È ancora possibile uno sguardo “laico” sulla riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario, o è ormai troppo tardi?

di Salvatore Prisco

Roberto Bin offre le pagine del suo vivace blog LaCostituzione.info all’antico Maestro, che vi interviene su un tema del quale è senza dubbio tra i massimi esperti con un breve, ma incisivo scritto del 27 agosto 2025 (poi rilanciato il 13 settembre), dal titolo Ragionando sulla separazione delle carriere: è legittimo il sorteggio per la formazione degli organi di governo giudiziario?

A completamento della propria visione critica della riforma di alcune disposizioni sul titolo IV della Costituzione oggi in itinere, già argomentata da precedenti riflessioni in termini svolte nella Lettera L’assetto degli organi di amministrazione e giustizia disciplinare nel disegno di legge costituzionale n. 1917 sulla separazione delle carriere, dell’ottobre 2024, leggibile nell’apposita rubrica sul sito dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti: Sergio Bartole invita al dibattito e rispondo dunque a questa sua sollecitazione. Siamo ormai entrambi in pensione, lui ― emerito dell’università di Trieste e già presidente dell’Associazione stessa ― da un tempo maggiore del mio e resterà sempre, per quanto mi riguarda, uno dei membri della commissione di concorso nazionale che, quando ero un giovane ricercatore, mi promosse a professore associato.

I richiami a una lontana vicenda accademica non dipendono peraltro da una mozione degli affetti, o non principalmente: chi continuerà a leggere ne scoprirà l’effettiva congruenza al tema. Conformemente alla stesura del testo sul quale innesto le mie osservazioni e al carattere di una certa informalità della sede che ci ospita, permettendo così opportunamente interlocuzioni meno o per nulla paludate rispetto allo standard consueto dei lavori scientifici, non aggiungerò note di rinvio a lavori dottrinali: chi ha dimestichezza con l’argomento riconoscerà con facilità gli autori ai quali mi sarò implicitamente riferito, anche quanto alle poche citazioni letterali. Per l’attualità, mi limito a segnalare a chi non ne avesse già notizia il sito ordinamentogiudiziario.info, gestito dall’Osservatorio in tema a cura di Francesca Biondi e Francesco Dal Canto, che raccoglie materiali normativi, saggistici, amministrativi e giurisprudenziali nell’ambito di un PRIN del 2022 che ha come oggetto “Prospettive di riforma dell’ordinamento giudiziario: ricadute applicative sull’efficienza del sistema giustizia”.

Riassumo innanzitutto le posizioni esposte nell’insieme da lui e da chi gli ha già replicato. Nel meno recente dei due ultimi testi, che tocca rapidamente tutti i punti della legge in discussione, si osserva in premessa che concentrare la riforma costituzionale .dell’ordinamento giudiziario su tre soli aspetti (separazione delle carriere e già dei concorsi di accesso all’ordine tra magistrati giudicanti e pubblici ministeri; istituzione per tali categorie di due distinti Consigli superiori, nei quali entrare tramite sorteggio, tanto fra i magistrati, quanto fra i membri “laici” ― qui con estrazione da un elenco approntato dalle Camere ― e sottrazione al CSM della giustizia disciplinare, che viene affidata a un’Alta Corte disciplinare esterna ad esso) produce comunque un effetto di sconvolgimento del modello attuale, benché restino fuori della proposta in discussione ― noto io ― altri aspetti molto dibattuti: così, ad esempio, la vexata quaestio della limitazione dell’azione penale secondo criterî predeterminati, nell’ipotesi che si fosse voluto introdurla, dalla legge o dal procuratore generale della Corte d’Appello: oppure la pur precedentemente ipotizzata cancellazione dal testo dell’art. 104, I comma, della parola “altro”, dalla quale sarebbe risultato che, venendo ad essere la magistratura indipendente da ogni potere, essa dunque non lo sarebbe, riconfigurandola dunque come neutra bouche de la loi, con un bel salto all’indietro nel tempo; o infine l’idea di individuare un presidente elettivo dell’organo, scelto pur sempre tra i suoi membri “laici”.

Si potrebbe dire lo stesso quanto alla tecnica usata per introdurre il “premierato elettivo”, che concentra le ipotetiche modifiche su pochi ― ma decisivi ― punti della disciplina costituzionale della forma di governo, conseguendone in entrambi i casi il massimo risultato possibile con un apparentemente minimo sforzo innovativo.

Appunto a questo riguardo si puntualizza­ che, intendendosi contemporaneamente modificare quella  parlamentare che ci è propria in senso monocratico, anche restringendo le prerogative in materia del Presidente della Repubblica, la duplicazione dei Consigli superiori indebolisce perciò stesso nel confronto la tutela della magistratura come tale, tanto più che dell’Alta Corte disciplinare da introdurre in luogo della relativa sezione disciplinare del CSM  (stavolta però istituendo un organo unico, ossia non diviso in due sezioni, a seconda della funzione dei giudicandi), la relazione illustrativa al disegno di legge costituzionale sottolinea che essa servirebbe a migliorare la professionalità del corpo. Questo costituirebbe peraltro ― osserva giustamente l’autore ― una singolare diversione del fine, intendendo ottenerne il miglioramento qualitativo e deontologico attraverso una via sanzionatoria, il che appare dunque un indizio visibile dello spirito punitivo che permea l’intera riforma.

Segue ancora una critica ― diffusamente ripresa nel testo successivo, che come si vedrà si concentra su quest’unico profilo ― al prefigurato sistema del sorteggio per la provvista dei due nuovi collegi divisi, in luogo dell’unico oggi operante, uno per i magistrati dell’accusa e un altro per quelli giudicanti. Si noti che anche qui l’intervento è formalmente minimale, nel senso che le due categorie, sebbene con carriere divise, resterebbero in ogni caso appartenenti al medesimo ordine, tralasciandosi alcune proposte piú radicali di espungerne la prima. Eliminare tuttavia l’elezione, secondo l’opinione di chi si sta commentando, «priva i due collegi competenti per l’amministrazione delle due carriere giudiziarie dell’autorevolezza che deriva all’attuale Consiglio dal concorso dell’associazionismo giudiziario» e «introduce nel sistema un elemento solipsistico (…). Ci troviamo così di fronte ad una prospettiva certamente nuova, che però pone un interrogativo sul rilievo di un’autonomia ed indipendenza che si esprime attraverso singole persone di cui non è agevole percepire la capacità di farsi portatori degli interessi e delle idee della rispettiva corporazione».

Nell’ottica di questa osservazione ― qui procedo a porre in chiaro quanto del pensiero esposto mi sembra perciò in proposito implicito, sperando di non tradirlo  ― il tanto discusso “correntismo”, oggi indubbiamente essenziale a sorreggere una candidatura al Consiglio che voglia essere vincente, una volta eliminate le derive patologiche connesse alla ricerca del voto (per lo stesso Bartole «inconvenienti» ai quali tuttavia si sarebbero potuti «introdurre correttivi senza esporre la magistratura al pericolo dell’isolazionismo») potrebbe addirittura avere la funzione positiva che in altro campo hanno ― questo lo osservo io ― le “scuole” universitarie, egualmente tacciate nel dibattito pubblico, da non addetti ai lavori e in molti casi da pubblici ministeri che non ne comprendono la logica, di essere matrici di illecite combines. Chi invece le difende e lo stesso fa con l’inevitabile cooptazione virtuosa tipica del sistema le vede come sedi di disciplinamento, cioè di trasmissione artigianale di regole dell’arte, ossia di buone pratiche e delle norme non scritte del come si sta al mondo nell’Accademia. Analogamente deve dirsi, va aggiunto, delle associazioni di docenti, nonché di dottorandi e dottori di ricerca per i singoli settori disciplinari, i cui convegni periodici sono al tempo stesso occasioni per chi vi aderisce per fare conoscenza personale, promuovere contatti e progetti professionali, nonché svolgere un legittimo lobbyng,  risultando in sostanza occasioni di visibilità e autopromozione.

Tornando allora al nostro tema, non manca perciò chi delle diverse sensibilità culturali ― vere e proprie associazioni, con statuti, organi interni, quote da versare, attività continue, brillanti riviste, tutte confederate nell’ANM, che è dunque “associazione di associazioni” ― ha invece proposto l’istituzionalizzazione. Del resto ― mi fa notare acutamente un amico magistrato e rileva con altre parole anche il nostro autore ― un sorteggio fra lottizzati non elimina la lottizzazione, bensì si limita ad affidarla al caso. Il problema infatti non sta qui e di questo si dirà oltre.

Per completare intanto il resoconto del suo primo intervento, Bartole paventa che un pubblico ministero isolato da colleghi del medesimo ordine che svolgono però funzioni diverse sviluppi un’attitudine pratica (e prima ancora una mentalità, una cultura) esclusivamente accusatoria e poliziesca, con effetti da antica Prokuratura sovietica. Qui va riconosciuto che tale rischio è tutt’altro che remoto, specialmente se ― ad allontanarlo ― non si incentivassero il più possibile scambi di riflessione e interlocuzione comune e continua fra magistrati di tutte le funzioni e di ogni ruolo, nonché tra questi e gli avvocati, prendendo ispirazione dall’esperienza tedesca in tale direzione che accosta le diverse professionalità legali già nel periodo della formazione, con un avvio solo successivo alle diverse carriere. Ancora una volta torna utile, a mio giudizio, il paragone che facevo in precedenza con la funzione positiva svolta dai convegni scientifici, al fine di favorire la circolazione di contatti fra studiosi di vario livello, strutturati e non, anche come occasioni di scambi di informazioni sulle situazioni delle varie sedi e sulla situazione concorsuale delle diverse discipline.

Gli replica nel sito dell’Associazione dei Costituzionalisti, come si diceva, innanzitutto ― ad adiuvandum ― Nicolò Zanon, che vanta dalla sua tanto l’esperienza di membro del CSM, quanto quella di giudice costituzionale. Favorevole in linea di principio alla separazione delle carriere e giustamente convinto sia che per giungervi non occorra modificare la Costituzione, bastando per questo obiettivo la legge ordinaria (che è del resto la fonte che ha introdotto anche la giurisdizione disciplinare dell’attuale, unico Consiglio), sia della neutralità dell’attuale organizzazione giudiziaria rispetto al “giusto processo”, nel senso che quest’ultima formula non implica necessariamente la realizzazione di quel presupposto, come nelle sentenze 37/ 2000 e 50/ 2022 ha chiarito la Corte Costituzionale, egli lamenta tuttavia l’inaccuratezza tecnica del testo oggi in dirittura d’arrivo alle Camere. Quanto al resto, egli osserva, «chi ha potuto rilevare le traiettorie che hanno condotto il CSM, nei decenni, ad allargare le proprie funzioni ben oltre il dettato costituzionale e legislativo, come può esimersi dal pensare che il nuovo CSM non sarebbe pronto a replicare prassi e consuetudini del primo?».

Comunque, ad evitare il probabile aumento di conflitti che metterebbero in seria difficoltà soprattutto il Presidente della Repubblica, vertice previsto di entrambi i collegi, egli  ricorda (ma qui il richiamo della massima è mio) che già Guglielmo di Ockham aveva invitato ai suoi tempi a non complicare cose da mantenere invece semplici: entia non sunt multiplicanda sine necessitate, insomma, tanto più che la sovraquotazione che ne deriverebbe ai pubblici ministeri li doterebbe di un regime più forte rispetto a quello attuale, che è sì di indipendenza, ma, alla luce dell’attuale testo costituzionale, anche contrassegnato da garanzie diverse da quelle dei giudici propriamente detti, giacché  individuate solo attraverso la legge di ordinamento giudiziario

Un’ulteriore replica è quella di un assai autorevole magistrato della Suprema Corte, Enrico Scoditti, il quale propone che ― all’atto dell’elezione ― il magistrato che vada in tale modo a comporre il CSM cessi di avere qualunque vincolo formale di appartenenza a una delle correnti. L’eventuale, accertata continuità di legami in tale senso dovrebbe essere stigmatizzata negativamente appunto nella circostanza delle valutazioni periodiche di progressione in carriera.

Sotto questo aspetto, sembra a chi scrive che la misura proposta estenda ai magistrati (rispetto alle possibili appartenenze associative diverse interne all’ordine, le cui forme sono state sopra ricordate) la medesima logica proibizionistica stabilita ― quanto alla loro iscrizione ai partiti politici ― dall’art. 98 della Costituzione e, pur essendo degna di interesse per l’onesta ammissione del problema e per la ricerca di una soluzione ad esso, si presti tuttavia alla medesima obiezione, ossia al rilievo che una disiscrizione formale da una struttura organizzata come gruppo di pressione non basta ad allentare ― in ipotesi ― vincoli di prossimità ideale e sostanziale ad esso, che possano perciò produrre vantaggi al soggetto “contiguo”, che poi da lui si riverberino sul gruppo al quale egli resta comunque vicino, a titolo di restituzione del sostegno ricevuto.

Finisco richiamando sempre in sintesi il secondo intervento del giurista triestino, tutto concentrato stavolta sul profilo del sorteggio per la composizione dei due organi di gestione delle carriere giudiziarie previsti dalla riforma costituzionale. Dopo avere ricordato la giustificazione della separazione delle carriere fornita da chi la ritiene coessenziale al “giusto processo” (ma si è già visto come Zanon l’abbia smontata efficacemente), egli osserva in sovrappiù che, essendo il CSM organo costituzionale, tale modalità sarebbe inusitata per gli organi che identificano la Costituzione: la regola, infatti, è in questo caso l’elezione e limitate eccezioni (nomina presidenziale di cinque giudici costituzionali e dei senatori a vita,  nomina e non elezione dei membri del CNEL, del resto organo solo consultivo), non giungono ad inficiarla, ma semmai ne costituiscono conferma.

Mi auguro di avere riassunto il pensiero altrui (qua e là blandamente commentandolo) con un sufficiente grado di onestà intellettuale, ma ora è il momento di esprimere il mio.

Innanzitutto una domanda: ma è poi vero che il Consiglio superiore della Magistratura sia un organo costituzionale? Non ignoro certo che autorevoli studiosi ― prima di quello che sto commentando, o a lui coevi ― lo hanno sostenuto, traendone prova dalla circostanza che esso non è titolare di un indirizzo politico generale, ma concorre certo a definire le linee e le scelte di politica giudiziaria. Altri hanno fatto ricorso alla più cauta e generica definizione di “organo di rilevanza ― o rilievo ― costituzionale”. Un’ attenta dottrina ha spiegato che l’organo potrebbe in particolare venire finanche abrogato (in altre democrazie occidentali del resto manca, o è diversamente configurato quello corrispondente), ma non sic et simpliciter, bensì solo attraverso una legge costituzionale che prevedesse contestualmente un modo diverso, ma egualmente incisivo, per tutelare valori costituzionali indisponibili a una revisione, come sono l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario.

In tutto quanto ho scritto, in una carriera ormai lunga, credo di avere mostrato realisticamente un forte interesse verso quella “Costituzione vivente” alla quale è ora dedicato un corposo commentario scritto non per caso (giacché essi ne sono tra gli attori principali) pressocché tutto da magistrati. Su questo aspetto ritornerò, intanto vorrei però fissare un punto: a leggere il testo della Costituzione del 1948, ossia al netto degli sviluppi successivi, non pare dubbio che le competenze che i Costituenti vollero attribuirgli siano di natura amministrativa (qualcuno ha icasticamente parlato di «un direttore generale collegiale») e ristrette perdipiù a specifici atti enumerati di gestione delle carriere degli appartenenti all’ordine, sicché ad esempio i poteri para-normativi esercitati attraverso circolari di indirizzo, i pareri al governo e al Parlamento, gli interventi costituiti da “pratiche a tutela” di magistrati in conflitto con esponenti politici (queste ultime, però, poi legittimate dal regolamento interno) sono tutti stati atti di poteri autoassunti extra ordinem.

Un commentatore, nel volume che ho appena richiamato, trae da una sentenza risalente della Corte Costituzionale, la 44/1968, l’idea che essa abbia appunto definito come tale il Consiglio, ma a me pare che abbia frainteso: in quella decisione ― che risultava dalla riunione di tre giudizi, promossi da altrettanti magistrati ordinari che si dolevano al Consiglio di Stato di assunte illegittimità commesse in loro danno, in sede di valutazioni di carriera ― era l’Avvocatura dello Stato che qualificava per tale l’organo, deducendone che i suoi atti fossero perciò insindacabili. La motivazione della decisione (redatta da Costantino Mortati) fu invece più prudente. Trascrivo in proposito parte del paragrafo terzo del Considerato in diritto, mettendo in corsivo quanto rileva ai fini del mio ragionamento:

«Risulta dal suo (della Costituzione, n. d. r.) art. 104 che l’istituzione del Consiglio superiore della magistratura ha corrisposto all’intento di rendere effettiva, fornendola di apposita garanzia costituzionale, l’autonomia della magistratura, così da collocarla nella posizione di “ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere” e conseguentemente sottrarla ad interventi suscettibili di turbarne comunque l’imparzialità e di compromettere l’applicazione del principio consacrato nell’art. 101, secondo cui i giudici sono soggetti solo alla legge. Si è così provveduto [ad integrazione e rafforzamento delle altre garanzie costituzionali di indipendenza, quali risultano dalla riserva di legge (art. 108), dall’assunzione del magistrati, in via normale, mediante pubblico concorso (art. 106), dall’inamovibilità (art. 107)] a concentrare ogni provvedimento relativo al reclutamento e allo stato degli appartenenti all’ordine nella competenza assoluta ed esclusiva idi un organo che, mentre realizza una particolare forma di autonomia, pel fatto di essere espresso in prevalenza dallo stesso corpo giudiziario, è poi presieduto dal Capo dello Stato, in considerazione della qualità che questi riveste di potere “neutro” e di garante della Costituzione ed è altresì fornito di una serie di guarentigie corrispondenti al rango spettantegli, nella misura necessaria a preservarlo da influenze che, incidendo direttamente sulla propria autonomia, potrebbero indirettamente ripercuotersi sull’altra affidata alla sua tutela. Non è rilevante, al fine che qui interessa della determinazione dell’ambito di insindacabilità dei suoi atti, stabilire la natura del rapporto sussistente fra il Consiglio superiore della magistratura e la magistratura, per precisare se esso sia da considerare organo di questa e quindi parte dell’ordine giudiziario, o invece organo a sé stante, o addirittura distinto potere. Mentre non è contestabile la diversità oggettiva delle funzioni rispettivamente esercitate: giurisdizionali le une, amministrative le altre (non apparendo dubbia l’appartenenza a quest’ultima categoria delle misure disposte nei casi concreti, in applicazione delle norme relative all’assunzione ed alla carriera dei magistrati), non incontra poi difficoltà ammettere che le rispettive attività possono rimanere assoggettate a differenti trattamenti. Neppure necessario appare prendere posizione sul punto se il rango da riconoscere al Consiglio sia quello proprio di organo costituzionale, dato che il sistema vigente conosce dei casi di assoggettamento al controllo giurisdizionale di atti provenienti da organi indubbiamente costituzionali. Sicché l’eventuale attribuzione della qualifica predetta non offrirebbe un criterio idoneo a risolvere la questione».

Se si vuole comprendere l’evoluzione successiva degli eventi, occorre allora abbandonare il piano esclusivamente teorico e formale del sistema normativo e guardare agli sviluppi storico-sociali che hanno portato ad arricchire e a variare il  quadro della intavolazione originaria della materia, finendo col collocare i magistrati, non più riguardati come i solitari  applicatori di regole pre-scritte alla fattispecie contenziosa concreta (“soggetti solo alla legge”, in base all’art. 101, 2° comma della Costituzione: l’isolamento lamentato da Bartole trova la sua radice qui, oltre che in un’idea tradizionale e francamente polverosa di che cosa sia l’interpretazione giuridica e quella costituzionale in particolare),  ma ― attraverso l’affiliazione in “correnti” di riferimento ― lungo una strada ben diversa.

Fin dal Congresso del 1965 dell’Associazione a Gardone Riviera (magistratura Democratica che lo “vinse” e già questa assimilazione del linguaggio impiegato alle dinamiche partitiche è molto indicativa, era nata l’anno precedente) emerse decisamente il superamento del carattere in precedenza funzionariale e omogeneo al blocco di potere dominante dell’ordine giudiziario, divenuto ora “adulto” e  consapevole ― nei membri più giovani e in taluni illuminati esponenti di età ed esperienza più mature ― di una soggettività autonoma di ceto, fondata sulla applicazione anche diretta, occorrendo, della Costituzione e che si sentì chiamato a rinnovare per la sua parte sia la politica, sia la sclerosi della società. La Corte Costituzionale, indispensabile in quest’opera di svecchiamento, era entrata effettivamente in funzione nel 1956, il Consiglio Superiore della magistratura solo due anni dopo (e dell’organo meramente consultivo introdotto dalla riforma Orlando dei primi anni del Novecento portava solo la medesima denominazione. ma aveva una funzione diversa), nascevano così i “pretori d’assalto”. In breve, la parte più dinamica e innovativa degli appartenenti all’ordine giudiziario scopriva di potere fare politica, essendo legittimata dalle sue conoscenze tecniche, se non dall’elettività propria della classe politica tradizionalmente intesa e perciò da un modo innovativo di svolgere la propria funzione: sono questi anche gli anni della proposta teorica dell’“uso alternativo del diritto”.

Dopo una lunga fase di accesa contrapposizione, raccontano analisi ormai non più recenti,  si registra una convergenza  tra i due ceti politici su un  momento “armistiziale”, tradotto nell’impegno che una politica “classica” in via di progressivo indebolimento chiese infatti, in una fase successiva, agli appartenenti all’ordine giudiziario per avere ragione di quelle che un apprezzato studioso di storia del diritto contemporaneo ha definito come due (di tre) emergenze, ossia il contrasto alla criminalità organizzata e  quello al terrorismo, attraverso la gestione molto discrezionale dei cosiddetti “pentiti” di entrambi i tipi di organizzazione che i pubblici ministeri potevano svolgere, non essendo gravati da una ricerca del consenso elettorale anche di ambienti “imbarazzanti” e letteralmente in-dicibili, che invece caratterizzava la politica tradizionalmente intesa.

Quando però si manifestò una terza emergenza, in ordine di tempo ― vale a dire la corruzione sistemica nel rapporto tra partiti e imprese ― politica e magistratura si trovarono nuovamente l’una contro l’altra. Che all’esito di tale dinamica non tanto la magistratura in sé (che continuava nel suo insieme ad assicurare il funzionamento del “servizio giustizia”), quanto la sua “aristocrazia” costituita dai capi delle correnti abbia avvertito la pulsione a sviluppare nuovamente una propria intensa soggettività politica è perfino ovvio: dove c’è un vuoto, qualcuno interviene sempre a colmarlo in supplenza.

Lungo questo processo tanto parte della politica che ho definito tradizionale o “classica”, quanto la magistratura, hanno dovuto purtroppo annoverare ciascuna i propri martiri. In particolare, di fronte all’ultimo fenomeno, la prima ritenne difensivamente di rinsanguare le proprie fila, che venivano intaccate dall’azione dell’altra, cooptandone alcuni membri. Il tutto avveniva nel plauso giustizialista (iniziale e chiara manifestazione di quel populismo che il sistema politico conoscerà successivamente in modo più largo anche in altre forme) di elettori disorientati e inclini a cercare conforto in figure rassicuranti che sembravano promettere la tutela dei valori e delle virtù civili della Repubblica, che altri non apparivano in grado di garantire: fu questa ― lo si ricorderà ― la stagione dei “girotondi” attorno ai palazzi di giustizia.

Si era ormai entrati in quella che (con corrività giornalistica del tutto priva di fondamento scientifico, ma che si compendiò in questa formula fortunata) fu chiamata la “seconda Repubblica”. Un pezzo della magistratura organizzata divenne allora stabilmente un attore del gioco politico, a favore di una parte di questo che l’appoggiava, ma esigendo da essa l’esoso prezzo di impedirle qualunque manifestazione di autonomia, quanto all’organizzazione del potere giudiziario: la proposta di Giuliano Pisapia, presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, indipendente del gruppo di Rifondazione Comunista, costituì l’essenziale motivo della sua mancata ricandidatura; questa stessa e in più quelle della divisione del CSM in due sezioni e dell’istituzione di una Corte disciplinare erano soluzioni già presenti nella relazione finale della Commissione D’Alema del 1997 – 1998, approvata da questa, ma mai dal plenum delle assemblee. Contro questo blocco c’era quello opposto, capeggiata da un noto imprenditore, prima del mattone e poi delle televisioni private, «sceso in politica», perché «l’Italia è il Paese che amo».

Quella che si è ora descritta è peraltro una fotografia del passato, che ritrae la prima esperienza di bipolarismo dell’alternanza o conflittuale del sistema politico italiano (la nostra storia repubblicana era stata infatti caratterizzata in precedenza, anche in età liberale, da una sua variante consociativa, nella quale la “cosa” ― metaforizzata da un giovane Italo Calvino nell’immagine della “Grande Bonaccia” ― ne aveva preceduto la teorizzazione e denominazione di “compromesso storico”). Oggi il bipolarismo conflittuale sopravvive, ma con partiti profondamente mutati e con altri protagonisti.

Anche la magistratura, dopo un picco di popolarità, ha conosciuto un momento di ripiegamento e il suo Consiglio superiore una profonda crisi, nata da un episodio che ha coinvolto alcuni suoi membri e un ex presidente dell’Associazione, poi radiato dall’ordine. Uno studioso ha ritenuto di recente che la «dimensione politico-rappresentativa» dell’organo sia «una questione da (ri)mettere a fuoco», auspicando «un rilancio della natura costituzionale del CSM», ma la riforma in discussione va precisamente in direzione opposta, caricandosi di un forte simbolismo. Essa interviene in un momento storico nel quale, come rilevano ricerche sociologiche, si è appannata una certa tensione ideale nei giovani che accedono alla magistratura e in coloro che già ne fanno parte, prevalendo semmai uno spirito corporativo e carrieristico. Cessando dal servizio per limiti di età, la prima presidente della Corte di cassazione ha così rilevato con allarme che molti vincitori di concorso, all’atto di prendere servizio, lo hanno evitato, preferendo ― pur dopo avere superato un concorso impegnativo ― altre offerte più lucrose e prestigiose nel frattempo loro giunte.

Quanto al testo della riforma e alla “filosofia” che esso palesa, non ha tanto rilievo pratico la separazione formale delle carriere, che nella realtà non costituisce davvero un problema, essendo pochissimi i casi in cui il mutamento di funzione oggi avviene e perdipiù potendo riguardare un magistrato una sola volta e unicamente cambiando regione del suo servizio. Da questo punto di vista, essa è stata sostenuta fortemente dall’Unione delle Camere Penali e dal Consiglio Nazionale Forense, in forza di un’interpretazione possibile (ma come detto sopra non l’unica pensabile) dell’art. 111 della Costituzione.

Né davvero rileva molto privare il Consiglio della funzione disciplinare, anche se certo il modo di esercitarla appare non del tutto in asse col principio del “giusto processo davanti a un “giudice terzo e imparziale”, tale essendo anche il procedimento disciplinare (che «si svolge con le garanzie del giusto processo regolato dalla legge a tutela, innanzitutto, del magistrato incolpato, ma anche in consonanza con la funzione propria della responsabilità disciplinare e con la sua vocazione a oltrepassare la ristretta cerchia di un corpo professionale organizzato», rileva una dottrina). Il potenziale incolpando infatti potrebbe avere votato per chi potrebbe essere in ipotesi il suo giudice naturale, ma si tratta di una situazione a cui si è già posto rimedio e comunque lo stesso studioso ritiene che legittimamente «la giustizia disciplinare presenti scostamenti piuttosto significativi» rispetto al “giusto processo”, con opinione autorevole che non può essere discussa qui.

Il punctum dolens attorno al quale ruota davvero tutta la riforma è piuttosto, a ben vedere, quello del doppio CSM e del sorteggio per farne parte. Effettivamente ne risulteranno potenziati i pubblici ministeri ed inoltre si intende palesemente con la sua introduzione colpire il principio della rappresentanza, che si adatta fisiologicamente a un organo di natura politica (e infatti è su di esso che sono appunto costruite le assemblee politiche a tutti i livelli) e non o assai meno a uno tecnico, cui semmai si attaglia meglio l’autorevolezza conferita dalla “rappresentatività” ― che è concetto diverso, non necessariamente coincidente col primo ― di chi lo compone, ossia dall’essere chi ne è dotato percepito come il più possibile super partes, superandosi insomma vincoli correntizi di mandato, che possono dissimulare scambi di favori,  in modo da essere largamente accettato da chi deve vederne gestita la propria sorte professionale, in ragione del proprio prestigio ed equilibrio.

Naturalmente, perché questo si realizzi, il sorteggio non potrebbe essere “secco”, ossia senza temperamenti. In altra sede ho proposto che, se proprio tale sistema deve venire introdotto, sia riservato a chi ha dato prova di possedere queste doti attraverso l’esercizio di almeno un mandato in un Consiglio giudiziario. Un sorteggio “puro”, senza cautele, finirebbe per premiare infatti chi non ha davvero una vocazione verso questa particolare attività di amministrazione delle carriere dei colleghi e allenterebbe quei vincoli di “disciplinamento” che nascono dall’essere membro di una “corrente”. Ancora una volta torna il parallelo con la composizione delle commissioni di concorso per una posizione di ruolo nell’università, nelle quali ― sulla base del previo proporsi a tale ruolo di chi comunque non può avere titoli di carriera minori di coloro che deve giudicare idonei alla docenza, per avere poi essi titolo al concorso locale ― si effettua appunto un sorteggio tra gli aspiranti, ma nessuno dei possibili componenti delle commissioni è un outsider.

Il meccanismo ora immaginato finirebbe comunque per indurre a qualificare gli istituendi Consigli piuttosto come autorità indipendenti poste a tutela di valori indefettibili che non possono non appartenere alla magistratura e si adatterebbe a un ritorno alla concezione originaria dei Costituenti, perché questi sarebbero in sostanza consigli di amministrazione dell’ordine.

Il recupero di peso della politica tradizionale rispetto a quella esercitata in forma di interpretazione del diritto che ad alcuni fa paventare il Richterrecht è un’operazione che oggi è sostenuta dalla destra al governo, ma che in realtà trova eco e favore anche a sinistra. Un suo autorevolissimo esponente, ormai fuori dell’agone politico attivo, ma che continua a definirsi comunista per formazione (già magistrato, professore universitario, presidente emerito della Camera dei Deputati e a lungo sostenitore delle istanze dell’ordine giudiziario) ha scritto or non è molto che «In sostanza la politica è priva di uno spazio di autonomia nei confronti della giurisdizione. A mio avviso è una situazione inaccettabile. Nel programma di riequilibrio tra magistratura e politica dovrebbe essere individuata con legge costituzionale un’area di decisioni politiche del Consiglio dei ministri che siano dichiarate insindacabili», mentre altri influenti personaggi della medesima parte, appena ieri, esprimono egualmente il loro favore verso la separazione delle carriere.

Con diversa e ben maggiore consapevolezza dello strumento tecnico utile allo scopo, nella posizione virgolettata si rinviene la medesima istanza immunitaria che percorre il governo attuale a proposito del processo a un ministro per un caso di resistenza assunta contra legem all’immigrazione clandestina e ancora nel “caso Almasri”: il recupero insomma della categoria dell’atto politico, anche se in dottrina non era mancata qualche voce che ritiene incostituzionale l’art. 7 del codice del processo amministrativo, che tuttora lo prevede.

Riepilogo e concludo: si è di fronte allo scontro per l’egemonia tra due ceti politici, entrambi legittimati oggi su base rappresentativa, nei termini sotto precisati, ma il secondo in forza di ― e in aggiunta a ― una qualificazione tecnica. La classe politica tradizionale, che ha competenza politica generale e monopolio legale della decisione sulla revisione costituzionale, se condivisa da un ampio quorum di parlamentari, vuole togliere il potere di interdizione e controllo nei suoi confronti che il ceto politico dei magistrati, che pretende di avere acquisito un potere di indirizzo politico settoriale, via via che suppliva la prima con l’approfittare del suo progressivo indebolimento dovuto a svariati motivi (contesa sulla produzione normativa con la magistratura medesima che ha sviluppato poteri “creativi” di essa; perdita del controllo delle risorse economiche dovuta alla globalizzazione; regionalizzazione e al contempo europeizzazione delle decisioni politiche fondamentali) ha di fatto conquistato. Prova dunque a farlo colpendo l’ordine giudiziario nel meccanismo che ne ha rafforzato negli anni la posizione effettiva, ossia la gestione elettiva autonoma della composizione del suo organo di amministrazione delle carriere dei componenti dell’ordine, che in più viene indebolito col duplicarlo.

Chiedersi peraltro se la riforma possa essere bloccata in questa fase dal Presidente della Repubblica è a mio avviso errato. A parte un potere discreto di moral suasion, che avrà certamente esercitato, nel caso di una revisione costituzionale non sufficientemente condivisa egli non riceve nemmeno il testo formalmente, come ha correttamente osservato Salvatore Curreri, Separazione della carriere? Il Colle non può fermarla, ne L’Unità, 19 settembre 2025. Semmai è all’atto della successiva (ri)pubblicazione, ossia in sede di promulgazione del testo funzionale all’entrata in vigore della legge che egli potrebbe intervenire, rinviandolo alle Camere con un messaggio motivato.

Si va dunque realisticamente verso il non auspicabile scontro del referendum costituzionale, che sarà inevitabilmente sostenuto dalle opposte schiere dei contendenti al calor bianco, per non avere saputo essi (né avuto voglia di) ritrovare davvero ― al di là di dichiarazioni di facciata di disponibilità ― l’ispirazione dei Costituenti a superare visioni contrapposte per trovare un accordo transattivo al fine di un ammodernamento ragionevole della materia. Due mezze buone ragioni, tuttavia, non danno come risultato una ragionevole verità convenzionale comune.

Apprendo solo dal commosso omaggio di Sandro Staiano, Michele Scudiero. Il Gran Normanno Maestro gentile,  leggibile sul sito dell’Associazione italiana dei Costituzionalisti dal 15 settembre 2025, che Gli era stato offerto di andare a comporre il Consiglio Superiore della Magistratura ― suppongo per poi verosimilmente vicepresiederlo ― e che egli rifiutò: «Non volle perché, accettando, avrebbe dovuto sospendere la sua opera nell’Università e non si acconciò a rinunciare, temporaneamente ma piuttosto a lungo e in una fase impegnativa, alla sua opera per gli studenti e per i giovani studiosi che ne seguivano il magistero». Si trattò dunque di una scelta fra due doveri “civili”, dettata dalla valutazione di dove avrebbe potuto essere più utile alla collettività e mantenere le responsabilità che si era assunto verso il proprio mondo di riferimento e questo era tipico dell’uomo. Non so se avrebbe concordato nel merito con quanto si legge sopra, ma non avrebbe fatto una piega sul contenuto, anche se non lo avesse condiviso, sempre che fosse stato sicuro del rigore argomentativo dello scritto. È stato infatti un grande educatore ad esso di allievi e studenti, senza però mai attentare alla loro libertà e autonomia di giudizio, anzi accogliendo e integrando nella collaborazione anche chi si era laureato con altri (io ad esempio con Gianni Ferrara, ultimo ad esserlo alla Federico II prima del suo trasferimento alla Sapienza) e veniva da un humus culturale diverso dal suo, che aveva robuste radici nel popolarismo autonomistico sturziano e nel personalismo solidaristico cattolico.

Questo piccolo lavoro è il mio primo pubblicato dopo la Sua scomparsa, intende perciò ricordarlo e viene a Lui dedicato.

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