Un “fascio” di polemiche, ma quanti conoscono le norme?

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di Gabriele Maestri *

Era prevedibile che l’ammissione della lista Fasci italiani del lavoro nel piccolo comune mantovano di Sermide e Felonica (con la candidata sindaca eletta in consiglio) scatenasse un vespaio, alimentato da una lettera mandata dalla presidente della Camera Laura Boldrini al ministro dell’interno Marco Minniti.

I media hanno dato debitamente conto delle reazioni (comprensibili) dell’Anpi e di altre associazioni e di vari politici, indignati o spaventati dall’idea che passi il messaggio che “il partito fascista può presentarsi alle elezioni” (anche se la stessa lista aveva partecipato ad altre tre tornate elettorali, con meno polemiche rispetto a oggi). Eppure, come studioso di diritto elettorale e di simboli dei partiti, non sono scandalizzato: di questa questione si discute da un quarto di secolo e molti si indignano ogni volta, spesso senza conoscere a fondo le regole.

Partiamo da queste. Si cita sempre la XII disposizione finale della Costituzione, per cui “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”; si cita anche la “legge Scelba” (legge 20 giugno 1952, n. 645) che punisce tanto la ricostituzione del “disciolto” partito fascista, l’apologia di fascismo e le manifestazioni fasciste. Ma di quali fattispecie parliamo? Dall’inizio, della XII disposizione finale si è data una lettura restrittiva, visto che si va a limitare la libertà di associarsi in partiti politici (non a caso, l’art. 49 esige solo che il concorso alla politica nazionale avvenga “con metodo democratico”): il testo non vieta la ricostituzione di un qualunque partito fascista, ma del “disciolto partito fascista” (la prima parola è stata aggiunta nella discussione alla Costituente), per cui è vietato richiamarsi interamente a quell’esperienza, nelle stesse forme e con gli stessi metodi di allora.

Quanto alla “legge Scelba”, per il suo art. 1 si ha “riorganizzazione del disciolto partito fascista” quando “una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”. Benché l’ultima frase sembri meno concreta di quelle precedenti, anche questa dev’essere letta alla luce delle parole che precedono e del fatto che, via via, si è cercato di ridurre lo spazio dei reati di mera opinione: non si ritiene più giusto punire per un’idea, ma solo se quell’idea minaccia in concreto i diritti degli altri.

Ora, da studioso di simboli mi è capitato varie volte di occuparmi del Movimento Fascismo e libertà (Mfl), fondato all’inizio degli anni ’90 da Giorgio Pisanò. È giusto dire che dal 1992 in poi, nessuno dei procedimenti penali iniziati nei confronti di Fascismo e libertà si è concluso con una condanna. Nello statuto del Mfl si legge, tra l’altro, che “Il Movimento fa propria tutta l’ideologia Fascista Mussoliniana escludendo dal contesto politico, sociale e civile ogni qualsiasi forma di violenza fisica, morale e/o psicologica rivolta nei confronti dei cittadini appartenenti a qualsiasi nazione, razza, ceto e religione che non si riconoscono ideologicamente nel pensiero politico” del partito stesso. Nulla, dunque, che possa permettere di parlare di ricostituzione del partito fascista.

Certo, il piano elettorale e quello penale sono distinti: non tutto ciò che è penalmente non rilevante è ammissibile quando si vota. Dal 1992 il Mfl ha cercato spesso di far ammettere il suo contrassegno alle elezioni nazionali, così come ha presentato candidature nei comuni più piccoli, andando incontro a molte difficoltà. Nel 1994 il Consiglio di Stato, interpellato dal Viminale sul caso di Fascismo e libertà, in un parere ha riconosciuto che (pur mancando divieti espliciti per i contrassegni elettorali) “non è concepibile che un raggruppamento politico partecipi alla competizione elettorale sotto un contrassegno che si richiama esplicitamente al partito fascista bandito irrevocabilmente dalla Costituzione” (anche se non si può parlare di ricostituzione del partito fascista).

Per i giudici di Palazzo Spada era illegittimo esporre “congiuntamente l’emblema del fascio e una scritta comprendente la parola ‘fascismo’”, non era però illegittimo l’uso del fascio in sé, magari accompagnato da parole diverse da “fascismo”. Il fascio, infatti, era un segno romano e prima ancora etrusco, poi ha assunto “il valore di simbolo della forma repubblicana dello Stato” (specie nella Repubblica romana di Mazzini, citata pure nello statuto dei Fasci oggi discussi). L’uso fatto dal partito di Mussolini, dunque, non consente di dire “che quel simbolo, in sé e per se, abbia un significato unico ed univoco”: usare il fascio in un contrassegno elettorale, insomma, per il Consiglio di Stato è ammissibile, purché sia “disgiunto dalla parola ‘fascismo’”. Il Ministero dell’interno ha sempre letto il parere in modo restrittivo, non ammettendo emblemi col fascio del tutto in vista (ma una volta, nel 2001, un’intera catasta di fasci sfuggì ai funzionari); le commissioni elettorali locali – che in sede di esame delle candidature devono procedere a controlli molto più impegnativi per vari comuni – invece oscillano tra la linea dura e quella morbida, che ammette emblemi con il solo fascio, anche non nascosto, purché non vi sia alcun accenno al fascismo.

Visti questi precedenti, occorre chiedersi – a costo di apparire lapalissiani – se i Fasci italiani del lavoro sono fascisti. In base allo statuto – unico documento che conta per inquadrare un soggetto politico – il loro fine ultimo è la “democrazia delle categorie” con “l’individuo al di sopra dalla lotta di classe, nel quadro di istituzioni rappresentative della volontà popolare liberamente elette (Presidente della Repubblica, Paramento), dove il cittadino-produttore […] possa diventare compartecipe della gestione dello Stato e della Produzione e beneficiario degli utili che dalla Produzione derivano”. C’è un giudizio duro sui partiti, “ormai egemoni e arbitri incontrollabili della vita del singoli e della collettività nazionale”, ma non è campato in aria ed è cosa diversa dal chiedere la loro abolizione.

Al di là di intenti revisionistici (si nega che il fascismo sia stato frutto della sola violenza di pochi sul popolo italiano e che non potesse avere sbocchi democratici), l’orizzonte dei Fasci è la democrazia corporativa, la sottrazione del lavoratore alle leggi del mercato, che deve convivere però con “la salvaguardia delle libertà di stampa, di associazione, di espressione e di religione” e il “rifiuto di ogni forma di discriminazione razziale, rivendicando il rispetto di ogni etnia ciascuna con le proprie peculiarità culturali”. Lo statuto auspica poi come forma di governo una repubblica presidenziale, con un Parlamento bicamerale (eletto con sistema proporzionale e soglia di sbarramento al 5%) diviso tra una Camera (“espressione dei partiti politici”, al plurale…) che approvi le leggi e un Senato “rappresentanza di tutte le categorie produttive” che ne verifichi l’applicazione. Certo, si parla anche di “soppressione delle norme costituzionali transitorie e delle legislazioni speciali”, di “pacificazione effettiva, con il riconoscimento del servizio militare prestato dai Combattenti della Rsi” e di “verità storiche” da ristabilire, sul fascismo, sul trattato di resa agli Alleati e sul trattato di pace: elementi sgradevoli, ma molto simili a quelli propugnati negli anni da persone e partiti regolarmente presenti nel Parlamento repubblicano.

Basta questo per dire che i Fasci italiani del lavoro sono un tentativo di ricostituire il “disciolto partito fascista”? Probabilmente no. È sufficiente invece a vietare l’uso del simbolo? La risposta è più difficile. La parola “Fasci”, per riprendere la domanda di prima, di per sé non è fascista, visto che è ben precedente (si pensi ai Fasci siciliani dei lavoratori di fine ‘800); gli intenti svelati nello statuto sono “fascisti”, ma non per la parte violenta o nemica della libertà.

Non mi sento di dire che i membri della commissione elettorale (a quanto si apprende, sostituiti dalla prefettura di Mantova) siano stati distratti o superficiali: mi pare che abbiano agito – non senza avere dubbi, probabilmente – in conformità al parere del Consiglio di Stato del 1994 e alla lettura restrittiva delle disposizioni costituzionali e di legge. Non è impossibile che, nel dubbio, abbiano scelto di ammettere il simbolo, preferendo allargare il numero di concorrenti piuttosto che restringerlo; se avessero optato per la bocciatura del simbolo, i giudici amministrativi avrebbero potuto riammetterlo con riserva (lo hanno fatto nel 1993, con il simbolo di Fascismo e libertà con il fascio in bella vista e il nome modificato in Democrazia corporativa e libertà).

Morale, non serve indignarsi per la mancata applicazione delle norme sul partito fascista: queste ci sono, ma applicarle qui non avrebbe portato a escludere correttamente il simbolo. Si può ritenere che una disposizione o la sua interpretazione (cioè la norma) siano blande. Ma se ci sono e finché ci sono, vanno applicate quelle, non altre.

*Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e istituzioni politiche comparate all’Università di Roma “La Sapienza”

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