REGIONE SARDEGNA
Appunti per una storia della coscienza costituzionale della classe politica sarda (1948-2018)

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di Roberto Deriu

Il capogruppo del Pd nel Consiglio regionale sardo, Roberto Deriu, ci ha inviato  una interessentatissima e stimolante  ricognizione della relazione tra sistema dei partiti, cultura politica e forma di governo nella dinamica storica dell’Autonomia speciale della Sardegna dal dopoguerra a oggi. di Roberto Deriu*

CULTURA POLITICA E INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE
Seguendo un’impostazione ormai classica come quella che Leopoldo Elia diede nel 1970, quando scrisse che “[…] le forme di governo dello stato democratico non possono più essere né classificate né studiate, anche dal punto di vista giuridico, prescindendo dal «sistema di partiti»”, poiché ciò “[…] è esplicitamente o implicitamente presupposto dalle norme costituzionali vigenti”, possiamo ritenere utile una ricognizione della relazione tra sistema dei partiti, cultura politica e forma di governo nella dinamica storica dell’Autonomia speciale della Sardegna.
Proseguendo nel solco di Elia, può ben affermarsi “[…] chiarissimo che l’art. 49 cost. e gli art. 72 e 82 cost. presuppongono una pluralità di partiti e di gruppi parlamentari, senza di che le stesse regole previste dalla Carta non potrebbero applicarsi”, tesi ben estensibile al microsistema costituzionale al quale ha dato vita nel 1948 la l. Cost. N. 3 che ha approvato lo statuto speciale della Sardegna.
Parliamo di “microsistema costituzionale” non certo nell’intento di accreditare tesi fantasiose di estraneità o distanza tra la Repubblica e la sua regione speciale della Sardegna, o di “erosione dell’accezione classica di sovranità”, confutate con nettezza dalla sentenza della Corte cost. 24 ottobre 2007 n. 365, ma semmai di ribadire i concetti ormai pacifici dell’articolato pluralismo istituzionale che compone l’ordinamento repubblicano secondo una consolidata interpretazione che va dal Benvenuti al Berti, sino al pregevole recente contributo di Elena di Carpegna Brivio in materia di forma repubblicana nell’evoluzione delle autonomie territoriali.
Vero è anche però che la relazione tra Stato centrale e autonomie si è evoluta anche soprattutto sotto il profilo costituzionale nel corso degli anni, in relazione ad eventi storici, economici e sociali decisivi per la Repubblica.

LA CLASSE POLITICA DELLA “RINASCITA”: GLI INTEGRATI
In particolare questo breve contributo mira ad evidenziare il ruolo della classe politica sarda durante quella che la storiografia regionale ha definito “gli anni della Rinascita“, coincidenti con gli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso e il cui influsso è estendibile, sotto i profili che ci riguardano, al ventennio successivo, trascorso il quale iniziò invece la fase che qua vogliamo definire “del gregariato istituzionale e politico“.
Per chiarire tale concetto giova pertanto tratteggiare la fisionomia della classe politica della Rinascita per poi determinare il nuovo assetto politico e le sue conseguenze nella interpretazione costituzionale che di se stessa ha dato la Sardegna dagli anni ‘90 del Novecento fino ai giorni nostri, attraversando una fase storico-politica caratterizzata da importanti mutamenti nella vita costituzionale italiana.
La classe politica della rinascita fu perfettamente e completamente integrata nel sistema politico italiano e naturalmente e pienamente solidale con l’interpretazione costituzionale così come andò articolandosi sino alla istituzione delle regioni a statuto ordinario, nel 1970.
La politica isolana fu, sin dalla nascita della Repubblica (per certi versi anche prima, attraverso le organizzazioni antifascista clandestine e della resistenza) guidata da personalità di primo piano sul livello nazionale italiano.
In questa sede risulta superfluo trattare in maniera puntuale tale incontestabile verità storica, e sarà pertanto sufficiente limitarci ad indicare poche figure di primo piano della politica sarda: i due che assursero alla massima magistratura della Repubblica, cioè Antonio Segni e Francesco Cossiga; il segretario del PCI Enrico Berlinguer; il fondatore del Partito Sardo d’Azione e costituente Emilio Lussu; quattro nomi da soli sufficienti per rendere patente l’integrazione completa della classe politica sarda con quella italiana.
Tale posizione di completa e centrale integrazione (non si esagererebbe anche a definirla di leadership) consentì anzi postulò l’aderenza spontanea alla cultura politica e giuridica nazionale, alla quale molte di quelle personalità contribuirono in modo attivo quali giuristi.
Possiamo dire che la classe politica sarda dell’epoca in esame non solo si relazionò con quella italiana senza complessi di inferiorità, ma ne fu elemento trainante e caratterizzante.
L’assenza di un complesso di inferiorità o tantomeno di estraneità nei confronti dello Stato centrale, che viceversa contribuiva guidare, ha pertanto indotto la classe politica isolana ad avvantaggiare l’idea di una interpretazione dello Stato regionalista assai vicina alla sensibilità attuale (che pur risente degli influssi della legislazione della crisi), come quella espressa nella sentenza della Corte cost. 7 giugno 2012, n. 148, che afferma che lo Stato, avendo la responsabilità della politica economica nazionale, deve poter intervenire con la dovuta urgenza rapidità nell’interesse dell’intera comunità. Principio che di per sé potrebbe essere confuso, secondo talune antiche e contemporanee dottrine “sovraniste”, con la posizione predominante dello Stato rispetto alle autonomie ridotte al rango delle precostituzionali autarchie.
La classe politica della Rinascita volse invece tale principio a suo vantaggio, attraverso la concertazione tra Stato e Regione di intense misure di riequilibrio dello svantaggio economico della Sardegna in attuazione alla previsione del “piano di rinascita“ contenuta nello Statuto speciale, scegliendo quindi quel vasto campo di intervento economico pubblico quale esercizio della leale collaborazione secondo la formulazione durevolmente e anche recentemente ribadita dalla Corte costituzionale rispetto alla quale la Repubblica, e, per essa, in primo luogo lo Stato, opera alla ricerca costante della ricomposizione unitaria dei soggetti e degli interessi, e ciò proprio come riconferma della omogeneità della comunità nazionale.

LA CLASSE POLITICA CONTEMPORANEA: I GREGARI

Nei primi anni ‘90 del secolo scorso si concluse la prima fase della Repubblica, col tramonto dei partiti fondatori e l’avvento di un nuovo sistema elettorale, nonché, a partire dalla metà di quel decennio, dell’elezione diretta dei vertici delle regioni e degli enti locali.
Le Sardegna fu in quella circostanza allineata temporalmente alle vicende elettorali del Parlamento, poiché le prime elezioni politiche della seconda fase (c.d. Seconda Repubblica) si tennero nel 1994, in coincidenza delle elezioni del Consiglio regionale.
In quella circostanza, il personale politico “nazionale” sardo passò la mano ad una più ristretta pattuglia di esponenti provenienti dal sistema istituzionale regionale, e fecero il loro ingresso in Parlamento gli homines novi dei nuovi partiti del Centrodestra.
Il Centrodestra fu dominato dalla figura dell’uomo di fiducia di Silvio Berlusconi, Romano Comincioli, personalità estranea alle istituzioni e alla classe politica sarda.
Nel Centrosinistra, le figure dominanti divennero i nuovi parlamentari, che però prolungarono la formula “tecnica” dell’ultima giunta regionale della Prima Repubblica nell’individuazione, da allora in poi, di candidati presidenti della Regione sempre selezionati al di fuori della classe politica.
I due fatti appena illustrati ebbero la conseguenza, combinandosi insieme, di determinare una netta cesura tra classe politica italiana (con la sua componente sarda, la quale seguitò a svolgere un ruolo di attiva integrazione, seppur ridimensionato) e quella sarda.
La classe politica sarda conobbe, da quel momento e nel suo insieme, una fase di ultraventennale gregariato politico nei confronti della politica italiana.
Tale atteggiamento di fondo fu causa della brusca interruzione della tradizionale interpretazione dell’Autonomia sarda come elaborazione politico-programmatica concepita ed attuata in stretta relazione con le strutture istituzionali e amministrative dello Stato, in quanto frutto della congiunta ed indistinguibile volontà di un’unico ceto di governo.
La cesura tra le due fasi fu netta, e lasciò la politica sarda priva dei tradizionali strumenti di correzione delle asimmetrie strutturali del territorio regionale, articolato in realtà tanto diverse tra loro da farci parlare, con formula paradossale, di Sardegne, al plurale.
Non è casuale che durante quella fase dell’Autonomia esplosero in Sardegna le contraddizioni, i conflitti e le contrapposizioni tra i territori dei quali essa si compone, determinando ad esempio l’esasperata e in fondo parossistica soluzione delle otto province.
Le relazioni tra Regione ed Enti Territoriali cominciarono infatti da quel momento a conoscere una stagione caratterizzata da rapporti tormentati, durante la quale è stato impossibile determinare un equilibrata relazione improntata alla leale collaborazione; viceversa si è cristallizzata la giustapposizione delle istituzioni tra loro, accentuata dai mutamenti indotti dall’introduzione dell’elezione diretta dei vertici di comuni, province e regioni.

CONCLUSIONI (PROVVISORIE): DALL’IDEM SENTIRE AL BELLUM OMNIUM ERGA OMNES

Si passò dunque da una classe politica omogenea ed integrata a quella italiana, capace di dirigere la Repubblica anche (ma non solo) verso le necessità dell’Isola, ad una congerie di storie individuali, di cordate elettorali e di dominio, dominate dall’ossessione (ad ogni livello) di tutelare il bacino elettorale di riferimento.
La reazione a catena determinata dalla continua opposizione a chi sta sopra e sotto (regione contro stato ed enti locali; province contro regione e comuni; comuni contro tutti) annullò le risorse della cooperazione interistituzionale sacrificandola alla competizione politica, sull’altare della quale fu immolata la cultura costituzionale della classe politica che aveva prodotto la Rinascita.
Si può uscire da tale crisi?
Le soluzioni hanno da essere radicali; pertanto debbono agire sulle cause, che, come abbiamo illustrato sopra, attengono al sistema politico (e quindi elettorale; istituzionale).
Un intervento che non coinvolga l’intero sistema non offrirà la via d’uscita.
Della quale, invece, sentiamo davvero la necessità.

 * Capogruppo Pd al Consiglio regionale sardo

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