Il Presidente della Repubblica ha promulgato la legge sulla legittima difesa e contestualmente ha inviato una lettera ai Presidenti delle Camere e al Presidente del Consiglio dei ministri, in cui, da un lato, ha proposto un’interpretazione conforme a Costituzione della principale disposizione della nuova disciplina (che, di fatto, ne neutralizza tutta la dirompente – e incostituzionale – carica innovativa, tanto pubblicizzata dalla maggioranza di governo); dall’altro, ha sottolineato due profili d’illegittimità costituzionale per irragionevolezza delle previsioni normative introdotte.
Dopo aver ricordato che la nuova disciplina “si propone di ampliare il regime di non punibilità a favore di chi reagisce legittimamente a un’offesa ingiusta, realizzata all’interno del domicilio e dei luoghi ad esso assimilati, il cui fondamento costituzionale è rappresentato dall’esistenza di una condizione di necessità”, il Presidente ha osservato, in premessa, che “la nuova normativa non indebolisce né attenua la primaria ed esclusiva responsabilità dello Stato nella tutela della incolumità e della sicurezza dei cittadini, esercitata e assicurata attraverso l’azione generosa ed efficace delle Forze di Polizia”. Poi, ha fornito un’interpretazione dell’art. 2 della legge conforme ai principi costituzionali: tale disposizione, modificando l’art. 55 del codice penale, attribuisce rilievo decisivo “allo stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto”: “è evidente – ha precisato il Capo dello Stato – che la nuova normativa presuppone, in senso conforme alla Costituzione, una portata obiettiva del grave turbamento e che questo sia effettivamente determinato dalla concreta situazione in cui si manifesta”. Nessun automatismo della decisione sulla sussistenza della condizione di “grave turbamento”, che dovrà essere accertata caso per caso dai giudici. Insomma, un’interpretazione che, nel rendere compatibile con il testo della Costituzione la nuova disciplina, finisce, di fatto, con l’azzerarne la portata normativa: una specie di interpretazione “abrogante”.
Nella missiva, il Presidente rileva, infine, due profili d’irragionevolezza nella nuova normativa. Il primo attiene all’art. 8 della legge, il quale stabilisce che, nei procedimenti penali nei quali venga loro riconosciuta la legittima difesa “domiciliare”, le spese del giudizio per le persone interessate sono poste a carico dello Stato, mentre analoga previsione non è contemplata per le ipotesi di legittima difesa in luoghi diversi dal domicilio. Il secondo è relativo all’art. 3 della stessa legge, che subordina al risarcimento del danno la possibilità di concedere la sospensione condizionale della pena, nel caso di condanna per furto in appartamento o per furto con strappo ma la stessa cosa non è prevista per il delitto di rapina. Scrive ancora il Presidente: “Un trattamento differenziato tra i due reati non è ragionevole poiché – come indicato dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 125 del 2016 – ‘gli indici di pericolosità che possono ravvisarsi nel furto con strappo si rinvengono, incrementati, anche nella rapina’”.
La domanda, tuttavia, sorge spontanea: perché il Presidente non ha rinviato la legge alle Camere? L’art. 74 della Costituzione prevede, infatti, che il Capo dello Stato, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione e se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata.
Non è certo la prima volta che il Presidente promulga una legge con “motivazione contraria”, per usare un’efficace espressione impiegata in dottrina a proposito di tale prassi. Una prassi che solleva sempre gli stessi dubbi: perché non rinviare la legge alle Camere, chiedendo di riflettere sulle perplessità del Colle e solo in un secondo momento, qualora le Camere non recepissero le indicazioni e approvassero lo stesso identico testo, promulgare la legge con un eventuale messaggio critico? Una motivazione del Presidente (contraria o favorevole, come pure si è avuta in qualche caso precedente) non rischia di essere smentita da un successivo eventuale giudizio della Corte costituzionale, alla quale, qualora ritualmente chiamata in causa, spetta il sindacato di legittimità costituzionale delle leggi?
Peraltro, per completezza di analisi si deve tenere presente che, in dottrina, è stato anche sostenuto che, in casi straordinari, qualora la legge integrasse gli estremi dell’attentato alla Costituzione o dell’alto tradimento, il Presidente potrebbe rifiutarsi di promulgarla del tutto, se non altro per non incorrere nella responsabilità prevista dall’art. 90 Cost.
Perché, dunque, non esercitare il potere di rinvio pacificamente previsto dall’art. 74? Le ragioni possono essere diverse e attengono al contesto politico e istituzionale: la scelta è rimessa, in definitiva, al prudente apprezzamento del Presidente.
A prescindere dalle specifiche condizioni che possano averla determinata, quella di promulgare una legge con “motivazione contraria”, senza prima averla rinviata alle Camere, è una decisione che presuppone un atteggiamento di sfiducia e, nel contempo, di fiducia del Capo dello Stato. Sfiducia nei confronti del Parlamento, ritenuto incapace, per un motivo o per l’altro, di tornare sui propri passi, anche solo perché la legge in questione è ritenuta fondamentale per la maggioranza di governo. Fiducia nei confronti del sistema istituzionale nel suo complesso e, in particolare, per gli organi di garanzia (magistratura e Corte costituzionale).
La missiva del Presidente Mattarella, pertanto, è solo formalmente indirizzata ai Presidenti delle Camere e al Presidente del Consiglio. In realtà, essa parla soprattutto ai giudici e suggerisce loro, da un lato, di adottare un’interpretazione conforme a Costituzione che neutralizzi l’incostituzionalità più evidente della disciplina e, dall’altro, di sollevare questioni di legittimità costituzionale riguardo alle norme non suscettibili di essere lette in modo compatibile con i principi costituzionali. Insomma, sembra che, nella prospettiva del Presidente, ci sia davvero poco o nulla da salvare della legge (come, del resto, avevano già rilevato, durante l’iter di formazione dell’atto, l’ANM, le Camere penali e numerosi specialisti); e, tuttavia, rimane la convinzione che il sistema delle garanzie possieda ancora le risorse necessarie a rimediare ai danni della nuova disciplina. Inutile, dunque, più che inopportuno rimandare l’atto al Parlamento.
Se la sfiducia del Presidente sia fondata o se la sua fiducia sia ben riposta sono questioni meritevoli di una riflessione che non è qui possibile svolgere. Rimane solo un dubbio inquietante sulle sorti di un ordinamento nel quale la leale collaborazione tra gli organi politici e gli organi di garanzia cede sempre più spazio a un clima di reciproca sfiducia tra le istituzioni.
Trovo improprio che un presidente della Repubblica intervenga con “suggerimenti” ai giudici, anticipando soluzioni e strategie di giudizio. Accogliendo tale punto di vista si incorre in un’ingerenza nei poteri della Magistratura che non va assolutamente incoraggiata, e meno ancora applaudita. Il Capo dello Stato presiede invero il Consiglio superiore della magistratura, su cui è certo in grado di influire, ma non può intervenire nell’amministrazione della Giustizia se non a cose fatte per concedere eventualmente qualche grazia.
Mattarella fustiga la classe politica per spingerla a correggersi dalle derive reazionarie e rimettersi sui binari dello Stato di diritto.