Ius sanguinis e art. 22 della Costituzione

di Gianvito Campeggio

Le legge n. 74/ 2025, intitolata “disposizioni urgenti in materia di cittadinanza”, è, in realtà, una legge sulla perdita della cittadinanza iure sanguinis degli oriundi italiani (cfr. il dibattito qui di Bruno, Cunha e Trivi, cui aggiungere il commento di Bonato).

Lo riconosce espressamente l’art. 1-bis, introdotto in sede di conversione. Si tratta di una disposizione contenente una sorta di excusatio non petita. In essa, infatti, si parla testualmente di «recupero delle radici italiane degli oriundi e  conseguente acquisto della cittadinanza italiana»: gli oriundi, cacciati dalla porta come cittadini italiani iure sanguinis in qualità di discendenti di italiani, sono fatti rientrare dalla finestra come “stranieri”, che possono “immigrare” in Italia secondo il testo unico sull’immigrazione, quando, poi, la medesima legge non elimina affatto lo ius sanguinis, ma lo trasmuta sugli ascendenti dell’oriundo, che dovranno possedere determinati requisiti (e valutazioni) di condotta.

Detto altrimenti, l’oriundo non è più cittadino ma solo “straniero” aspirante “immigrato”, a meno che non siano sussistite, al momento della sua nascita, requisiti e condotte materiali ben determinate dei suoi ascendenti. Si tratta di una vera e propria finzione giuridica (un “gioco di prestigio” normativo, verrebbe da dire), che appare, però, di dubbia costituzionalità.

Si può, infatti, privare della cittadinanza originaria iure sanguinis l’oriundo italiano, trasformandolo in “straniero” aspirante “immigrato” secondo la normativa dei flussi? Si può tramutare, per legge, il fatto naturale della derivazione di sangue in requisiti e condotte materiali degli ascendenti?

La risposta a queste domande è contenuta nell’art. 22 della Costituzione. Questa disposizione è molto sintetica, ma non per questo non chiara. «Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome», si legge. 

Che cosa sia la “capacità giuridica” è noto ed è espresso dall’art. 1 del Codice civile: essa si acquista con la nascita e costituisce un attributo fattuale (naturale) ineliminabile della persona.

Che cosa sia la cittadinanza, nel momento stesso in cui essa è comunque contemplata per acquisto iure sanguinis (come ha sempre fatto la legge italiana dall’Unità ad oggi e non è disconosciuto da questa legge di riforma), è anche in tal caso presto detto: un fatto naturale di nascita; tant’è vero che basta certificarlo nella linea di discendenza appunto per nascita, per vedersela dichiarata anche giudizialmente e con provvedimento immediatamente esecutivo (cfr. M. Mellone, Le decisioni che accertano la cittadinanza italiana iure sanguinis sono eseguibili anche se impugnate, 2024). Del resto, l’oriundo o è iure sanguinis o non è: è un fatto di natura, non certo una fictio, ha chiarito la Corte di cassazione a Sezioni Unite (decisioni nn. 25317 e 25318/2022).

È, dunque, il fatto di natura in sé (della capacità giuridica come dello ius sanguinis) a fondare la sfera dei diritti e dei poteri nel campo del diritto pubblico e privato, cui si riferisce l’art. 22 Cost. (cfr. U. De Siervo, Art. 22, in Commentario della Costituzione a cura di Giuseppe Branca, 1978, pag. 14-15 e ivi i richiami alle posizioni di P. Barile e C. Lavagna). Ma la perdita di un fatto di natura, come la nascita o il sangue di nascita, può essere imposta ex lege?

La risposta evidentemente è no: ed è no proprio alla luce dell’art. 22 Cost. con riguardo alle tre condizioni personali di esistenza (capacità, nome e cittadinanza) che la Corte costituzionale, nella sent. n. 13/1994, ha qualificato beni del «patrimonio irretrattabile della persona umana», riconducibili all’art. 2 Cost. e, per questo, meritevoli di tutela comune.

L’art. 22 Cost., però, vieta la perdita per «motivi politici». Si tratta, allora, di capire che cosa significhi questa locuzione.

La giurisprudenza costituzionale offre in proposito solo due spunti.

Il primo è contenuto nell’ordinanza n. 258/1982, lì dove si precisa che, non esistendo automatismi nell’acquisto della cittadinanza, nessun atto può obbligare una persona ad acquisire o perdere la cittadinanza contro la propria volontà. In tale prospettiva, “politico” sembrerebbe il motivo che si sostituisce alla volontà della persona umana nel decidere se disporre o meno delle proprie tre condizioni, presidiate dall’art. 22 Cost. (meno chiaramente lo si era detto anche nella sent. n. 239/1975).

Il secondo spunto si legge nella sent. n. 311/1996, dove si qualifica incostituzionale qualsiasi previsione che subordini la persistenza di una delle tre condizioni dell’art. 22 Cost. all’esistenza e valutazione di determinate condotte del soggetto.

In tale duplice prospettiva, imporre la perdita dello ius sanguinis o condizionarlo a determinate condotte, anch’esse imposte contro la volontà della persona e le sue capacità giuridiche, appare di difficile accettazione costituzionale. Del resto, sul tema dei «motivi politici», evocati dall’art. 22 Cost., si è espressa anche la dottrina. In particolare, meritano di essere ricordate le osservazioni di Alessandro Pizzorusso e Ugo De Siervo. Per il primo (ne Il pluralismo linguistico in Italia, 1975, pag. 191), il motivo diventa “politico” anche allorquando si fondi su ragioni “nazionalistiche” di identità dello Stato. Per il secondo (nel citato commento all’Art. 22), è “politico” qualsiasi motivo che pretende di far prevalere l’interesse dello Stato sulla condizione della persona umana. Da tale punto di vista, sussisterebbe una differenza dalle restrizioni alla libertà di circolazione determinate «da ragioni politiche», di cui parla l’art. 16 Cost. (cfr. G. Amato, Art. 16, in Commentario della Costituzione a cura di Giuseppe Branca, 1977, 115-119), riguardando – queste ultime – una libertà di azione e non invece il «patrimonio irretrattabile della persona umana», riconosciuto dalla cit. sent. della Corte costituzionale n. 13/1994. Non a caso, secondo De Siervo, il divieto dei «motivi politici» integrerebbe, aggiungendosi ad essi, i parametri generali di uguaglianza, scanditi dall’art. 3 Cost.

Ora, se leggiamo la documentazione di accompagnamento del procedimento di approvazione della l. n. 74/2025 (scaricabile dal portale integrazionemigranti.gov.it), ci accorgiamo che la “motivazione” della riforma (ma sul complesso tema della “motivazione” delle legge, si v., di recente, D. Mone, La “motivazione” della legge e i limiti di interferenza della Corte costituzionale nella discrezionalità del legislatore, 2020, nonché almeno M. Picchi, L’obbligo di motivazione delle leggi, 2011, e  F. Giuffrè, I. Nicotra (cur.), Lavori preparatori ed Original Intent nella giurisprudenza della Corte costituzionale, 2008) ruota tutta intorno a temi “nazionalistici” e di “interesse dello Stato” alla salvaguardia della “genuinità” dell’identità italiana: un profilo, alla fin fine, prioritariamente “politico”, come tale non confacente al divieto dell’art. 22 Cost., prima ancora che all’uguaglianza richiesta dall’art. 3 Cost. come anche dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali della UE (divieto di discriminazioni per nascita) e dall’art. 14 della Cedu (divieto di discriminazione in base al paese di origine).

Il che lascia prefigurare un necessario intervento chiarificatore della Corte costituzionale proprio sul tema del rapporto fra ius sanguinis e art. 22 Cost. 

Questo non significa che altri parametri costituzionali non siano compromessi da questa riforma. Certamente lo è, come già fatto notare dagli interventi in questa sede ospitati (Trivi), l’art. 35 Cost., per due ragioni:

– perché, se è vero che spetta alla Repubblica tutelare il lavoro degli italiani all’estero, appare in controtendenza imporre agli oriundi italiani all’estero l’obbligo di lavorare in Italia, come “stranieri immigrati”, al fine di poter aspirare alla cittadinanza (sul contenuto inequivoco della tutela del lavoro all’estero, si v. Corte cost. sent. n. 369/1985/);

– perché la libertà di emigrazione, di cui parla l’art. 35, quarto comma, Cost., è stata letta dalla Corte costituzionale (sent. n. 269/1986), come riconoscimento di un «bene [e] valore fondamentale, realizzativo della personalità umana (non nasce[ndo], infatti, quale “graziosa concessione” dello Stato)» radicato su un’idea, documentata dal dibattito costituente, di «diritto di partecipare alla vita della comunità dei popoli» (dunque non solo dell’Italia).

In pratica, anche l’art. 35 Cost., come interpretato dalla Corte costituzionale, ridimensiona, rendendoli non accettabili, i motivi “nazionalistici” e “identitari”, dichiaratamente posti a base di questa riforma, palesandosi, tali motivi, da un lato, in contrasto con l’art. 22, perché “politici”, e, dall’altro, in contrasto con l’art. 35 Cost., perché contrari alla tutela degli italiani oriundi, nella loro personalità di lavoratori all’estero, partecipi della «comunità dei popoli».

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