. Gli effetti delle controriforme fiscali sul nostro debito pubblico, a cura di R. Artifoni, A. De Lellis, F. Gesualdi, reperibile in http://italia.cadtm.org/wp-content/uploads/2018/10/Fisco & Debito1-1.pdf). Il carico tributario, che dovrebbe essere uniforme soltanto di fronte a situazioni di fatto identiche ai fini dell’imposizione del tributo, come stabilì la Corte costituzionale nel lontano 1985 (dec. 104/1985), con l’abbandono del principio di progressività è diventato totalmente arbitrario e irrazionale. L’invocato sistema fiscale unico europeo non risolverà il problema; la giustizia fiscale attraverso la progressività è estranea ai fini dell’Unione.
Il sistema finanziario, che doveva sostenere il capitale industriale, è padrone incontrastato della circolazione e dell’accumulazione del capitale, controlla il sistema fiscale degli Stati, decide per i governi di destra e di sinistra, imponendo sacrifici e austerità ai ceti medi e medio bassi, ma non agli azionisti il cui grado di felicità diventa l’unico parametro dello stato di salute dell’economia. I padroni del sistema finanziario decidono le politiche di welfare e le politiche ambientali; le leggi di bilancio in Italia da decenni destinano denaro ricavato dalle entrate fiscali sistematicamente in contrasto con gli scopi e i doveri costituzionali: per esempio priorità assoluta alla scuola e alla sanità pubbliche. Le crisi industriali sono effetto della deviazione del mercato del denaro verso forme di investimento il cui scopo non è promuovere lavoro e incrementare la produttività. Si pone allora una domanda inevitabile.
7 – Quale Costituzione stiamo difendendo ? – Tutti gli appelli in difesa della Costituzione sono sacrosanti, a volte persino commoventi. Ammettiamo però onestamente che la Costituzione del 1948 che si chiede di difendere non c’è più. Gli artt. 2 e 3 sono stati svuotati con la sequela di riforme soppressive della progressività e poi con la riforma degli articoli 81 e 97 del 2012. La struttura unitaria, al contempo pluralista e autonomista dello Stato è stata disarticolata dalla riforma del 2001 e non sarà ricostruita in virtù di un’anatomica sentenza sulla sgangherata legge attuativa.
Una sentenza della Corte Costituzionale non arresta un processo politico, al massimo lo rallenta. Gli esempi lo dimostrano. La reazione di tutta la politica alla sentenza n. 1/2014 sulla legge elettorale, qualunque sia stato il giudizio dei commentatori (i famosi normalizzanti, razionalizzanti e contrarianti), prova che è vana l’impresa per rientrare nella Costituzione quando sono in gioco gli interessi della classe politica. Il precedente costituito da quella sentenza non fu chiuso dai giudici e dalla dottrina, ma dal sistema politico preoccupato del fatto che in quel caso la tutela dei diritti (il diritto di voto) non aveva vinto sulla legge, ma sulle ragioni della politica; il che era ovviamente insopportabile.
8 – Premierato – La posta in gioco è il dominio – Nell’attualità c’è anche il “premierato”. Non si intende dare risposte, che spettano a chi ne sa ben di più e che sono già state date anche su questa rivista (R. Bin, Una riforma da ridere, 12/01/2023 e Il premierato è una bufala e ha due corni, 22/03/2024), ma soltanto, come per le precedenti considerazioni, indicare un problema. La riforma è in cima alla lista del Governo non soltanto per ragioni di immagine, anche se l’immagine in politica è spesso decisiva. Pertanto non è da escludere a priori che al premierato, o magari a qualche pasticcio somigliante con altro nome, con tutte le connesse riforme della II Parte della Costituzione, si arriverà.
La causa plebiscitaria dell’idea stessa è nella cultura dell’attuale partito di maggioranza perché, ben oltre le illogicità giuridiche che presenta, la questione centrale, attraverso la neutralizzazione del Parlamento e del Presidente della Repubblica, è il “dominio”; non è l’efficienza dell’azione di governo, o “l’unità di indirizzo politico e amministrativo”, o la promozione, la collegialità o il coordinamento dell’attività dei ministri.
Se il partito di maggioranza e il Presidente del Consiglio attuali ritengono i tempi maturi per avviare una tale riforma forse non sbagliano. È una riforma preparata da tempo e un po’ da tutti, visto che i poteri del Presidente del Consiglio da oltre trent’anni si sono ampliati di fatto oltre la nozione di indirizzo e di coordinamento, e senza un contrasto effettivo da parte della classe politica nel suo complesso; anzi è prevalsa l’insofferenza per le limitazioni costituzionali all’aspirazione al dominio e per il bilanciamento tra i poteri. Per dirla più chiara: quella contro il premierato è una battaglia giusta, ma difensiva e di retroguardia perché l’assetto costituzionale è già deviato da anni dalla prassi politica; le leggi elettorali succedutesi negli anni nel falso nome della “governabilità” (note con i nomignoli di mattarellum, porcellum, italicum e rosatellum) sono state causa ed effetto della deviazione.
Ma si aggiunge ora un nuovo potere che non tollera limitazioni e che si oppone frontalmente al tradizionale sistema istituzionale di controllo democratico, finora molto faticosamente praticato, mettendone a rischio la stessa esistenza.
9 – Intelligenza artificiale – Lo Stato è la vera posta in gioco – Un attacco feudale alla democrazia – Ovunque il potere politico si è trasferito in luoghi che non sono i parlamenti ed è saldamente nelle mani di soggetti che non hanno necessità di legittimazione fondata su un consenso elettorale ormai svuotato di significato e fondato sull’imbroglio. Dagli anni ottanta del secolo scorso si è consolidata enormemente una già potente classe a sé stante, quella dei banchieri e finanzieri. Il processo era intuito da Marx nei Grundisse (si rinvia allo studio importantissimo di David Harvey, Leggere i Grundisse, Un viaggio negli appunti di Karl Marx, trad. di Emanuele Giammarco, 2024 ed. Alegre). Viviamo oggi in un mondo enormemente diverso e non paragonabile, ma il flusso del pensiero che emerge nei Grundisse, destinato a confluire nel Capitale, senza nemmeno lontanamente pensare di dedurne risposte per il presente, può valere come metodo di analisi per aiutarci anche soltanto a ragionare su alcuni aspetti dell’evoluzione del capitalismo contemporaneo.
Oggi a banchieri, finanzieri e assicuratori si aggiungono i giganti padroni dell’IA, una mega-macchina sostenuta da gigantesche infrastrutture produttive, cavi sottomarini che uniscono i continenti, siti minerari (come finirà il duello ad armi spianate per il dominio sull’Artico?), fabbriche, centri logistici, che sfruttano all’esaurimento risorse naturali, lavoro umano e privacy. L’IA è al servizio di queste strutture di potere che mettono a rischio l’uguaglianza e la libertà, combattono la propria guerra di classe contro tutte le altre classi, le quali non hanno la forza e punti di riferimento culturali e politici per fare fronte comune in difesa dei propri interessi generali. La forza smisurata di questa nuova classe è che non ha alcuna necessità di confrontarsi sia con i lavoratori e sia con tutte le altre classi tradizionali (latifondisti, industriali, capitalisti mercantili); possiede e usa i parlamenti come propri strumenti.
Qualcuno si illude che l’IA possa essere resa etica, democratizzata e messa al servizio della giustizia e dell’uguaglianza anziché della discriminazione e dello sfruttamento. È la più vana delle illusioni, è un inganno. Il potere e le strutture che fanno funzionare l’IA si basano sul controllo centralizzato. Come fa notare Kate Crawford (Né intelligente, né artificiale – Il lato oscuro dell’IA, 2024, il Mulino, pp. 255-259) l’etica non fa parte della posta in gioco perché non c’è etica nel sistema. Si potrebbe quindi concludere che soltanto allo Stato dovrebbero essere riservati la proprietà, il funzionamento e il controllo. È evidente che allora la vera posta in gioco è ancora e sempre il “dominio”, un nuovo assetto del potere politico e dello Stato, non pietosi principi da scrivere in un illusorio codice etico.
L’IA è diventata un vero e proprio Oracolo, come quelli dell’antichità, ai quali non si rivolgevano il re o il sacerdote che ne erano i padroni e li alimentavano, ma il popolo. “Siamo spettatori di connessioni di cui non cogliamo il significato, ospiti di uno strano palazzo della memoria. Tra l’apocalisse e la delusione, vogliamo consultare l’Oracolo…” (Alessandro Aresu, Geopolitica dell’intelligenza artificiale, Feltrinelli, 2024). Il concentramento di potere, il passaggio politico e di classe che comporta è senza limiti. E non c’è vincolo costituzionale in grado di imporsi. L’art. 21 della Costituzione è un residuo di altri tempi nella misura in cui pochi soggetti hanno il controllo totale dei flussi informativi; il resto sono microorganismi che si agitano sui social nella povera illusione, indotta, di “manifestare liberamente il proprio pensiero”.
Il problema è che il sistema pubblico è incapace di pagare e sostenere un’infrastruttura legata a immense potenzialità commerciali. Lo Stato detentore del monopolio legittimo della violenza, garante della sicurezza nazionale e dei diritti individuali è progressivamente svuotato e schiacciato dagli interessi dei detentori di un tale potere. Il ceto politico in larga parte si è messo al riparo e al servizio della nuova classe potente quant’altre mai, assumendone gli interessi.
10 – Il conflitto tra realtà e testo costituzionale è insanabile? – Insomma non si vede la coscienza del fatto che gli enormi mutamenti intervenuti nella storia, la nuova collocazione mondiale degli stati europei, gli sviluppi travolgenti della rapidissima trasformazione dell’economia capitalistica e le fratture politiche che ovunque ne sono seguite rendono labili gli orizzonti del nostro presente, ma proprio per questo imporrebbero alla politica e al diritto nuovi, enormi compiti. Non si tratta di programmini politici, carta per il cestino dei rifiuti, ma di acquistare una maturità politica che manca totalmente. Oggi siamo nella condizione misera di gettarsi dietro questa o quella bandiera insignificante, senza pensare e senza giudicare teorie e uomini per scegliere liberamente, ossia consapevolmente una strada.
Non siamo più nel mondo novecentesco dove le forme economiche e quelle giuridiche si integravano sotto il dominio della sovranità degli stati nazionali. Il virus del “sovranismo” con cui i nuovi poteri orientano le opinioni pubbliche in tutto il mondo, ha infettato mortalmente il concetto di sovranità che tutti abbiamo studiato come cardine fondamentale dello stato moderno. Siamo attratti in un nuovo ordine politico-statuale imprevedibile, dove si imporrà una nuova razionalità giuridica nella quale non è affatto detto che riuscirà a sopravvivere il riconoscimento dell’individuo e della sua autonomia consacrato dai principi fondanti dello stato di diritto del XIX e del XX secolo, che pur con tutti i gravi limiti attuativi, e nonostante tutto superando le tenebre del nazifascismo, in Europa avevano tutelato la democrazia.
11 – Il diritto costituzionale è usurato – La società è indifferente al contrasto tra realtà e testo costituzionale – La forza dei mutamenti in corso nella forma e nella composizione delle nostre società, gli effetti delle immense innovazioni tecnologiche e scientifiche, la realtà “immateriale” con cui il capitalismo contemporaneo sta orientando le società e la politica hanno travolto i principi affermati dello stato di diritto come finora lo abbiamo conosciuto e praticato. La funzione generalizzante della legge sta perdendo il carattere di schema generale e astratto; la politica non dirige più la società, si è immiserita e ridotta all’inseguimento con un’immensa frammentazione di micro-interventi normativi per regolare situazioni particolari in cui non c’è ombra di un disegno logico ed è impossibile orientarsi. Il diritto europeo non ha un vero carattere costituzionale, è una specie di diritto amministrativo sovranazionale di contestata applicazione.
Le costituzioni subiscono attacchi da ogni parte e il compito delle Corti diventa sempre più difficile. Il diritto costituzionale, già indebolito e messo all’angolo dallo stato di guerra, entra in crisi e le sue modifiche assumono forme patologiche perché fatica sempre di più a reggere l’evoluzione delle società. La nozione stessa di Costituzione entra in crisi nella misura in cui subentra l’indifferenza della società davanti al contrasto tra la realtà e il testo costituzionale. Il principio di uguaglianza è irreparabilmente arretrato nella politica alla quale è, o era, affidato primariamente. Il compito della giustizia viene dopo quando c’è la violazione. Ma se è la politica a violare il principio di uguaglianza, la giustizia non può nulla o assai poco. Serve un’altra politica di contrasto che non si vede.
I governi sono stati privatizzati, il “pubblico” è deragliato rendendo gli stati deboli e corruttibili. Non sappiamo quali saranno le conseguenze durature, ma sappiamo sin d’ora che la sopravvivenza delle moderne costituzioni, il cui scopo era limitare il potere del sovrano e impedirne l’arbitrio, è a rischio mortale di fronte ai nuovi sovrani. Tutto questo sta diventando senso comune, non riguarda solo le nuove classi dirigenti del mondo globalizzato, ma si sta affermando sopra un’usurata cultura costituzionalistica delle regole e dei controlli. Governati e governanti non sono più d’accordo nemmeno sull’idea stessa di diritto. Le costituzioni che hanno preteso di non limitarsi a indicare fini e principi, ma di stabilire anche i mezzi per realizzarli, sono sopportate con riserva mentale e con insofferenza. Per assurdo, e neanche tanto, qualcuno potrebbe pensare che tanto valeva una costituzione di poche righe come quella dei pellegrini della Mayflower, che permetteva tutto e il suo contrario.
A proposito della pratica del land grabbing (par. 2, 2° cpv) preciso a chiarimento che la Corte dell’Aia, con sentenza 30 aprile 2016 ha interpretato l’art. 7, par. 1c e par.2 dello stauto di Roma estendendo la concezione di “crimine contro l’umanità”, includendo anche i crimini ambientali quando comportano deportazione, trasferimento forzato di popolazione e distruzione dell’ambiente umano.
Claudio Tani