Ma è davvero così complicato
il “nuovo” procedimento legislativo? Una riflessione

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di Roberto Bin

Tra le tante cose approssimative che si dicono a proposito della riforma ve n’è una che è quantomeno da discutere: che la riforma renderebbe molto complicato il procedimento legislativo, prevedrebbe una dozzina e forse più di procedimenti diversi, rischierebbe di paralizzare il Parlamento in continui conflitti. Ma è davvero così?

Certo, se si mette a confronto l’esemplare brevità dell’attuale testo dell’art. 70 (“La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere“) con i sette lunghi commi del nuovo testo, può sorgere l’impressione che le cose si complichino troppo. Se si complica il testo della Costituzione, si complica anche la nostra vita?

Dietro la proverbiale concisione dell’attuale art. 70 Cost. si nasconde infatti la causa di almeno due grossi problemi che ci attanagliano da tempo. Da un parte la imprevedibile durata del procedimento legislativo; dall’altra la grande confusione che regna nel nostro ordinamento giuridico.

Attualmente ogni progetto di legge deve essere approvato dalle due camere nello stesso medesimo testo. La Costituzione non ci dice come possa avvenire questo miracolo: sono i regolamenti parlamentari a cercare di semplificare le cose, impedendo alle Camere di modificare all’infinito il testo della legge riaprendo ogni volta la discussione sull’intero testo. Ma anche così per molte leggi passano gli anni prima di veder completato il loro cammino e talvolta arrivano in porto quando ormai le loro norme sono già invecchiate. Per esempio, l’importantissimo “collegato agricoltura” presentato dal Governo Letta nel febbraio 2014 ha chiuso il suo iter nel luglio 2016, solo perché il Senato a deciso di non introdurvi più alcuna modifica, anche se, dopo due anni mezzo, alcune norme non erano più adeguate.

Potremmo continuare all’infinito con gli esempi. Il problema però non è solo la lunghezza dei tempi, anche se c’è il reale rischio che le leggi nascano già vecchie, già superate dai tempi richiesti per la loro approvazione. Ma c’è un rischio ancora maggiore: che nei vari passaggi tra le commissioni e l’aula e tra un ramo e l’altro del Parlamento ogni piccolo e vergognoso interesse corporativo possa infiltrarsi e chiedere – anzi pretendere, se può ricattare con i voti di cui dispone – di vedere infilata nella legge la normina che gli interessa. Il più nobile degli interessi generali può ispirare una legge in partenza, ma il testo che taglia in nastro dell’arrivo può rivelarsi invece la collezione più immonda di favori e riconoscimenti per interessi inconfessabili. Spesso il Governo deve cedere ai ricatti di minoranze assetate di deroghe o privilegi per portare a casa almeno qualche risultato. Checché se ne dica, il bicameralismo perfetto non è affatto un sistema che garantisce serietà e controllo, come spesso si afferma, ma, tutto all’opposto, è il regno delle manovre sottocoperta e degli assalti alla diligenza.

Semplificare il procedimento legislativo significa dunque anche moralizzare la vita pubblica e rendere più evidenti le responsabilità di chi approva le leggi. Lo scriveva Thomas Paine già nel 1792: «Il sistema bicamerale, ammettendo il voto di ciascuna delle due Camere come corpo separato, ammette la possibilità, come spesso avviene in pratica, che la minoranza governi la maggioranza, e ciò in alcuni casi fino al punto di creare gravi contraddizioni».

C’è infatti un altro problema che sarebbe urgente risolvere, quello della confusione che domina il nostro ordinamento legislativo.

Anche qui qualche esempio può servire a chiarire il problema. Nel 2006 il Parlamento, convertendo in legge il decreto sulle Olimpiadi invernali di Torino (2006), pensò bene di infilarci anche alcune norme sulle sanzioni penali per reprimere l’uso delle droghe (la ben nota legge “Fini-Giovanardi”). Qualche anno dopo, con la legge finanziaria per il 2010 (che, come dice la parola stessa, dovrebbe contenere esclusivamente norme finanziarie), si introdussero in alcuni commi di un testo di per sé illeggibile (i commi 184 e 185 dell’art.2) modifiche radicali alla composizione dei consigli e delle giunte comunali e si soppressero i consorzi tra i comuni. Pochi mesi dopo, con il ben noto “decreto salva-Italia” si provvide (nei commi dal 14 al 20 bis dell’art. 23, giusto per aumentare la chiarezza) a stravolgere l’assetto di governo delle Province, eliminando l’elezione diretta dei loro organi.

Sono tutte misure rilevantissime, nascoste nelle pieghe di atti normativi complessi e dedicati a argomenti diversissimi, che sono state infatti dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale proprio per l’eterogeneità della disciplina, facendo così cadere tutti gli atti compiuti durante la loro vigenza. Ma come è possibile che si legiferi così?

Proprio grazie alla tanto lodata chiarezza e brevità dell’art. 70 Cost. Attualmente in Italia le leggi sono tutte eguali. Non che non ci siano tanti procedimenti diversi, sia ben chiaro. Coloro che incolpano la riforma di voler introdurre chissà quanti differenti procedimenti legislativi forse ignorano che già oggi sono molte le varianti di procedura. Alcune leggi possono essere approvate solo in assemblea e non in commissione; per alcune ci sono maggioranze particolari; per alcune ancora ci vuole un’iniziativa del Governo preceduta da accordi o intese o addirittura la consultazione delle popolazioni interessate. Ma non è per questo che il nostro ordinamento è così complicato e confuso. I problemi nascono dal fatto che le leggi “normali” possono avere qualsiasi contenuto, senza limiti. Si possono inerire norme penali per l’uso di stupefacenti in leggi che finanziano gli impianti sportivi o mascherare in norme incomprensibili (“il comma x della legge y è così sostituito”) importanti modifiche degli assetti istituzionali.

E’ chiaro che tutto questo non sparirà con la riforma, derivando da un pessimo modo di concepire la legislazione che è tutto italiano. Ma bisognerebbe capire se la riforma migliorerebbe o peggiorerebbe la situazione, piuttosto che stare a guardare il numero dei procedimenti. La riforma introduce infatti due diversi procedimenti legislativi (di cui uno con due varianti minime).

Il primo procedimento riguarda le c.d. leggi bicamerali: sono le leggi che devono essere approvate da entrambe le Camere (ossia con il procedimento che oggi si applica a tutte le leggi). Queste leggi – in tutto quattordici – sono specificamente individuate dall’art. 70, che le chiama per nome e cognome: ecco perché è così lungo, perché è precisissimo nell’individuarle, in modo da non creare ambiguità e quindi divergenze interpretative. Sono tutte leggi “di sistema” che non vengono approvate o cambiate molto di frequente (leggi costituzionali, leggi su minoranze linguistiche e referendum, leggi su organi e funzioni fondamentali degli enti locali, leggi sulla partecipazione e attuazione politiche dell’UE, leggi sull’elezione dei senatori, leggi che disciplinano l’intervento sostitutivo del Governo nei confronti di Regioni  e enti locali, leggi che disciplina i principi del sistema elettorale regionale…). La cosa più importante è che queste leggi potranno essere modificate solo seguendo la stessa procedura: sono cioè leggi “tipiche”. Non potrà più avvenire che nelle pieghe della legge finanziaria o di qualche decreto legge si cambino – per esempio – gli organi di governo o il sistema elettorale dei Comuni. Così come – ma grazie ad un’altra novità della riforma, che restringe l’uso del decreto-legge e limita gli emendamenti introdotti dal parlamento in fase di conversione in legge – non si potranno più seppellire  in un decreto legge norme come quelle ricordate in precedenza.

Il secondo procedimento è invece imperniato sulla sola Camera dei deputati: ma con un controllo del Senato, che potrà chiedere di esprimere la propria valutazione sulla legge approvata dalla Camera e, se vuole, proporre modifiche. Ma non può paralizzare la Camera: tempi certi garantiscono la Camera che può anche riapprovare il testo della legge senza accogliere le osservazioni del Senato (le varianti di cui accennavo in precedenza riguardano questi aspetti, in relazione a specifiche leggi).

Insomma, non c’è alcuna confusione, nessuna caotica moltiplicazione dei procedimenti, nessun rischio di conflitto tra le Camere. Può sorgere l’impressione però che la funzione legislativa del Senato sia sminuita, ridotta a una pura funzione consultiva, come i critici (un po’ contraddittoriamente) sostengono. Certo tutto dipende da come il Senato si organizzerà, sarà capace di operare a dovere e di conquistare autorevolezza politica: da ciò dipende il peso che potrà esercitare nelle decisioni del Governo e della Camera. E’ una partita tutta da giocare, ma un punto è certo: che l’azione delle autorità pubbliche non potrà che giovarsi dal fatto di far partecipare alla formazione delle leggi i soggetti (Regioni e Comuni) che quella legge dovranno applicare. A tutti conviene superare il conflitto perenne che oppone – molto spesso davanti alla Corte costituzionale – il centro alla periferia. Anche a noi, che ne paghiamo integralmente i costi.

Roberto Bin

 

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