Negli ultimi giorni sembra che l’esempio del comandante della Sea Watch possa essere seguito da altri capitani di navi noleggiate da altre ONG che intercettano in acque internazionali le piccole imbarcazioni sulle quali i migranti sono abbandonati dagli scafisti. Similmente al caso della Sea Watch, una volta caricati a bordo i naufraghi, i comandanti delle navi si dirigono verso il porto vicino più sicuro che, immancabilmente, è la costa italiana, in quanto né la Libia, né l’Algeria e nemmeno la Tunisia sono considerati porti sicuri. In questo contesto può essere interessante rilevare se, a fronte di nuovi divieti di approdo intimati dalle autorità italiane, una nuova, eventuale, forzatura, sulla falsariga della condotta tenuta dalla comandante della Sea Watch, possa avere un epilogo simile, ossia, arresto e sua mancata convalida da parte del Giudice delle indagini preliminari competente.
Nel complesso, a mio sommesso parere, il precedente giudiziario riguardante la comandante della Sea Watch, per come formulato, potrebbe, in situazioni simili, essere disatteso da un altro giudice. Il fulcro del ragionamento del GIP di Agrigento, come si evince dall’ordinanza n. 2592/19, si regge sull’applicazione dell’adempimento di un dovere che in base all’art. 51 del codice penale italiano esclude la punibilità. Alla base del ragionamento del giudice, il dovere di pronto soccorso ai natanti in difficoltà e di soccorso ai naufraghi è strettamente collegato alla situazione di pericolo in cui versano le persone soccorse ed alla disciplina del diritto internazionale. Le norme del diritto convenzionale richiamate nell’ordinanza di scarcerazione, ossia la Convenzione Montego Bay del 1982, la Convenzione Solas del 1974 e Sar del 1979 impongono infatti il soccorso dei naufraghi che, una volta presi a bordo, devono essere immediatamente condotti sulla terraferma, ossia, nel porto sicuro più vicino. In base all’art. 98 della Convenzione di Montego Bay, è “lo Stato di cui la nave batte bandiera ad esigere dal comandante della stessa di prestare soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo”.
Applicando alla lettera queste disposizioni, dunque, ogniqualvolta una nave raccoglie delle persone in pericolo tra l’Italia, la Tunisia (che non è considerato un porto sicuro, ma si veda quanto detto più avanti) e la Libia, le deve caricare a bordo e le deve condurre direttamente in Italia, a prescindere dalla circostanza che le persone caricate cessino di essere in pericolo e dalla loro condizione di salute. In questo senso, quindi, l’invocata scriminante dell’adempimento di un dovere viene a coprire l’intero operato del comandante di una nave, dal soccorso in mare sino all’approdo sulla terraferma.
Secondo una diversa visione, invece, l’applicazione della scriminante, invocando le norme di diritto convenzionale, dovrebbe operare in concreto, bilanciandosi i beni giuridici effettivamente in gioco. Le norme che contemplano le cause di giustificazione, infatti, si fondano sul presupposto che, perché una fattispecie costituente reato possa intendersi integrata da un elemento di fatto che la scrimina, occorre operare una disamina fondata sull’effettivo bilanciamento dei beni tutelati in relazione alla situazione reale e soprattutto attuale, anche putativa. Mai sarebbe ammissibile l’applicazione di una presunzione assoluta di pericolo. Riguardo all’adempimento di un dovere, parimenti, la valutazione del giudice deve essere fatta in concreto e deve riguardare la necessità e la proporzione della condotta. Ebbene, rileggendo l’ordinanza di scarcerazione, sembra che il GIP non si sia soffermata più di tanto sul punto, ravvisando necessità e proporzione quasi “in re ipsa“. In altri termini: ammesso che lo sbarco fosse un dovere imposto da norme giuridiche, le modalità dovevano essere necessariamente quelle? Sono state proporzionali rispetto al dovere da adempiere, considerate adeguatamente le condizioni di chi era sulla nave? Mancando questo tipo di valutazione in concreto, l’applicazione del diritto internazionale e convenzionale sembra contrastare non tanto con il cd. decreto sicurezza bis, quanto con le norme del codice penale. Il decreto sembra essere stato interpretato alla luce delle richiamate convenzioni e non disapplicato (questo sì che sarebbe stato un errore tecnico, in quanto si sarebbe dovuto sollevare la questione di illegittimità costituzionale per violazione della norma interposta di cui all’art. 10 Cost.); tuttavia, il problema maggiore ripone sulla compatibilità tra le argomentazioni dell’ordinanza e le regole sulle scriminanti. Altrimenti ragionando, ossia ritenendo la situazione di pericolo in senso astratto, si permetterebbe, di fatto, alle associazioni malavitose che organizzano le traversate in mare di abbandonare i migranti in natanti di fortuna nell’area territoriale suindicata, in attesa che le imbarcazioni di soccorso – che solitamente stazionano nella medesima area marittima – li prendano a bordo per condurli in Italia, dove le autorità italiane dovrebbero assicurare l’ingresso e l’approdo sulla terraferma a prescindere dal cessato pericolo per la vita e la salute dei migranti. Paradossalmente, una nave come quella del magnate Abramovic potrebbe raccogliere i profughi in tale area, assicurare loro ogni comfort e cure mediche e portarli in Italia senza opposizione alcuna. Quindi, in forza di questa interpretazione, sarebbe di per sé inutile assicurare, come ha fatto l’Italia nel caso di specie, un’assistenza e supporto costanti intervenendo a favore di chi è effettivamente bisognoso di assistenza sanitaria urgente, finanche prelevando le persone più in difficoltà, minori compresi, per trasferirle, come avvenuto, in presidi sanitari italiani (si legge a pp. 6 – 8 dell’ordinanza che le autorità nazionali italiane hanno trasbordate 10 persone: 8 ricoverate per cure mediche e 2 accompagnatori). In ossequio alle convenzioni internazionali richiamate ci si dovrebbe limitare a scortare le navi di soccorso all’interno dei porti italiani per garantire l’effettivo sbarco dei migranti.
L’aspetto che colpisce, riesaminando le citate convenzioni è che esse sono state emanate quando il fenomeno degli esodi di massa dei migranti economici e degli asilanti era esiguo, quasi pari a zero; tali convenzioni, invero, erano state pensate per soccorrere chi aveva incontrato delle difficoltà durante la navigazione, ma che, una volta approdato sulla terraferma, salvato dal naufragio, per così dire, non vedeva l’ora di tornare “a casa sua” felice dello scampato pericolo.
In considerazione di ciò si potrebbe ricorrere ad un’interpretazione adeguatrice/evolutiva di tali convenzioni finalizzata a bilanciare i diversi interessi in gioco applicando le regole seguite nell’applicazione delle scriminanti nel codice penale italiano, le quali sono fondate, come si diceva, su una valutazione in concreto di necessità e proporzionalità della condotta. In questa prospettiva, l’eventuale Paese il cui porto sia quello sicuro più vicino dovrebbe offrire un’assistenza costante attraverso un monitoraggio continuo per verificare chi, effettivamente, debba essere trasferito sulla terraferma, in attesa dell’individuazione di uno Stato disponibile all’accoglienza, in mancanza del quale, non potrà che essere quello di cui il natante batte bandiera.
Sulla base di queste precisazioni, l’autorità giurisdizionale che dovesse trovarsi a decidere un caso simile a quello della Sea Watch dovrebbe dare prova che, nonostante il Governo avesse prestato adeguata assistenza, permaneva comunque un pericolo grave ed incombente per la vita e la salute dei passeggeri, tale da giustificare l’applicazione della scriminante dell’adempimento di un dovere a favore del comandante della nave. In pratica, si dovrebbe dare prova, ad esempio, del fatto che, nonostante sia stato comunicato alle autorità che esistevano altre situazioni urgenti dal punto di vista sanitario, tali autorità si siano rifiutate di fornire assistenza. Di qui, correttamente, la necessità di “sfondare” ed attraccare, facendo prevalere il bene salute/vita delle persone a bordo sull’altro bene meritevole di tutela, ossia quello di cui è titolare chi adempie ad un dovere imposto da un ordine della autorità in applicazione di leggi dello stato.
Applicando questi principi all’ordinanza sulla Sea Watch emerge che quest’ultima appare lacunosa laddove sembra “prendere per buone” le affermazioni della indagata, secondo le quali la situazione stava degenerando per la prostrazione psicologica delle persone in considerazione del fatto che tutte le autorità interpellate si rifiutavano di far attraccare la nave. Tale considerazione sembra infatti molto opinabile e quindi diversamente valutabile da altro magistrato.
L’altra interessante questione da approfondire è collegata alla valutazione – sempre in concreto – dell’accezione “porto sicuro”. La Tunisia, in particolare, non è stato considerato dalla comandante della Sea Watch un porto sicuro, pur essendo al momento del trasbordo dei migranti il porto più vicino. Di qui la necessità di fare rotta verso l’Italia. Come si accennava, permanendo questa valutazione della Tunisia come Paese i cui porti sono “insicuri”, considerando l’area di mare in cui si verificano le traversate dei migranti, l’attracco nelle coste italiane diviene la regola, alla quale segue, occorre aggiungere, in applicazione del Trattato di Dublino, l’obbligo per l’Italia, in quanto primo Paese di approdo, di esaminare le richieste di protezione internazionale di tutti coloro che vengono soccorsi.
Anche la nozione di “porto sicuro” di cui alla Convenzione SAR (Annexe 34, par. 6 punto 12) è un concetto abbastanza opinabile. In base a tale Convenzione infatti, un porto sicuro è un “un luogo in cui la sicurezza per i sopravvissuti non è minacciata, in cui possono essere soddisfatti i loro bisogni umani primari cibo, riparo e cure mediche, in cui può organizzarsi il loro trasporto alla prossima destinazione”. Preme osservare che se i citati adempimenti non possono essere effettuati in un porto tunisino in quanto insicuro, si dovrebbe ragionevolmente presumere che a non essere sicuro sia anche il Paese nel quale questo porto è ubicato. Questa valutazione, però, collide col fatto che proprio l’Italia ha sottoscritto con lo Stato tunisino diversi accordi di riammissione ed ulteriori accordi sui visti assegnando quote di ingresso privilegiate ai cittadini tunisini; nello stesso tempo, in Europa, da diverso tempo non esistono rifugiati tunisini ed è in corso un negoziato tra la Commissione europea e la Tunisia per riconoscere a tale Paese l’attributo di Paese sicuro ai fini della gestione delle richieste di protezione internazionale in attuazione della citata Convenzione di Dublino. La Tunisia, infatti, ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra sul riconoscimento dello Stato di rifugiato, ha inserito la tutela degli asilanti in Costituzione (l’art. 26 prevede infatti che “Le droit d’asile politique est garanti conformément à ce qui est prévu par la loi; il est interdit d’extrader les personnes qui bénéficient de l’asile politique”) e, anche se non è stata ancora emanata la legge attuativa, gestisce le richieste di protezione internazionale attraverso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, in collaborazione con la Croix Rouge e la Croissant Rouge Tunisien (rispettivamente la Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa tunisina).
Da ciò discende che anche la valutazione sul “porto sicuro”, se effettuata in concreto, potrebbe essere diversa rispetto a quella adottata dal G.I.P. di Agrigento, nel senso che un altro giudice potrebbe valutare il concetto di porto sicuro in modo diverso, traendone diverse conseguenze giuridiche.
Infine, non dovrebbe essere sottaciuto che anche la ratio sulla quale si fonda la citata Convenzione non è già quella di soccorrere migranti in grandi numeri che hanno intrapreso la traversata dalla Libia all’Italia per chiedere protezione internazionale – pur essendo, in gran parte, migranti economici – bensì quella di assicurare il recupero, il riparo e le cure primarie a chi è naufragato in mare ed intende, presumibilmente, tornare nel proprio Paese. Nuovamente, preme osservare, che anche tale Convenzione è stata concepita immaginando di riferirsi a numeri minimi, decisamente minimi. Nel fenomeno sociale – migrazione dall’Africa – siamo invece al cospetto di una situazione epocale e, al momento, strutturale, quasi ineluttabile, che può generare situazioni peculiari per lo Stato italiano, il quale, per la sua conformazione geografica, è anche il Paese in cui, obbligatoriamente, si deve presentare la domanda di protezione internazionale in quanto Paese di primo ingresso.
Analogamente, non dovrebbe essere sottaciuto che le tali disposizioni della Convenzione di Dublino, oggi comunitarizzata (con il Regolamento UE n. 604/2013), sono risalenti al 1990 e sono in vigore dal 1997 e, dunque, parimenti, sono state elaborate in presenza di numeri di richiedenti asilo, nuovamente, bassi, se non bassissimi. La regola dell’obbligo di presentare domanda di protezione internazionale nel Paese di primo ingresso, peraltro, non sembra essere prossima ad una modifica stante il disaccordo tra gli Stati membri dell’Unione europea. Il Parlamento europeo, infatti, ha approvato circa 18 mesi fa una proposta sul ricollocamento dei richiedenti protezione internazionale (ossia sulla redistribuzione di essi tra i 28 Paesi membri) che ambisce a superare detta regola ma che non è stata ancora approvata dal Consiglio europeo in quanto è necessario un accordo unanime tra i Governi, che non si raggiunge per l’opposizione dei Paesi del Visegrad. La situazione sembra in perenne stallo anche perché le regole europee non contemplano mezzi di coercizione per acquisire il consenso dei Paesi recalcitranti dato che, se, per ipotesi, si minacciasse la sospensione dell’erogazione dei fondi europei a loro favore, anche tale atto, in base alle regole europee, dovrebbe essere approvato all’unanimità, ossia col loro consenso.
Scrive Cristianmil:
Buongiorno, io ho letto con vivace interesse l’articolo ” riflessioni sul caso Sea Watch: adempimento di un dovere e valutazioni opinabili del giudice”. Se non ricordo male, in diritto internazionale, l’art 10 cost non e’ una norma interposta ma viene definito “come un trasformatore permanente”. E’ l’ unica norma di adattamento di portata generale prevista nel nostro ordinamento, che consente un adattamento automatico alle norme internazionali. Grazie e cordiali saluti.
E’ vero che l’art. 10.1 è un “trasformatore permanente”, ma trasforma solo le norme internazionali generalmente riconosciute, cioè di fonte consuetudinaria, non anche i Trattati, che hanno bisogno di un apposito atto (legge, di solito) di recepimento. RB