di Salvatore Curreri
La tesi per cui l’immunità parlamentare della Salis andrebbe revocata perché i (presunti) reati sono stati commessi prima di diventare europarlamentare, sostenuta dal vicepremier e leader di Forza Italia Antonio Tajani in vista del voto del Parlamento europeo e, ancor prima, ventilata in questo blog da Alberto Di Chiara, merita una riflessione più approfondita, e non solo perché urta con l’indimenticato (perché indimenticabile) ricordo del caso Tortora (con tutte le differenze ovviamente del caso a cominciare, a mio parere, dall’abissale diversità di statura personale).
In effetti, all’apparenza, la tesi sembra inconfutabile. Se con la prerogativa della c.d. inviolabilità si vuole proteggere il parlamentare da iniziative giudiziarie ispirate a finalità politiche persecutorie, tale finalità va di per sé esclusa quando – come nel caso Salis – il reato ipotizzato di aggressione è stato commesso prima, e non dopo, la sua elezione. Qui non si tratta, dunque, di un parlamentare eletto nei cui confronti si chiede l’autorizzazione a procedere per un reato che si presume abbia commesso durante il suo mandato, ipotesi che in realtà potrebbe essere stata formulata allo scopo (prevalente o esclusivo) di condizionare il suo esercizio. Qui, al contrario, si tratta di una persona privata della sua libertà personale perché si ipotizza abbia commesso un reato prima di essere stata eletta. Non si tratta dunque di arrestare e processare un parlamentare già eletto ma, al contrario, dell’elezione a parlamentare di una persona già detenuta. Come si può, allora, ipotizzare un intento persecutorio da parte della magistratura ungherese se in realtà la persona è stata indagata e finita sotto processo quando ancora era una semplice cittadina italiana e la sua carriera politica non era nemmeno alle viste? Anzi, per dirla tutta – come nei casi Gorreri nel 1956 e Negri del 1983 – la Salis è stata candidata ed eletta proprio per essere immediatamente scarcerata per cui l’eventuale negazione a procedere nei suoi confronti da parte del Parlamento europeo non sarebbe nient’altro che un odioso privilegio personale rispetto a tutti gli altri detenuti, in chiara violazione del principio d’eguaglianza!
A dispetto del Candido di Voltaire, le cose non sono però così semplici. Basterebbe, come detto all’inizio, ricordare il caso Tortora per dimostrare che si può ipotizzare di negare la revoca dell’immunità parlamentare anche se il reato (in quel triste caso poi rilevatosi inesistente) sia stato commesso prima della sua elezione (ricordiamo che l’autorizzazione a procedere penalmente – ma non agli arresti – contro Tortora fu concessa dietro sua forte insistenza).
Chi studia il diritto parlamentare – materia che il nostro ministro degli Esteri non dovrebbe ignorare non foss’altro per avere presieduto lo stesso Parlamento europeo – sa che, come espressamente previsto dal Regolamento di quell’assemblea – “l’immunità parlamentare non è un privilegio personale del deputato ma una garanzia di indipendenza del Parlamento in quanto istituzione e dei suoi membri” (art. 5.2).
Per questo motivo, le Camere, ai fini della concessione o meno dell’autorizzazione a procedere, svolgono una valutazione inevitabilmente di natura politica circa l’intento più o meno platealmente persecutorio dell’azione penale del magistrato non solo in base al momento in cui il reato è stato commesso ma tenendo conto di una molteplicità di fattori: il tempo e le modalità di esercizio della stessa azione; l’entità – grave o lieve – del reato ipotizzato; le modalità concrete di gestione del processo, qualora caratterizzata ad esempio da vizi procedurali, motivazioni inadeguate, ritardi ingiustificati, (prevedibile) eccessiva durata; nel caso di richiesta di misure cautelari (come gli arresti domiciliari o la custodia cautelare in carcere) l’effettiva sussistenza dei suoi presupposti di legge (gravità e fondatezza dei reati contestati, gravi indizi di colpevolezza, concreto e attuale pericolo di inquinamento delle prove, fuga o reiterazione del reato o commissione di altri gravi delitti); le possibili conseguenze dell’applicazione di tale misure sulla composizione dell’assemblea elettiva, circa ad esempio la possibile alterazione dei rapporti numerici di forza tra maggioranza e opposizioni; infine, ma non da ultimo, se l’iniziativa giudiziaria voglia impedire o condizionare lo svolgimento dell’attività parlamentare del singolo e più in generale incidere sulla formazione dell’opinione pubblica e sulla dialettica politica del Paese.
In base a queste premesse, il caso Salis si presenta in realtà molto più complesso perché il problema centrale in relazione al quale il Parlamento europeo dovrà valutare se concedere o meno la revoca dell’immunità richiesta dall’Ungheria non è la colpevolezza o meno della Salis, che ovviamente non spetta ad esso valutare, né l’esclusione di per sé, come invece sostiene Tajani, dell’intento persecutorio sol perché il reato ipotizzato è stato commesso dalla Salis prima della sua elezione. Il problema centrale è, piuttosto, se può essere privata la libertà personale e negato l’esercizio del suo mandato ad una parlamentare europea per effetto di un processo tutt’altro che “giusto” secondo i canoni dello Stato di diritto, nel corso del quale, come tutti ricorderanno, ha subìto condizioni di detenzione inumane e degradanti, con tanto di ceppi e catene ai polsi e alle caviglie con cui essere trascinata al guinzaglio come un cane.
Il fatto che la Commissione Affari giuridici del Parlamento europeo, a quanto sembra (la relazione, infatti, non è purtroppo disponibile sul sito perché i suoi lavori si sono svolti a porte chiuse) abbia scartato la soluzione, astrattamente ragionevole ed eccezionalmente prevista dall’art. 9.7 del regolamento interno, di concedere l’autorizzazione al processo e negare quella agli arresti, dimostra che sta proprio nelle modalità processuali seguite il cuore del problema. Non va dimenticato, infatti che l’Unione europea ha aperto una procedura d’infrazione contro l’Ungheria proprio per violazione dei suoi principi fondamentali, tra i quali l’autonomia e l’indipendenza della magistratura dal potere politico. Dell’assenza di tale fondamentale garanzia ne hanno dato inconsapevole riprova sia il portavoce di Orbán che con un post ha inviato alla Salis le coordinate toponomastiche del carcere di massima sicurezza in cui, secondo lui, andrebbe rinchiusa, in spregio al principio di non colpevolezza; sia il giudice del processo che ha inopinatamente preannunciato che la negazione dell’autorizzazione a procedere determinerebbe addirittura l’annullamento del processo, volutamente dimenticando che la posizione processuale della Salis potrebbe essere stralciata fino a quando non rieletta, giacché la garanzia dell’immunità copre il parlamentare solo durante l’esercizio del suo mandato.
L’auspicio è, dunque, che il plenum del Parlamento europeo, riaffermando la propria autonomia e tutelando la propria legittima composizione, confermi la decisione della Commissione Affari giuridici che ha respinto la richiesta di revoca dell’immunità parlamentare, mettendo in minoranza chi paradossalmente nel nostro Paese porta avanti la battaglia contro la politicizzazione della magistratura salvo dimenticarsene laddove esiste davvero.
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