Docenza e decency in un disegno di legge sui concorsi da professore universitario

di Roberta Calvano

Mentre infuriano conflitti, guerre commerciali e incombono importanti riforme costituzionali, appare più che mai difficile che qualcuno possa interessarsi al futuro dell’Università in Italia. Ed è così che, nel disinteresse della politica e nel silenzio un po’ sospetto dell’accademia (salvo poche meritorie eccezioni), è in discussione al Senato un disegno di legge (AS 1518) che innova radicalmente la disciplina del reclutamento dei professori universitari, riuscendo nell’impossibile missione di peggiorare ulteriormente la situazione attuale, in termini di localismo, nepotismo e opacità suscettibili di prodursi nelle procedure concorsuali, già note alle cronache per frequenti episodi di malcostume. Oltre ai vizi e virtù dell’accademia, il tema rileva perché le modalità del reclutamento incidono profondamente sulla qualità dei reclutati, producendo così importanti effetti sulle libertà di ricerca e di insegnamento garantite dall’art. 33, comma 1, Cost., così come su ciò che l’art. 9 pretenderebbe, cioè che la Repubblica promuova cultura e ricerca scientifica e tecnica. Considerando la crucialità della ricerca e dell’istruzione, superiore e non, per il futuro di una nazione, occorre(rebbe) quindi riflettere bene se tale disegno di legge sia conforme a tali principi, oltre che all’interesse generale a mantenere un buon livello scientifico della docenza nel sistema universitario.

A seguito della riforma cosiddetta Gelmini del 2010, la legge prevede oggi un sistema mirante a creare una sorta di “patente” nazionale per accedere alla cattedra, l’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), tramite cui si accede ai concorsi da professore ordinario e associato banditi dalle singole Università. Poiché le Università garantiscono l’accesso a titoli di studio con valore legale, nel rispetto della loro autonomia (normativa, organizzativa, gestionale, finanziaria), la legge dovrebbe assicurare che vi sia un livello di insegnamento il più possibile uniforme e condizioni trasparenti ed anch’esse uniformi di accesso alla docenza. Anche per questo motivo, oltre che per meglio garantire le fondamentali libertà di ricerca e di insegnamento già richiamate, lo stato giuridico della docenza universitaria è disciplinato tradizionalmente dalla legge, come quello di magistrati e corpo diplomatico, e sottratto al regime privatistico. L’esistenza di una procedura nazionale di abilitazione all’insegnamento universitario è intesa quindi a produrre un unico processo trasparente, sotto i riflettori della comunità scientifica, in modo da evitare quel malcostume che le procedure dei concorsi locali precedentemente vigenti avevano visto proliferare. La legge “Gelmini”, sebbene con molti difetti (tra cui quello di non ancorare in alcun modo il numero degli abilitati prodotto ogni triennio al reale fabbisogno di docenti del sistema universitario), aveva quindi prodotto almeno parzialmente un effetto positivo in termini di trasparenza e controllabilità del processo di reclutamento. Con essa si sono inoltre introdotti “indicatori” di produttività e di qualità della ricerca finalizzati a rendere controllabili – ed evitabili – le peggiori distorsioni e i peggiori abusi. Ciò ha prodotto alcuni rilevanti effetti secondari: intanto un importante contenzioso sulle procedure di abilitazione, facendo venire allo scoperto e ripianare (finalmente) molti casi altrimenti rimasti sconosciuti di abusi e di illegalità varie nei concorsi universitari. Tale sistema ha però anche un’altra faccia meno commendevole, poiché ha introdotto un effetto di appiattimento su criteri quantitativi nella produzione scientifica, poiché per ottenere l’ASN è necessario raggiungere le “mediane”, definite poi “valori soglia”, cioè superare soglie numeriche minime di articoli, libri etc., fissate rigidamente settore per settore. Il criterio quantitativo, che prescinde dalla qualità delle pubblicazioni, ha indotto così una sorta di inflazione nel mondo dell’editoria scientifica, che ha contribuito ad abbassare il livello complessivo della produzione scientifica di noi tutti.

Le commissioni ASN, nominate per ogni settore disciplinare, innestano però oggi un giudizio fondato sulla loro specifica competenza disciplinare sul pre-requisito quantitativo, motivando (più o meno scrupolosamente) promozioni e bocciature, alla luce di un esame nel merito delle pubblicazioni allegate da ciascun candidato.

Il sistema attuale prevede poi, a valle dell’ASN, le procedure concorsuali presso le università, per reclutare professori ordinari e associati. Descrivere tali procedure è complicato a causa delle troppe sottoprocedure che la legge prevede, e delle varianti che ogni regolamento di ateneo ha introdotto disciplinandole, giacché un errore della Gelmini fu quello di “delegificare” tali procedure – che sono “i veri concorsi” -, ove si opera la scelta su chi premiare tra gli abilitati ASN, cioè chi promuovere alla II fascia di associato o a quella di professore ordinario. Su tale insieme di fattori si è fondato sin qui l’imperfetto sistema che ora si vuole modificare.

Cosa ha quindi progettato il legislatore? Innanzitutto, dati i due step attuali nella selezione nazionale di accesso alla ASN e poi “alla cattedra” si elimina il primo. A livello nazionale resterà solo da autocertificare il superamento di soglie numeriche di pubblicazioni, senza alcuna valutazione circa la qualità delle stesse. Si sceglie insomma di accontentarsi del profilo quantitativo, quello che ha mostrato maggiori effetti negativi per quanto concerne il futuro dell’Università e della ricerca, incoraggiando un appiattimento complessivo della produzione scientifica orientato unicamente ai numeri delle pubblicazioni, oltre che delle citazioni (che attestano la capacità di inserirsi nel flusso che spesso privilegia la ricerca mainstream e meno innovativa e coraggiosa per quanto riguarda i settori bibliometrici).

Il ricco contenzioso sorto sull’ASN, specchio di una cattiva scrittura delle norme della legge Gelmini oltre che dei vecchi vizi dell’accademia, viene addotto nella relazione di accompagnamento al ddl come prova del fallimento del sistema ASN, che per il Governo, autore del ddl, dimostrerebbe la necessità di abolirlo, anziché rappresentare la spia di un problema da affrontare.

Si sceglie così paradossalmente di passare ad un sistema di concorsi puramente locali, preceduti da un sistema di autocertificazione del possesso di indicatori meramente quantitativi. L’apoteosi dell’irrazionalità di questa scelta del DDL è nel tentativo, operato nella relazione di accompagnamento, di giustificarla alla luce del principio costituzionale dell’autonomia universitaria posto dal comma 6 dell’art. 33 Cost., che sancisce invece il potere di darsi ordinamenti autonomi al fine di garantire libertà di ricerca ed insegnamento. E non invece di assoggettare lo stato giuridico della docenza ad un frammentata ed eterogenea serie di procedure disciplinate da regolamenti di ateneo, che nulla garantiscono in termini di pubblicità e trasparenza, se non per la presenza di commissioni composte da cinque professori ordinari. I quattro componenti esterni di tali commissioni saranno sorteggiati tra tutti coloro che a) rispettino i criteri quantitativi (ritorna il publish or perish a prescindere dalla qualità, che affliggerà così tutte le generazioni, e non solo i candidati, con conseguente abbattimento di foreste evitabile…), b) siano “disponibili”, c) non siano valutati negativamente dall’ateneo di appartenenza (art. 6, c. 7, legge Gelmini). Si immagina che saranno gli atenei, secondo i loro regolamenti, a svolgere i sorteggi (come?) e ad individuare i “disponibili” (come?), posto che non è detto che tutti coloro che sono in possesso dei criteri quantitativi lo saranno.

La malintesa nozione di autonomia universitaria che emerge dal ddl 1518 come potestà degli atenei di “regolarsi da sé” circa le procedure di reclutamento cozza ovviamente non tanto con la lettura dell’art. 97, comma 3, Cost., che impone il principio del concorso pubblico, derogabile solo nei casi stabiliti dalla legge, ma con la libertà di ricerca e insegnamento, assistita dalla garanzia dello stato giuridico uniforme, che è attualmente ancora la scelta di fondo del legislatore per quanto riguarda la docenza universitaria. L’autonomia universitaria insomma è funzionale alla libertà di ricerca e di insegnamento, e tale rapporto non può quindi essere invertito, sulla scorta di una malintesa autonomia, mettendo le singole università in condizione di mettere a rischio tali libertà con una frammentazione dello stato giuridico pubblicistico, che già attualmente è stato minato dalla legge Gelmini, rimettendone settori importanti alla disciplina dei regolamenti di ateneo (procedimenti disciplinari, scatti stipendiali, concorsi). Eliminare anche il gradino iniziale rappresentato dall’ASN, rimettendo totalmente agli atenei le scelte sulla selezione di quella che un tempo era l’élite accademica, significa insomma far venir meno anche quell’ultimo argine al localismo e alla perdita di unitarietà del sistema universitario. Per non parlare del rischio che i tanto vituperati atenei telematici possano (è questo il timore delle associazioni scientifiche riunite nella CASAG), disciplinare “chissà come” le procedure concorsuali al loro interno. Sia permesso segnalare che i casi che hanno dato luogo negli ultimi anni al contenzioso sul reclutamento e ad alcuni scandali e procedimenti penali, sono partiti da grandi ed anche blasonati atenei statali.

Ma vi è di più, perché lo spirito del tempo aleggia nelle aule parlamentari e sembra imporsi pressoché in qualsiasi testo all’esame delle Camere. Chi potrà offrire un “bollino” per accedere alle procedure concorsuali presso gli Atenei, attestando il possesso della quantità richiesta di scritti? E chi potrà individuare gli indicatori che nella produzione scientifica di candidati e commissari dovranno essere rispettati? La risposta a queste e altre domande che si pone la costituzionalista, più che mai in questa legislatura, ma anche precedentemente, è sempre la stessa: basta guardare in alto, seguendo le dinamiche di verticalizzazione della forma di governo che portano sempre in su, verso il Governo e, nel caso dell’Università, ci riconducono sempre alla figura del Ministro, o nella migliore delle ipotesi a qualche organismo simil-tecnico da lui nominato.

Quanto tutto ciò si presti alla garanzia delle libertà di ricerca e di insegnamento, come volevano i costituenti, che addirittura assimilarono in termini di inamovibilità i professori universitari ai magistrati, è dubbio. A ciò si aggiungono alcuni difetti di scrittura del testo all’esame che mettono in discussione in primis la stessa applicabilità e ragionevolezza di un reclutamento come quello previsto dal ddl 1518, che dovrebbe rispondere poi anche ai canoni dell’art. 97 Cost., garantendo legalità, buon andamento ed imparzialità delle procedure concorsuali negli atenei.

Più in generale si può dire che il ddl mostri quanto il Governo tenga al futuro dell’Università, come a quello di tanti giovani studiosi, che non a caso accompagnano la scelta di fare ricerca con quella di fare le valigie, peraltro dopo un percorso di studi che vede un investimento cospicuo di risorse pubbliche per prepararli più che seriamente per un futuro nella ricerca, come le università italiane ancora mostrano egregiamente di saper fare.

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