A proposito di autonomie regionali e referendum

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di Glauco Nori

Se sui referendum della Lombardia e del Veneto si aggiunge qualche osservazione è solo per quello che se ne è sentito dire.

1 – Le Regioni possono avere “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia … con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’art.119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa tra lo Stato e la Regione interessata” (art.116, terzo comma, Cost.).
Secondo la noma costituzionale, trascritta per comodità, si tratta, dunque, dell’estensione dell’autonomia attribuita dall’art.114, secondo comma, non di una posizione istituzionale diversa rispetto allo Stato. Dal momento che si aggravano i suoi compiti, con la riduzione corrispondente di quelli statali, l’iniziativa è della Regione interessata. E’ richiesta poi una intesa Stato-Regione, sentiti gli enti locali, delle cui osservazioni si dovrà tenere conto, anche se non vincolanti. Per la legge, che è di approvazione dell’intesa, è richiesta la maggioranza assoluta dei componenti delle Camere. Per essere di “approvazione”, la legge non potrà modificare l’intesa; potrà eventualmente essere sollecitata una modifica, ma non in forma legislativa.

2 – In un periodo di conflittualità ricorrenti c’è da domandarsi se, in caso di posizione negativa dello Stato, la Regione abbia mezzi di reazione.
Se non si arriva all’intesa, sembra da escludere il ricorso al giudice amministrativo per la natura dei poteri del Governo del quale è richiesto il consenso, senza vincoli. Ma sembra da escludere anche il ricorso alla Corte costituzionale poiché le due parti attraverso l’intesa sono poste dalla Costituzione su un piano paritetico nelle loro valutazioni di ordine istituzionale. Un ricorso sarebbe forse ammissibile in casi estremi quando il rifiuto del Governo fosse motivato, per esempio, dalla colorazione politica della Giunta regionale. Non si può escludere che possa capitare; quello che sembra improbabile è che, se questa fosse la ragione, sia dichiarata nella deliberazione del Consiglio dei ministri.
Un ricorso alla Corte costituzionale non dovrebbe essere profilabile nemmeno se non si arrivasse all’approvazione dell‘intesa. In questo caso non si avrebbe una legge di diniego, ma la mancata formazione della legge di approvazione, vale a dire una iniziativa legislativa fallita. E’ questa una eventualità naturale quando è richiesta un’approvazione la cui funzione di garanzia sta proprio nella possibilità che sia negata. Va tenuto presente che la richiesta della maggioranza assoluta dei componenti le Camere sta ad indicare che si è voluta un’approvazione particolarmente garantita, con una maggiore probabilità che manchi.

3 – Il referendum, anche se non previsto dall’art.116, può essere disposto per conoscere preventivamente l’orientamento dell’elettorato, utile anche per gli enti locali che dovranno essere sentiti. La Regione Veneto ha preso l’iniziativa per la richiesta di uno statuto speciale, ma, per non creare sospetti di illegittimità costituzionale, ha precisato che non è collegata al risultato del referendum: si tratterebbe solo di coincidenza temporale. Se il collegamento fosse stato prospettato all’elettorato, non è detto che il risultato sarebbe stato lo stesso.
La richiesta per la modifica costituzionale, in quanto semplice atto di sollecitazione, non pregiudica né condiziona le competenze degli organi che dovranno intervenire. Nella situazione attuale il solo risultato prevedibile sarà uno stimolo ulteriore per le rivendicazioni da parte dell’opinione pubblica veneta.
La maggior parte dell’elettorato non è in condizione di conoscere la Costituzione nei dettagli. Per questo ha provocato qualche sorpresa che possano essere interessate ventitré materie. La ragione è che sono richiamate quelle attribuite alla legislazione concorrente dal terzo comma dell’art. 117 che da sole sono già venti.
Che siano consentite “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” non significa che le materie di legislazione concorrente passino alla legislazione esclusiva regionale. Ammesso che per qualche materia possa succedere, per le altre si avrà una diversa ripartizione delle competenze, più favorevole per le Regioni. La eventuale diversità dei criteri da Regione a Regione non dovrebbe comportare una lesione del principio di uguaglianza sempre che le differenze siano fondate sulle peculiarità rispettive. Non potrebbe lamentarsi la Regione direttamente interessata una volta intervenuta l’intesa con lo Stato, quindi con il suo consenso.
Qualche esponente regionale ha sottolineato la possibilità che le maggiori competenze investano anche il coordinamento del sistema tributario. Si sarebbe dovuto precisare, cosa che non risulta sia stata fatta, che il sistema è solo quello delle imposte degli enti territoriali della Regione, senza la possibilità di incidere sulle imposte statali il cui sistema è attribuito alla legislazione esclusiva dello Stato (art.117, secondo comma, lett.e)).
All’adeguamento dell’organizzazione, che richiederà l’aumento delle competenze, provvederanno naturalmente le Regioni in piena autonomia. E’ sul trasferimento delle risorse, come era prevedibile, che è stata subito richiamata l’attenzione: si è parlato di “trasferimento” sul presupposto di una finanza regionale prevalentemente derivata.
La Lombardia e il Veneto hanno giustificato le richieste anche con la maggiore economicità della loro spesa. Potrebbe essere l’occasione per sperimentare un nuovo sistema di finanziamento.

A fronte delle nuove competenze lo Stato, invece che trasferire, potrebbe ridurre alcune delle imposte, riscosse nella Regione, lasciando alla Regione stessa di trovare la copertura con le sue. In questo modo si andrebbe avanti nella autonomia di entrata, attribuita dall’art.119 (quella di spesa c’è già da tempo). L’operazione, sicuramente complessa, potrebbe essere avviata nelle Regioni più efficienti, quanto meno per gradi.
I principi fondamentali per il coordinamento del sistema tributario (art.117, terzo comma) competerebbero sempre allo Stato che per questo potrebbe utilizzare anche le intese.
Vanno messe in conto le contestazioni da parte delle Regioni che non vedessero accolte integralmente le loro richieste. Se ne potrebbe approfittare per una diagnosi aggiornata delle condizioni regionali. Si metterebbero in evidenza le efficienze che giustificano la nuova autonomia e le inefficienze che ne impediscono una maggiore. E non è da escludere che ne nasca una concorrenza, almeno tra quelle con le migliore intenzioni, che stimoli verso maggiori gradi di efficienza.
In ogni caso, sarebbe difficile vedere la violazione del principio di uguaglianza nel negare a Regioni meno efficienti quello che è stato concesso a qualche altra. Al contrario, il principio potrebbe entrare in gioco quando si negassero maggiori competenze alle Regioni, in grado di esercitarle correttamente, solo perché ce ne sono altre che non sono in grado di farvi fronte. Il principio di uguaglianza non dovrebbe essere inteso nel senso di portare all’allineamento al regime più basso di efficienza.

4 – Potrebbe essere questa l’occasione anche per affrontare una questione che ogni tanto riaffiora.
La Regione Veneto dà per presupposto che le Regioni a statuto speciale possano aumentare di numero, ma non ha ritenuto necessaria una verifica.
Le cinque Regioni, elencate nell’art.116, primo comma, Cost., hanno avuto storie diverse.
Lo Statuto della Sicilia è stato approvato con un Regio Decreto Legislativo (n. 455 del 1946), quando l’Italia non era ancora Repubblica. Non è stata mai fatta, almeno così risulta, una verifica di legittimità costituzionale di alcune sue norme. Non la impediva il fatto che fosse stato approvato con legge costituzionale perché, come la Corte costituzionale ha chiarito da tempo, nemmeno con legge costituzionale possono essere pregiudicati i principi fondamentali della Costituzione. Per il Trentino-Alto Adige è stato concluso a suo tempo un accordo internazionale e per il Friuli Venezia Giulia ha inciso che buona parte dei territori fossero diventati italiani solo dopo la guerra 1915-18.
Tutti gli Statuti speciali hanno trovato la loro ragione nelle condizioni particolari in cui si sono trovate le Regioni interessate subito dopo la conclusione della seconda guerra mondiale; per questo se ne sta mettendo in discussione il mantenimento oggi che le condizioni sono molto diverse.
Se la specialità degli statuti era giustificata dalle situazioni eccezionali post-belliche, c’è da domandarsi se altre possano istituite dopo quasi settanta anni, quando la situazione istituzionale si è stabilizzata.
Il principio di uguaglianza opera anche tra le Regioni: che non tuteli solo i cittadini ma anche le persone giuridiche la Corte costituzionale lo ha chiarito da tempo. L’autonomia è stata attribuita dall’art.114 a tutte così come tutte possono avere autonomie differenziate ai sensi dell’art.116, terzo comma. Di fronte ad una disciplina costituzionale uniforme, sarebbe quanto meno dubbio che altre regioni possano avere statuti speciali, una alla volta. Il fatto che si richieda una legge costituzionale di modifica dell’art.116 non è risolutivo perché, vale la pena di ripeterlo, nemmeno una legge costituzionale può derogare ai principi fondamentali della Costituzione, tra questi, in prima fila, il principio di uguaglianza.

Per ragioni in parte analoghe, si potrebbe anche arrivare alla Corte costituzionale per verificare se, una volta venute meno le ragioni che li hanno giustificati, gli Statuti speciali non siano diventati costituzionalmente illegittimi. La questione, anche se per il momento solo ipotetica, non sembra da scartare già in partenza. Una normativa eccezionale, giustificata da ragioni contingenti, potrebbe non esserlo più quando, grazie a quella normativa, le condizioni si fossero normalizzate. La ragionevolezza della normativa potrebbe venire meno col passare del tempo, portando alla violazione del principio di uguaglianza.

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