Legge elettorale: il doppio effetto di una sola scheda e un solo voto

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di Antonio D’Andrea

Anche chi aveva chiesto e sperato che in un soprassalto di dignità il dequalificato Parlamento della XVII Legislatura riuscisse a mettere mano ai meccanismi elettorali, dopo la doppia bocciatura avvenuta nell’arco di un triennio del giudice costituzionale (con le sentenze n. 1/2014 e n. 35/2017) sia della legge n. 270 del 2005 – il c.d. Porcellum – sia della legge n. 52 del 2015 – il c.d. Italicum –, credo che nutra più di qualche perplessità sulla soluzione apprestata dal legislatore per “armonizzare”, secondo le stesse sollecitazioni del Presidente Mattarella, i sistemi elettorali di Camera e Senato. E ciò a tacere del metodo seguito dall’ampia maggioranza che ha votato il c.d. Rosatellum-bis, la quale, pur ricomprendendo oltre ai Gruppi che sostengono il Governo in carica a guida Pd un pezzo consistente dell’opposizione di centrodestra (Forza Italia e la Lega), è sembrata volere procedere imponendo di fatto allo stesso Presidente del Consiglio scelte procedurali discutibili e afflittive dell’autonomia parlamentare (mi riferisco in particolare all’uso continuativo dei voti di fiducia), che lo stesso Gentiloni aveva, in linea di principio, escluso al momento dell’insediamento del suo esecutivo.

Ovviamente la giusta preoccupazione istituzionale di rivedere i meccanismi elettorali che la Corte costituzionale aveva tenuto in piedi – si è parlato di “Consultellum” – nonostante i ricordati (parziali) annullamenti per consentire in qualsiasi momento il possibile regolare svolgimento delle elezioni politiche (alla Camera la “normativa di risulta”, ricalcata sul c.d. Italicum, consentiva una ripartizione proporzionale dei seggi tra le lista liste singole con una clausola sbarramento al 3% e la possibilità di ottenere un premio di maggioranza per la lista che avesse raggiunto il 40% dei voti validi potendosi esprimere un voto di preferenza pur in presenza di “capilista bloccati”; al Senato, partendo dal c.d. Porcellum, la ripartizione proporzionale dei seggi su base regionale contemplava la possibilità di dare vita a coalizioni con soglie di accesso ai seggi differenziate tra liste singole – 8% – e in coalizione – 3% – ammettendosi ugualmente un voto di preferenza senza  “capilista bloccati”), non avrebbe dovuto comportare l’approvazione a pochi mesi dal voto di una legge qualsiasi, tanto più se destinata a non rivitalizzare affatto la rappresentatività degli organi parlamentari (deputati e senatori continueranno per lo più ad essere “nominati” dai gruppi dirigenti delle forze politiche) e a manipolare, come si dirà, gli orientamenti del corpo elettorale, cui si chiede non tanto di individuare i propri rappresentanti in ambiti territorialmente definiti quanto piuttosto di selezionare, anche ricorrendo a forzature della volontà degli elettori, la “classe parlamentare” partendo dalle convenienze delle leadership delle forze politiche messe nelle condizioni di poter soddisfare in primo luogo le proprie esigenze di autoriproduzione (si pensi alle pluricandidature ammesse in un collegio uninominale e in ben cinque collegi plurinominali).

Le ragioni di ordine schiettamente politico che stanno dietro questo ulteriore tentativo di approvare una nuova legge elettorale (la quarta dopo la tradizionale proporzionale in vigore sino al 1993) possono essere ricondotte alla volontà dei propugnatori della riforma di favorire il più possibile la formazione di alleanze tra forze politiche (le coalizioni) e di considerare anche l’elezione del Senato – nonostante la previsione costituzionale parli senza equivoci di “base regionale” – come quella della Camera e cioè espressione di un voto nazionale (anche per il Senato il previsto sbarramento del 3% per accedere ai seggi si calcola a livello centrale). È evidente che, almeno in astratto, risultano chiari gli intenti di sollecitare intese elettorali tra i partiti e di uniformare sull’intero territorio nazionale la strategia coalizionale perseguendo esiti politici del tutto simili tra Camera e Senato (la soglia da raggiungere in caso di coalizione è il 10% dei voti su scala nazionale includendo almeno una lista che arrivi al 3% dei consensi).

Tuttavia, l’aspetto della nuova legge elettorale che, dal punto di vista costituzionale, desta maggiori perplessità è l’avere previsto la possibilità per l’elettore di esprimere un solo voto diretto tanto ad eleggere con metodo maggioritario a turno unico i candidati nei collegi uninominali (232 per la Camera e 116 per il Senato) quanto a contribuire alla determinazione della cifra elettorale della lista o delle liste in coalizione tra loro, collegate inscindibilmente alle candidature singole nei collegi, le quali sono chiamate a disputarsi un certo numero di seggi – non più di otto – in un più ampio collegio plurinominale, che dunque aggregherà più collegi uninominali. Dunque, una sola scheda sia per la Camera che per il Senato, un solo voto, ma un effetto doppio!

Le liste, singole o coalizzate, in tutti i casi “bloccate” – senza cioè la possibilità per l’elettore di esprimere alcuna preferenza – formate da due a quattro candidati, saranno chiamate a disputarsi proporzionalmente, rispettivamente, alla Camera 386 seggi e al Senato 193 seggi, ancorché sulla base della cifra elettorale nazionale determinata sommando i voti delle formazioni politiche in ciascun collegio plurinominale, includendo perciò i voti riportati dai rispettivi candidati nei collegi uninominali e a prescindere dall’esito già prodotto dal voto maggioritario. Il Governo naturalmente è stato delegato dal legislatore a compiere la delicatissima operazione, non ancora ultimata, di individuazione del numero dei collegi plurinominali (se ne prevedono dai 60 ai 65 per la Camera e dai 30 ai 32 per il Senato).

A me pare evidente che estendere automaticamente il voto conseguito dal candidato che in astratto si presenta individualmente in competizione con altri singoli candidati in un collegio uninominale (dove è destinato a prevalere chi ottiene il maggior numero di voti) alle formazioni politiche chiamate a disputarsi seggi in altro ambito, arrivando persino a frazionare proporzionalmente quel voto per tutte le liste della coalizione collegate allo stesso candidato nel collegio uninominale, comporti prima di ogni altra considerazione lo snaturamento del significato logico di un’elezione di stampo maggioritario che si dice essere stata prescelta per l’assegnazione del 34 % dei complessivi seggi parlamentari. Non a caso, in effetti, il voto dato ad una lista nel collegio plurinominale si estende automaticamente al candidato ad essa collegato che pure non viene direttamente prescelto, sebbene nel collegio uninominale non si giustifica una competizione tra liste ma appunto tra persone singole!

Il collegamento indissolubilmente stabilito dal legislatore tra la competizione nei collegi uninominali e quella tra liste nei collegi plurinominali – non aver dunque previsto la possibilità di disgiungere il voto rispetto a scelte che comportano valutazioni di natura diversa per gli elettori che sarebbero chiamati ad individuare due distinti canali rappresentativi – rende a mio parere il nuovo meccanismo illogico e irrazionale, dunque costituzionalmente illegittimo, perché l’elettore per esercitare il suo fondamentale diritto è chiamato ad indirizzare il suo voto in un’unica direzione anche qualora non voglia e, proprio in forza di questa coazione, potrebbe essere sollecitato a non esprimere del tutto il proprio orientamento (disertando le urne o annullando la scheda), che viceversa avrebbe potuto essere diversamente indirizzato per la competizione maggioritaria tra candidati e per la competizione proporzionale tra liste.

Trovo, infine, davvero smaccatamente strumentale, ma soprattutto ancora una volta costituzionalmente discutibile, prevedere una clausola di sbarramento che impedisce l’accesso ai seggi per le liste che non raggiungono il 3 % e pur tuttavia consentire a quelle liste di contribuire alla cifra elettorale della coalizione della quale fanno parte ove esse raggiungano l’1 % dei voti, in sostanza cedendo i consensi dei loro elettori alle liste cui sono alleate, che se ne potranno avvantaggiare usucapendo voti non direttamente loro indirizzati. Oltretutto mentre la nuova legge fa obbligo a ciascuna lista di indicare obbligatoriamente il rispettivo “capo politico” la coalizione non è affatto tenuta ad individuare il corrispondente (e unitario) “capo” riconosciuto in quanto tale dalle forze politiche che si alleano.

Ciascuna forza politica conserva dunque la propria leadership. Dal che se ne può desumere che una volta ripartiti in modo proporzionale i seggi tra le forze coalizzate (che tuttavia si avvantaggiano pro quota dei consensi riportati dai comuni candidati nei collegi uninominali, che costituiscono la “ragione sociale” dell’intesa) il “gioco parlamentare” in vista della individuazione della maggioranza di governo sarà condotto con estrema libertà da ciascun partito ancorché facente parte di una “semplice” coalizione elettorale. Questa libertà riconosciuta dal legislatore mi pare evidenzi il retro pensiero che quel che verrà dopo l’esito elettorale sarà tutto da verificare sulla base delle convenienze del momento di ciascuna forza politica. Auguri ovviamente ma faccio fatica a scorgere la ragionevolezza dell’intento coalizionale promosso dal nuovo legislatore elettorale.

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