di Antonio Floridia
Giovanni Sartori aveva una precisa idea della scienza politica: la scienza politica non è una scienza “esatta”, ma nondimeno può offrire alcuni validi insegnamenti a coloro che si ingegnano di trovare soluzioni adeguate ai problemi istituzionali. Ragionamenti ipotetici e controfattuali (del tipo: “se si adotta questo meccanismo, ceteris paribus, è probabile che accada questo o quest’altro”) possono essere utili strumenti di analisi e di verifica empirica.
Da qui, anche, la possibilità di quella che Sartori definiva ”ingegneria istituzionale”, ossia la possibilità di valutare i possibili effetti di determinate soluzioni e di progettare qualcosa sulla base di assunti che certo non sono infallibili, ma nondimeno si possono rivelare sufficientemente affidabili. In Italia, invece, da qualche tempo, specie in materia di riforma elettorale, domina il “bricolage” istituzionale, ossia il tentativo confuso di assemblare materiali di risulta, congegni e meccanismi sulla base di (presunte) convenienze di corto e cortissimo raggio…
Sistemi elettorali ce ne sono tanti, e di diversi, e molti di essi ampiamente sperimentati; ma qui si insiste sulla via perigliosa della combinazione “creativa” di logiche diverse. Di più: ci sarebbe bisogno anche di una riflessione di tipo normativo, e finanche filosofico, sulle finalità che dovrebbero guidare la scelta di un nuovo sistema elettorale, in un momento storico che vede una grave crisi di legittimità delle istituzioni democratiche e un galoppante processo di destrutturazione del sistema politico e del sistema dei partiti. Ogni scelta su un sistema elettorale implica delle premesse normative: in ultima analisi, rimanda ad un’idea o ad un modello di democrazia. Ma nulla di tutto questo entra nei discorsi correnti sulle riforme elettorali. Al contrario, da una parte domina l’improvvisazione e, dall’altra, una soverchiante egemonia dei discorsi giuridici e costituzionalistici, come se il problema principale fosse quello di misurare la presunta costituzionalità di un sistema elettorale, e non quello di valutare i suoi effetti e la sua efficacia.
Sulla base di queste premesse, propongo qui una prima analisi del testo depositato dal relatore Fiano presso la Commissione Affari istituzionali della Camera (definisco questo testo come “testo Fiano”: mi rifiuto di chiamarlo “Rosatellum”: è bene finirla con questo vezzo del “latinorum”, che contribuisce a dare a questo dibattito un insostenibile alone di vacuità e fatuità).
C’è molto scetticismo sulla possibilità che l’ultima creatura partorita nelle cucine oscure in cui si cerca di rimescolare ingredienti per trovare la pietra filosofale di una nuova legge elettorale, possa arrivare in porto. Comunque, può essere utile guardare dentro questi marchingegni per cercare di capire la logica politica che li ispira.
Il testo Fiano viene definito come una legge “Mattarella rovesciata”; ma non è una definizione corretta. Non si tratta infatti di una semplice inversione del rapporto tra seggi uninominali e seggi proporzionali, ma di un sistema che prefigura una logica competitiva completamente diversa. Nella Mattarella, il 75% dei seggi era assegnato in collegi uninominali maggioritari e il 25% su base proporzionale: ora saremmo grosso modo, rispettivamente, al 36% e al 64%. Ma allora c’erano due schede per la Camera e una per il Senato e si configuravano due competizioni ben distinte: qui ci sarebbe una scheda unica (una per la Camera e una per il Senato) e un voto unico, senza possibilità di voto disgiunto. E’ questo il punto più importante e quello che ha le maggiori implicazioni politiche e strategiche, come cercherò di dire più avanti.
In sostanza funziona così, (parlando della Camera: per il Senato vale lo stesso, solo che i numeri sono dimezzati):
a) Il territorio nazionale è diviso in 231 collegi uninominali: i restanti 386 seggi (per non complicare il discorso lasciamo da parte Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta, e poi ci sono i 12 eletti all’estero) sono eletti attraverso collegi plurinominali, in cui sono presentate mini-liste bloccate (da tre a sei candidati).
b) Un collegio uninominale corrisponde grosso modo ai vecchi collegi del Senato nella legge Mattarella. Collegi uninominali contigui formano un collegio plurinominale, in modo che questi abbiano da tre a sei candidati. I due tipi di collegi, a loro volta, sono racchiusi in una circoscrizione: per molti regioni, l’intero territorio regionale; mentre le regioni più grandi sono divise in più circoscrizioni,fino a quattro per la Lombardia). La legge affida una delega al governo per il disegno di questi collegi.
c) Per capire la logica del sistema, è meglio subito fare riferimento alla struttura della scheda: sarà grosso modo come quella ultimamente usata per l’elezione dei sindaci, nei comuni maggiori: il nome del candidato in un rettangolo lungo in alto, e – sotto – i rettangoli con i simboli delle liste che lo appoggiano, a coppie di due. A fianco dei simboli, i nomi dei candidati della mini-lista bloccata del collegio plurinominale. Quindi, sono di nuovo previste le coalizioni.
d) L’elettore può esprimere un solo voto: se vota un simbolo di partito, il suo voto concorre all’elezione del candidato uninominale e, nello stesso tempo, concorre alla competizione per i seggi proporzionali. Come detto, non è ammesso il voto disgiunto. Per votare il candidato uninominale bisogna votare una delle liste a sostegno; se si vuole votare una lista, si vota necessariamente anche il candidato uninominale. Nel caso l’elettore voti solo per il candidato uninominale, è stata escogitata una specie di redistribuzione pro quota: mettiamo che ci siano 1000 voti solo per il candidato e due liste a sostegno che prendono, in quel collegio, rispettivamente il 75% e il 25% dei voti della coalizione: quei 1000 voti sono riassegnati, per il proporzionale, nella stessa misura: una lista prende 750 voti e l’altra 250.
e) Altro dettaglio importante: le coalizioni devono essere le stesse in tutto il territorio nazionale; non sono ammesse coalizioni a geometria variabile;
f) Sono ammesse candidature plurime: in tre collegi plurinominali, e in un collegio uninominale e in tre collegi plurinominali. Il “controllo” sugli eletti è assoluto. Il candidato uninominale “a rischio” può così avere un comodo paracadute.
g) Nei 231 collegi uninominali viene immediatamente eletto il candidato che arriva primo. Per gli altri seggi, si fanno le somme dei voti nazionali ad una lista, si stabilisce un quoziente semplice, e si stabilisce quanti dei 386 seggi spettano a ciascuna lista. Poi c’è un meccanismo “top-down” che porta alla distribuzione territoriale di questi seggi nelle circoscrizioni e poi nei vari collegi plurinominali all’interno della circoscrizione.
h) La soglia per essere ammessi alla ripartizione è fissata, sia alla Camera che al Senato, al 3%. Però c’è una peculiare complicazione (che “tradisce” particolari convenienze): nel caso di coalizioni, sono ammesse quelle che ottengono il 10% dei voti e abbiano almeno una lista che ottiene il 3%. Se ci sono coalizioni, l’assegnazione dei seggi, in prima battuta, viene fatta sui voti della coalizione (e poi i seggi vengono divise tra le liste che la compongono): e la “cifra” della coalizione si forma con il concorso di tutte le liste, anche quelle sotto il 3%, ma non di quelle sotto l’1%. Questo meccanismo introduce fortissimi incentivi al trasformismo e alla frammentazione: infatti, per favorire la vittoria nel collegio uninominale e aumentare i voti che concorrono alla ripartizione proporzionale, conteranno anche i voti delle micro-liste che si attesteranno tra l’1% e il 3%. Ed è probabile che, in cambio di questo apporto, di cui si gioveranno le liste sopra-soglia, gli esponenti di queste micro-liste avranno qualche beneficio collaterale. Dietro questo presunto “maggioritario” continuano gli incentivi alla frammentazione, e quelli della peggiore specie.
Questo è l’essenziale: ma non si comprenderebbe la ratio politica di questo progetto se non si guardasse alle convenienze dei principali attori. Fatte salve, a quanto sembra, le resistenze di parlamentari provenienti dalle regioni meridionali, questo è un modello che si attaglia benissimo all’attuale assetto del centrodestra: può risolvere felicemente non pochi problemi politici. I vari gruppi politici del centrodestra possono fare liste separate, e insieme trattare sui candidati uninominali.
Ma perché il Pd propone un modello siffatto? Probabilmente, per due ragioni, complementari: a) forzare il “voto utile” per vincere nei collegi e mettere in difficoltà una eventuale lista unitaria della sinistra, che – se corre da sola – potrà essere accusata di far “perdere” il PD nei collegi uninominali; b) costruire una qualche parvenza di coalizione, con chi si presta. Calcoli piuttosto azzardati, occorre dire: al PD, in questo momento, – privo com’è di una qualche credibile strategia coalizionale -, sembra molto più adatto il “monstrum” uscito dalle due sentenze della Corte: una competizione su base di liste separate e autonome.
Ed è per questo che, se dovessi scommettere, direi che anche questo modello non sembra avere un grande futuro.
Ottimo l’articolo di AF.
La proposta di nuova legge elettorale è un riflesso cinico dell’ultima giurisprudenza costituzionale
La proposta di nuova legge elettorale rinuncia ai premi di super-maggioranza delle precedenti versioni bocciate dalla Corte costituzionale e ottempera formalmente ai criteri molto permissivi di libera scelta degli eletti da parte degli elettori fissati dalla recente giurisprudenza.
La proposta consiste in un sistema sostanzialmente proporzionale di lista nazionale, con soglie di sbarramento basse e liste bloccate che suffragano la triste tradizione del Porcellum e dell’Italicum, mollemente contrastata dai giudici. Una mia analisi delle sentenze 1/2014 e 35/2017 è disponibile su https://www.academia.edu/33331644/La_garanzia_dei_diritti_elettorali_fondamentali.
Per rispettare formalmente i criteri giurisprudenziali di conformità, la proposta prevede piccoli collegi plurinominali con listini bloccati, ma anche pluri-candidature che consentono a chi governa la lista di decidere chi finalmente entra in Parlamento.
L’unico elemento disproporzionale (oltre le soglie) consiste in un terzo circa dei parlamentari da eleggere (a maggioranza relativa) in collegi uninominali doppiamente fasulli: essendo il voto uninominale formalmente legato e di fatto subordinato alla scelta di lista , i collegi sono solo una foglia di fico per nascondere e attenuare marginalmente la natura bloccata delle liste; i candidati uninominali non rischiano perché si possono presentare inoltre in tre collegi plurinominali bloccati; la scheda a voto unico ostacola la facoltà di voto disgiunto fra una lista e il candidato uninominale di un altro schieramento; un’ipotetica candidatura individuale che fosse solo di collegio sarebbe quindi incompleta perché chi votasse per un indipendente senza lista nazionale rinuncerebbe a due terzi del suo diritto di voto.
Nonostante la relativa omogeneità delle procedure fra Camera e Senato, la fiducia dipenderà da un voto in entrambi i rami del Parlamento e quindi da una doppia maggioranza, omogenea solo se più ampia. Le regole per l’apparentamento e le coalizioni non cambiano la natura del sistema. Le disposizioni poco rilevanti a favore dell’uguaglianza di genere possono essere facilmente raggirate attraverso calcoli pre-elettorali e le pluri-candidature con assegnazione definitiva post-elettorale.
A pochi mesi dalle elezioni l’assegnazione proporzionale dei seggi permette ai partiti che appoggiano la proposta di vanificare le speranze del M5S di raggiungere da solo la maggioranza assoluta in almeno un ramo del Parlamento; giuridicamente accettabile (la maggioranza è ampia, benché di nominati) e politicamente comprensibile (i grillini che rifiutano alleanze se la sono cercata), la tattica di fissare regole che danneggiano una parte, se denunciata con successo, rischia tuttavia di ritorcersi contro chi la sostiene e di portare voti agli avversari.
Le liste sostanzialmente bloccate, introdotte nel 2005 in condizioni similari a quelle odierne, censurate tardivamente e mollemente dalla Corte costituzionale, servono ai padroni dei tre grandi partiti, perfettamente allineati e concordi su questo punto, di comandare loro le candidature, le elezioni e gli eletti.
Visto che la legge truffa c’era già, questa è l’ennesima super-truffa elettorale escogitata da esperti diabolici al servizio di politici cinici, in assenza di protezione giuridica adeguata dei cittadini (la proposta sfrutta i criteri permissivi dell’ultima giurisprudenza ; manca il tempo per nuovi ricorsi), in assenza di analisi accademica e dottrinale all’altezza (confusione fra argomenti di scienze politiche e di diritto costituzionale, servilismo nei confronti dei potenti) all’altezza, in un paese avvilito, disilluso, vergogna dei giovani che vorrebbero liberarsi dei vizi atavici, della cultura delle carte truccate, della finzione, dell’inganno e del sopruso. Se approvata la legge aumenterà il fattore rischio-paese e dovrebbe preoccupare il resto dell’Europa.