di Chiara Bergonzini
La vittoria del NO al referendum costituzionale del 4 dicembre scorso, seguita dalle (tanto repentine quanto non tecnicamente dovute) dimissioni del Governo Renzi il giorno successivo ha avuto, tra le altre, alcune conseguenze sulla decisione in merito alla manovra economica, che vale la pena segnalare, quantomeno a futura memoria.
La prima, sotto gli occhi di tutti, è stata un’accelerazione frenetica nella c.d. “agenda istituzionale” e – di conseguenza, ma solo nella narrazione politica – la necessità di approvare in tempi a dir poco sconcertanti il bilancio 2017-2019: in sostanza, la (inevitabile) richiesta del Presidente della Repubblica di rimandare le dimissioni a dopo la chiusura della sessione di bilancio ha prodotto l’approvazione del bilancio medesimo, al Senato, in una manciata di ore, tra il pomeriggio del 6 e la mattina del 7 dicembre [qui l’iter].
I tempi per un esame relativamente tranquillo ci sarebbero stati (di solito le manovre si chiudono a ridosso di Capodanno), ma, invece di rinviare l’apertura della crisi di Governo di meno di una ventina di giorni, il Senato ha votato la legge il 7 dicembre, “nel testo approvato dalla Camera dei Deputati”, senza discussione, senza previo esame (e quindi senza relazione) da parte della Commissione Bilancio e con la posizione della questione di fiducia da parte del Governo. In pratica, a scatola chiusa. Questa soluzione (se così si può chiamare) è stata giustificata davanti all’opinione pubblica dalla necessità di “mettere al sicuro i conti”. Peccato che – e qui arriviamo alle conseguenze non immediatamente evidenti – rischi di produrre il risultato opposto, per un motivo in realtà molto semplice: il bilancio 2017-2019 pervenuto al Senato era, volutamente, incompiuto.
Il disegno di legge, infatti, è stato presentato dal Governo alla Camera dei Deputati il 29 ottobre (con 9 giorni di ritardo rispetto alla scadenza prevista dalla nuova legge di contabilità, riformata solo tre mesi prima e già violata), ma, dopo una serie di censure da parte del Presidente della Commissione Bilancio (al quale spetta l’ingrato compito di tentare di depurare il testo da tutto ciò che non c’entra col bilancio, ed è sempre tanto), il 2 novembre era seguito uno stralcio, per cui l’esame della Camera è iniziato davvero solo il 10 novembre. Trattandosi di provvedimento non solo cruciale ma anche imponente nelle dimensioni, l’esame si stava protraendo, come sempre, da un paio di settimane; finché è improvvisamente emersa nella maggioranza la necessità di chiudere i lavori della Camera entro il 2 dicembre (cioè prima del referendum costituzionale), rinviando al Senato (che pure era uno dei punti cardine della revisione costituzionale su cui verteva il referendum: mah) alcune questioni di non poco conto, che avrebbero richiesto ulteriori approfondimenti.
Per questo il testo della legge di bilancio è stato votato dalla Camera, con la fiducia sui saldi di cui si è già detto e inviato al Senato con la richiesta (esplicita, nel resoconto dell’Assemblea del 25 novembre, p. 3-4) di approfondire i seguenti argomenti:
– l’articolo 2 del d.d.l., cioè “tutta la parte relativa agli incentivi per la riqualificazione energetica verso la sicurezza sismica degli edifici”;
– il tema degli “interventi complessivi sulle calamità naturali, sui territori interessati da eventi sismici”, sui quali peraltro il Senato aveva già lavorato in occasione del terremoto del Centro Italia dell’agosto scorso e aveva quindi “anche immediatamente presenti gli elementi di coordinamento e di organicità necessari per intervenire anche sugli eventi del passato”;
– una parte “dei temi legati agli enti locali e alle autonomie territoriali”, consistente nell’individuazione dei criteri di riparto tra Stato ed enti locali dei vari fondi, dei quali nel bilancio era stato fissato solo l’ammontare complessivo.
Per non parlare del problema della copertura per la c.d. “disattivazione delle clausole di salvaguardia” (stimata in circa 15 miliardi di euro), prevista solo per il 2017 e con misure una tantum (il che lascia con il dubbio di cosa succederà nel 2018, quando quei fondi, ammesso che si trovino quest’anno, non saranno più reperibili) e del c.d. dossier Monte dei Paschi di Siena, per cui potrebbe essere necessario recuperare circa 5 miliardi di euro (di aiuti di Stato).
Che all’opinione pubblica sia giunta notizia solo della (pur grave) mancata attribuzione delle risorse per far fronte alle cure oncologiche nella zona dell’Ilva di Taranto è quindi, di per sé, sintomatico dell’atteggiamento di classe dirigente e mass media nei confronti della decisione politica per eccellenza, considerata cruciale in quasi tutti gli ordinamenti che si definiscono democratici. Ma le sorti di un Governo temerariamente legate all’esito di un referendum costituzionale hanno prevalso sulla necessità di esaminare con quanta più attenzione possibile la strategia economica dell’Italia per il prossimo triennio.
Al momento, l’unica certezza è che i problemi lasciati irrisolti dalla “manovra a metà” esploderanno, probabilmente entro breve, e a quel punto sì che saranno urgenti: così da giustificare, tanto per cambiare, uno, due, tre decreti-legge, che saranno emanati in tutta fretta, magari con maxiemendamenti su cui porre la fiducia, senza alcun coordinamento con il quadro ordinario di bilancio, con enormi margini di manovra per il decisore di turno e, di conseguenza, con un tasso ridicolo di controllo democratico. Sui soldi di tutti, ovviamente.