di Andrea Guazzarotti
Il Rearm Europe, poi ribattezzato «Readiness-2030» su spinta di Italia e Spagna, è il piano con cui la Commissione punta a mobilitare ben 800 miliardi di euro, attraverso due canali principali: l’emissione di nuovo debito europeo (per 150 miliardi di euro), con cui la Commissione concederà “prestiti agevolati” sul modello del NGEU agli Stati membri per investimenti bellici, alla condizione che il 65% degli acquisti avvenga a favore di imprese europee, incluse quelle ucraine, norvegesi e britanniche (SAFE, Security action for Europe); l’incentivo affinché gli Stati membri si indebitino in proprio per la spesa militare attraverso l’allentamento delle regole del nuovo Patto di stabilità e crescita (scorporo degli investimenti bellici dal calcolo deficit/Pil).
Con il Rearm Europe la Commissione europea ha assolto, in tempi assai più ristretti, la stessa funzione legittimante e universalizzante del modello geoeconomico tedesco che aveva svolto ai tempi della crisi greca e dell’austerity. Dopo la revisione costituzionale tedesca del 2009 che irrigidiva il modello neo-mercantilista fondato sull’austerity introducendo nel Grundgesetz il famigerato “freno al debito”, l’UE varava l’irrigidimento del Patto di stabilità e crescita con le riforme del “Six Pack” del 2011 (poi ampliate nel 2013), legittimando una lettura tutta tedesca della crisi dell’euro (l’eccesso di debito pubblico anziché lo squilibrio delle bilance commerciali intra-UE) e offrendo una copertura ideologica al progetto neo-mercantilista della Germania. Oggi, in contemporanea con la “conversione” della Germania al deficit-spending bellico, l’UE offre una copertura all’evento epocale (e un po’ sinistro) del riarmo tedesco con un piano di spesa per la “difesa europea” di dimensioni impressionanti. Il ReArm Europe/Readiness-2030 giunge, infatti, in singolare coincidenza con la conversione della Germania al deficit-spending finalizzato alla (parziale) riconversione bellica del proprio apparato industriale. Si tratta della revisione costituzionale proposta da SPD e CDU/CSU il 10 marzo 2025 e approvata in tutta fretta il 18 marzo da un Bundestag in regime di prorogatio, pochi giorni prima del termine entro cui avrebbe dovuto essere convocata – per vincolo costituzionale – la seduta costitutiva dei parlamentari neoletti (nelle elezioni del 23 febbraio 2025), revisione conclusasi nonostante i ricorsi in via d’urgenza presentati al Tribunale costituzionale tedesco. Il piano tedesco di spesa militare a debito, anche se esonerato dai vincoli costituzionali (che continuano a vigere per la spesa sociale), non avrebbe comunque potuto rispettare i vincoli del nuovo Patto di stabilità dell’aprile 2024 (che proprio il governo tedesco aveva voluto irrigidire). Non sorprende, allora, che la Germania sia stata la prima ad “aderire all’appello” della Commissione e fare ricorso alla clausola di salvaguardia nazionale del Patto di stabilità per l’indebitamento bellico in deroga, per il periodo 2025-2028, col plauso del segretario generale della NATO Mark Rutte.
Si tratta di un cammino securitario (per non dire bellicista) già iniziato da tempo (Sédou) e culminato nella nomina, per la prima volta, di un Commissario per la difesa nella nuova Commissione Von der Leyen II (che ha affidato tale delicato incarico all’ex premier lituano conservatore Andrius Kubilius) e della nomina ad Alto rappresentante per la politica estera di una personalità nettamente connotata in senso anti-russo, come l’ex premier estone Kaja Kallas (senza dimenticare la nomina del lettone Valdis Dombrovskis a Commissario all’economia, le cui decisioni risultano cruciali per le deroghe “belliche” al Patto di stabilità). Non sembra tuttavia plausibile che siano state le tre piccole Repubbliche baltiche a guadagnarsi da sole l’egemonia nella nuova Commissione e nella “nuova UE”. Spezzato (quasi) irrevocabilmente l’asse russo-tedesco creatosi con il gasdotto Nord Stream 1 fin dal lontano 2001 e privato così il modello economico della componente essenziale delle materie prime a basso costo, la Germania, lungi dall’aver perso centralità nell’UE, ha riposizionato le proprie priorità strategiche accettando la linea dello scontro a oltranza con la Russia in gran parte predeterminata da NATO, Regno Unito e Polonia (che vi lavorano da anni: E. Todd).
Quel tipo di riconversione delle strutture economiche necessiterebbe, però, di una più problematica riconversione delle soggettività dei cittadini. Su questo fronte, non sono mancate le iniziative dei singoli Paesi (come Danimarca e Svezia) e, soprattutto, della Commissione UE, che per questo scopo ha attinto alle peculiarità degli ordinamenti nazionali più vocati alla resistenza anti-russa, come la Finlandia, portata dalla von der Leyen a esempio per la guerra contro l’Unione sovietica del 1939-40 e per il suo modello «di difesa civile completa, in modo che i finlandesi possano essere preparati a tutte le emergenze, comprese quelle militari, le minacce ibride e i disastri naturali». È proprio all’ex primo ministro finlandese Sauli Niinistö che è stato commissionato il rapporto sul rafforzamento della sicurezza civile e militare dell’Europa. A ciò ha fatto seguito (marzo 2025) un breve video destinato ai social della Commissaria europea per la parità, la preparazione e la gestione delle crisi Hadja Lahbib (cittadina belga, a lungo presentatrice televisiva in Belgio), in cui, senza sprezzo del ridicolo, si pubblicizza un kit di sopravvivenza di 72 ore in caso di crisi bellica, comprensivo di coltellino svizzero multiuso, ove la Commissaria si accomiatava dal pubblico dei social con la frase «L’UE sta preparando la sua strategia per garantire che ogni cittadino sia al sicuro in caso di crisi. Siate preparati, siate al sicuro». A coronamento di tali iniziative, è sopraggiunta una risoluzione del Parlamento europeo del 2 aprile 2025 in cui, tra l’altro, si auspica «una comprensione più ampia, tra i cittadini dell’UE, delle minacce e dei rischi per la sicurezza al fine di sviluppare una comprensione condivisa e un allineamento delle percezioni delle minacce in tutta Europa», invitandosi l’UE e gli Stati membri «a mettere a punto programmi educativi e di sensibilizzazione, in particolare per i giovani, volti a migliorare le conoscenze e a facilitare i dibattiti sulla sicurezza, la difesa e l’importanza delle forze armate, e a rafforzare la resilienza e la preparazione delle società alle sfide in materia di sicurezza».
Se nel tornante europeo dell’austerity (2008-2013) si è imposta una nuova narrazione ai cittadini degli Stati membri che puntava ad attivare la polarizzazione “consumatore compulsivo – debitore colpevolizzato” (A. Simoncini), con l’attuale conversione al funzionalismo bellico dell’UE (F. Losurdo) la trasformazione delle soggettività è ancora più ardita. Se nel primo caso la passivizzazione ha agito in negativo, attraverso la disarticolazione delle identità collettive (sia in quanto classe sociale, sia in quanto nazione), nel caso del funzionalismo bellico – in teoria – si tratta di ricostituirle, posto che non sembra esserci possibilità di mobilitazione individuale e individualistica verso il conflitto bellico di stampo tradizionale, com’è quello che si prefigurerebbe tra l’UE e la Federazione Russia (e per il quale saremmo chiamati a prepararci entro il 2030: Readiness-2030). Il bombardamento mediatico cui stiamo assistendo sull’imminente pericolo di un’invasione russa e la strategia comunicativa di Commissione e Parlamento (il kit di sopravvivenza, il dovere individuale di farsi trovare preparati) fa leva, invero, su un tasto tradizionale del neoliberismo. Come l’individuo deve essere allenato all’auto-responsabile partecipazione nel mercato (Cantaro), così lo si vuole auto-responsabilizzare in caso di partecipazione al conflitto bellico interstatuale, una partecipazione ridotta a vicenda individuale, ma coordinata dalle autorità europee. Se l’individualismo si basa sul dogma dell’adattamento universale dell’individuo al posto dell’azione collettiva, e se è su tale individualismo che si è fondata l’UE (Somek), ne deriva coerentemente il tentativo di spingere quel dogma adattativo fino all’estremo della partecipazione responsabile allo stato di crisi bellica. Il presupposto di tale operazione di “pastorato” (Foucault) delle istituzioni europee è l’omologazione del conflitto bellico a uno stato di crisi qualunque: come il mercato è depoliticizzato (ed è in virtù di tale spoliticizzazione che si può chiedere l’universale adattabilità al singolo: «There is no alternative!»: Preterossi), così viene depoliticizzato il conflitto bellico (con la Russia, nello specifico, rispetto al quale non vi sarebbe alternativa).
Se però si guarda all’obiettivo immediato e non dichiarato del programma europeo di riarmo, il legame tra vecchia e nuova narrazione c’è ed è assai solido: la finanziarizzazione dell’economia, stavolta dell’economia di guerra. La finanza privata dei grandi fondi d’investimento, difatti, ha immediatamente recepito il messaggio del Rearm Europe, comprando a man bassa i titoli azionari dell’industria bellica e facendo lievitare in pochi mesi i valori di borsa (con un picco del 92,2% della tedesca RheinMetall: A. Volpi). Si tratta solo dell’antipasto di un disegno strategico più ampio, imperniato sul ruolo dei grandi fondi (europei ma, soprattutto, statunitensi) e sulla loro capacità di attrarre il risparmio con la creazione di prodotti finanziari facilmente accessibili e fiscalmente incentivati. L’ennesima versione della strategia della riduzione del welfare pubblico (che verrebbe inevitabilmente sotto-finanziato a causa del costo degli sgravi fiscali per i titoli finanziari) in favore delle assicurazioni private, controllate da quegli stessi grandi fondi in grado di pompare la bolla dell’industria bellica (ibidem). Assistiamo, qui, a un cortocircuito tra la logica della governamentalità foucaultiana promotrice dell’“autogoverno del sé” (Somek, cit.) tipica dell’“anti-sovrano” europeo (Luciani), e la logica verticale del potere pubblico che costringe il risparmio privato a incanalarsi verso prodotti finanziari assai opachi, comunque unidirezionalmente finalizzati al potenziamento degli arsenali e della tecnologia militare.
L’altro dato di continuità con il neoliberismo in salsa europea è quello dell’obiettivo di una sovra-produzione di armamenti made in Europe destinati al mercato mondiale. Non bisogna dimenticare che i clienti dell’industria bellica europea sono tradizionalmente extra-europei (dai paesi arabi, a Israele, ecc.). Una pulsione all’export (un tempo di auto e macchinari, domani di materiale bellico) che viene candidamente ammessa nel Libro bianco sulla difesa europea – Readiness 2030, in cui la Commissione afferma che, grazie all’integrazione dell’industria bellica dell’Ucraina nell’EDTIB (European defence technological and industrial base), l’industria europea della difesa potrà «fornire materiale bellico efficiente in termini di costo al mercato globale» (§5). Per questo l’UE intende lanciare un «meccanismo europeo pilota di vendite militari» (§6) sulla falsariga dello “US Foreign Military Sales” statunitense (Sédou, cit.). E pensare che l’UE è nata dalla Dichiarazione Schuman, in cui il progetto di unificare e denazionalizzare la produzione di carbone e acciaio francese e tedesca veniva magnificato come ciò che avrebbe cambiato «il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime», con la promessa di offrire questa produzione comune di carbone e acciaio «al mondo intero senza distinzione né esclusione per contribuire al rialzo del livello di vita e al progresso delle opere di pace». A settantacinque anni dalla Dichiarazione Schuman l’UE sembra voler offrire al mondo a prezzi competitivi un altro tipo di produzione industriale, in modo da soddisfare l’inesausta domanda di armamenti proveniente da regimi autoritari e Paesi in stato di conflitto, contribuendo attivamente alla corsa al riarmo globale e fingendo di ignorare le conseguenze socio-economiche e migratorie di tale scenario geopolitico (Sédou, cit.).
È ancora compatibile tutto ciò con il sempre più scivoloso appiglio testuale della «pace e giustizia tra le nazioni» iscritto nell’art. 11 della Costituzione italiana?