Il problema non è il Kirpan ma la stampa

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di Roberto Bin

Nella società della comunicazione la fretta di lanciare le notizie non consente di perdere tempo a controllare i “fatti”. Così per 24 ore siamo stati sommersi da lanci di notizie, commenti a caldo, dibattiti accalorati con il consueto strascico di contumelie, a proposito della sentenza della Cassazione che afferma che il Kirpan, il pugnale rituale indossato dai Sikh, non è compatibile con la legge italiana.

In realtà nessuno ha contestato che sia lecito che per motivi di appartenenza religiosa una persona circoli armata: quello che ha gettato benzina sul fuoco è che la Cassazione avrebbe detto che gli stranieri devono conformarsi ai “valori” del paese che gli ospita, e questo sembrerebbe preludere ad un cambiamento di rotta “integrazionista” della suprema Corte. Ma tutto ciò semplicemente non è vero: o meglio, è falso, una classica fake news come si chiamano oggi le vecchie e care balle. Basta leggere la sentenza che è qui riportata e di cui ora riassumo i due passi fondamentali.

1- Chi circola con armi è punito con una contravvenzione, salvo che non ricorra un “giustificato motivo”. Questo ricorre – dice la giurisprudenza – quando le esigenze della persona siano giustificabili in relazione “alla natura dell’oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell’accadimento e alla normale funzione dell’oggetto”. Per es., aggiunge la sentenza, “è giustificato il porto di un coltello da chi si stia recando in un giardino per potare alberi o dal medico chirurgo che nel corso delle visite porti nella borsa un bisturi; per converso, lo stesso comportamento posto in essere dai medesimi soggetti in contesti non lavorativi non è giustificato e integra il reato”. Il nostro sikh “si trovava per strada e teneva il coltello nella cintola”, non adduce altro motivo che il portare il coltello è giustificato dal credo religioso, e ha invocato la garanzia posta dall’articolo 19 Cost. (“Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”).

Al giudice non sembra questo un motivo giustificato per derogare alla legge, perché “tra gli interessi costituzionali da tenere in adeguata considerazione nel modulare la tutela della libertà di culto… sono senz’altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza”. Sin qui si parla di interessi, non di valori: il bilanciamento di interessi è una delle tipiche operazioni che tutti i giudici del mondo compiono più volte al giorno quando incappano in interessi in conflitto (la sicurezza pubblica, da un lato, il rispetto delle usanze religiose, dall’altro, nel nostro caso).

2- Ma la difesa del sikh si appella ai valori dell’appartenenza etnica e religiosa, intendendo piegare a suo favore la bilancia degli interessi con un carico pesante (i valori appunto). La Cassazione obietta che “in una società multietnica, la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere… il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante”. Da qui l’obbligo per l’immigrato “di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina”; “non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante”. Perciò il richiamo ai valori della cultura di appartenenza deve conciliarsi con il nostro ordinamento, “che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto di armi e di oggetti atti ad offendere”.

Tutto qua. Magari la polizia poteva chiudere il solito occhio, come fa tanto spesso con i sikh che sono indispensabili alla produzione (a basso costo) del parmigiano reggiano; magari il sikh avrebbe potuto sostenere che indossava eccezionalmente il kirpan perché si stava recando ad una cerimonia religiosa (cosa non si portano dietro i nostri flagellanti nelle loro trucolente cerimonie?): ma partita la denuncia può il giudice disapplicare la legge penale e ritenere che indossare armi sia comunque giustificabile in nome di “valori” religiosi?

Come si vede il problema sta tutto in questo quesito. Non di assimilazione si tratta, ma di rispetto della legge penale. La pretesa – messa in bocca alla Cassazione – per cui gli stranieri devono assimilarsi ai nostri valori è semplicemente una balla.

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1 commento su “Il problema non è il Kirpan ma la stampa”

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