Il diritto costituzionale “durante” la catastrofe climatica

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di Michele Carducci

Sorprende il silenzio dei costituzionalisti di fronte all’ “emergenza climatica”. Un’intera generazione mondiale di ragazzi, all’interno di 157 Stati, si mobilita con gli scioperi climatici, riconoscendosi in un documento, la “Dichiarazione di Losanna“, che racchiude non tanto un grido di allarme quanto una inedita chiamata di responsabilità epistemica per un cambiamento radicale di politiche pubbliche e di metodi di produzione dell’energia necessaria alla convivenza pacifica tra esseri umani. Incombono, semi-praticati e semi-sconosciuti, i 17 SDGs dell’ONU per il 2030, ultima scommessa per sperare in un mondo di condivisione dignitosa e in pace. Numerosi Capi di Stato, compreso il Presidente della Repubblica italiana, sottoscrivono insoliti appelli, dai contenuti ben poco generici (si v., da ultimo, la “Iniziativa per una maggiore ambizione climatica“). Stati, regioni, città, scuole dichiarano lo stato di “emergenza climatica“. Cinque organismi delle Nazioni Unite per la tutela dei diritti umani hanno invitato gli Stati ad agire nella “massima ambizione possibile”, al fine di garantire nel tempo la effettività dei diritti umani. Addirittura la scienza si interroga sulla “disobbedienza civile” di fronte all’inerzia delle istituzioni politiche. In alcuni Stati, come in Germania, si inizia a discutere del “difesa del clima” (Klimaschutz) in termini di ineluttabile e prioritario mandato costituzionale di ottimizzazione. Ma i costituzionalisti tacciono.

Eppure l'”emergenza climatica” è una vera e propria emergenza “costituzionale”, non una ennesima emergenza “ambientale”. Siamo di fronte a una emersione espressiva di un sistema complesso di interazioni caotiche, catene causali, responsabilità diffuse, specifiche e plurime, su cui il diritto si dovrebbe interrogare con forza; e lo dovrebbe fare soprattutto il diritto costituzionale, evolutosi nella moltiplicazione di bisogni materiali attraverso regole di manipolazione dei cicli energetici della natura (nell’epoca contemporanea dei due ultimi secoli e mezzo dell’energia fossile) L’estrazione umana della natura fossile, infatti, ha segnato il primo atto “innaturale” dell’umanità nella produzione di energia, coniugato su regole costituzionali di convivenza nella indifferenza del rapporto tra vita umana e clima. Lo aveva fatto presente nel 1900 N. Tesla, un genio ignorato da politici e giuristi, il quale collegava il funzionamento delle regole giuridiche a quello dell’energia della terra, criticando la fiducia per il fossile come fonte di benessere e tutela dei diritti.

Dunque, l’ “emergenza climatica” ci colloca dentro una inedita “situazione tragica” che non è morale né il riflesso di un “dissenso interpretativo profondo” su un caso: è un punto di svolta per uscire dal circolo vizioso della convivenza fondata sul crescente caos climatico, non ostacolato dalle pratiche costituzionali. Lo hanno dimostrato imprescindibili ricerche, come quelle di N. Georgescu-Roegen, sulla incompatibilità tra “seconda legge della termodinamica” ed economia politica delle Costituzioni, e di J. Herrera Flores, sulla c.d. “seconda legge della termodinamica culturale” (libertà costituzionali per tutti e per tutto, in nome del “benessere”) quale negazione della “seconda legge della termodinamica” della natura (l’aumento illimitato di possibilità – quindi di libertà – è illusorio, perché causa entropia ossia confusione e collasso).

Del resto, tutti noi sappiamo di produrre “impronte” negative sulla natura, a causa dei nostri liberi “stili di vita” energetici, costituzionalmente legittimi: dall’impronta ecologica a quella di carbonio, a quella di kW, a quella di plastica. Tutti noi sappiamo di contribuire, con i nostri liberi “stili di vita” energetici, alle ingiustizie sociali e liberticide che il sistema energetico fossile alimenta (dalla carenza di democrazia negli Stati ricchi di fossile al lavoro schiavo e minorile connesso alla sua estrazione o alla sua trasformazione per il consumo), dilatando lo “scambio ecologico diseguale” tra Nord e Sud del mondo, ereditato dal primo estrattivismo. Eppure non rinunciamo radicalmente a questi “stili” di libertà. Molte volte ignoriamo persino di essere comunque parte attiva dell’ “emergenza climatica“. Un simile paradosso delinea una vera e propria “cecità sistemica” (A. Ghosh), conseguente alla contraddizione fossile in cui vivono le nostre libertà costituzionali: noi esercitiamo innumerevoli libertà materiali, ben oltre il mero bisogno di sopravvivenza (come ricorda la riflessione di A. Heller sui bisogni quale specchio della produzione di consumo), eppure non vediamoqueste libertà come parte del problema climatico. Addirittura accettiamo il problema (nella logica da G. Calabresi stigmatizzata nel “dono dello spirito maligno“: una libertà materiale, anche se dannosa alla vita, è pur sempre un vantaggio da cogliere).

Che fare? Il materiale di riflessione teorica e di acquisizione delle conoscenze è abbondantissimo.
Certamente, sul piano della teoria costituzionale, l’insorgenza della “emergenza climatica” ci pone di fronte a una sfida inedita che si potrebbe tematizzare, collegandola a linee di teoria e analisi già affrontate. Lo si potrebbe riassumere con questi sei libri, distanti nel tempo e differenti nei campi di osservazione, ma contigui nei contenuti:

– quello di Mark Fischer, Realismo capitalista (trad. it., Roma, 2018);

– quello di Giuseppe Capograssi Il diritto dopo la catastrofe (in Opere vol. V, Milano, 1959);

– quello di Salvatore Natoli Il fine della politica. Dalla teologia del Regno al governo della contingenza” (Torino, 2019);

– quello di Ernst-Wolfgang Böckenförde Cristianesimo, libertà, democrazia (trad. it., Brescia, 2007);

– quello di Giuseppe Limone La catastrofe come orizzonte del valore (Modena, 2014);

– infine quello di Walter Benjamin Mickey Mouse (trad. it., Genova, 2014).

Vediamo perché.

Siamo all’evento più problematico per la sopravvivenza umana dopo la seconda Guerra mondiale, con buona pace dei “negazionisti climatici”, che invero negano le responsabilità umane sul fenomeno, piuttosto che confutarne l’esistenza con i suoi effetti. E gli effetti negativi dei cambiamenti climatici, a partire dal riscaldamento climatico, sono definiti catastrofici e incalcolabili da tutte le agenzie scientifiche e istituzionali del mondo.

Davanti alle catastrofi sarebbe doveroso il coraggio politico della verità, ma per la fabula della “post-verità” questo coraggio non appare più costitutivo delle virtù repubblicane della convivenza civile.

Catturati e obnubilati dal “Kosmos” del mercato (il “Kosmos“, che proprio uno dei suoi più celebri cantori, F.A. von Hayek, riconosceva “artificiale”), abbiamo dimenticato che esiste – prima di tutto e soprattutto prima dei nostri “artifici” – un “Kosmos” “naturale”. Se ne era accorto lo scopritore dei “costi sociali” come costi “ecosistemici”, K.W. Kapp, ma rimase inascoltato, perché not maistream.

Persuasi che l’ambiente sia anch’esso un “sistema sociale” (con tanto di avallo esplicativo di N. Luhmann e di gran parte del marxismo), non riusciamo a vedere il “sistema naturale” che governa il clima e continuiamo a confondere clima con ambiente.

Restiamo ciechi e ignoranti, nella desolante consolazione di aver contribuito tutti, con quote differenti ma esistenti di co-responsabilità, a questo esito.

Come è possibile?

Il libro di Mark Fischer è uno dei pochi a tematizzare questa “contraddizione” che attanaglia il nostro sistema di convivenza, costituzionalizzato nelle libertà individuali de-responsabilizzanti. La sua diagnosi si può sintetizzare nel seguente passaggio: «Anziché affermare che ognuno – vale a dire ogni uno – di noi è responsabile per i cambiamenti climatici e che tutti dobbiamo fare la nostra parte, sarebbe più appropriato dire che nessuno lo è, e questo è il problema. La causa della catastrofe è una struttura impersonale che, nonostante sia capace di produrre effetti di tutti i tipi, non è un soggetto capace di esercitare responsabilità. Il soggetto che servirebbe – un soggetto collettivo – non esiste».

Del resto, il Global Constitutionalism si alimenta di chiamate di responsabilità atomizzate davanti ai giudici, compresa, quasi paradossalmente, la c.d. “Climate Change Litigation Strategy“, avallata dall’ONU.

Eppure gli “effetti di tutti i tipi” sono pesantissimi, come ha mostrato la c.d. “equazione dell’Antropocene” di W. Steffen. Il sistema Terra, coincidente con la biosfera e le interazioni al suo interno tra atmosfera, idrosfera, criosfera e litosfera (ossia aria, acqua, ghiacci e strati superficiali della crosta terrestre), è stato dominato, negli ultimi 4 miliardi e mezzo di anni, prevalentemente da fattori astronomici e geofisici. Ma solo negli ultimi cinquant’anni, le attività dell’uomo hanno portato a ritmi eccezionalmente rapidi di trasformazione di questa interazione, accelerando il cambiamento climatico di ben 170 volte. Inoltre, se a questa equazione si aggiunge quella di “Lotka-Volterra” sul superamento della “capacità portante” della predazione umana su beni, servizi e risorse ecosistemiche (a base dello studio del “deficit ecologico” del Pianeta e della “impronta ecologica” dell’individuo umano) e si tiene conto altresì delle prime due leggi della termodinamica e della c.d.”entropia” del sistema, si intuisce perché l’impersonalità dell’individualismo metodologico, che dirige il diritto costituzionale e l’azione umana, possa produrre simili effetti moltiplicativi.

Che può fare il diritto costituzionale?

Giuseppe Capograssi scrisse “il diritto dopo la catastrofe“, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Aveva visto giusto, nella sua profetica genialità cristiana: il diritto – come dimensione di verità naturale e umana dell’essere insieme nel mondo – interviene sempre “dopo” la catastrofe prodotta dall’uomo nel mondo.

E questo per quattro ragioni:

1. perché il diritto occidentale è divenuto definitivamente “contingente” ossia privo di una propria “missione” e operante solo come “regolazione” (ecco perché la lettura del libro di S. Natoli è interessante);
2. la rinuncia alla “missione” ha determinato la rinuncia al giudizio universale sull’intera umanità nel tempo e nello spazio (come invece richiede qualsiasi tradizione giuridica di matrice religiosa – si pensi al diritto islamico – e come richiedeva ancora il diritto della “Res Publica Christiana“), con l’effetto di lasciare il posto al giudizio solo su singoli individui e su singoli eventi di un determinato tempo e determinato spazio;

3. pertanto, solo “dopo” eventi mondiali (ossia compresenti ovunque come tempo e spazio), l’umanità può tornare ad essere “giudicata” dal diritto in modo “universale”;

4. ma il diritto “dopo” la catastrofe delle Guerre mondiali ha svelato l’esigenza – anch’essa contingente – di dividere l’umanità tra “vincitori” e “vinti”, “buoni” e “cattivi”, non a caso con tribunali internazionali nati sempre “dopo” la catastrofe, mai “durante” la stessa (dal primo – la Corte di Cartago del 1919 – al più noto Tribunale di Norimberga);

Questa natura “contingente” del diritto occidentale ha alimentato una concezione della universalità delle regole di convivenza molto particolare (unica rispetto a tutte le altre tradizioni giuridiche esistenti al mondo), intrisa di contraddizioni:

– non occupandosi più dell’umanità come “specie”, quindi come “universalità” di individui nel destino del mondo, il diritto “contingente” promette di occuparsi dei destini “universali” di ciascun individuo della specie, alimentando così una finzione giuridica (quella secondo cui tutti nasciamo e viviamo nella realtà con gli stessi diritti “universali”: è il famoso c.d. “paradosso di Böckenförde”);

– ma questa finzione induce a guardare all’essere umano in una condizione di a-temporalità e a-spazialità (nella immagine del “Mickey Mouse” di Benjamin), come se l’umanità non esistesse come specie con una sua storia (dunque un suo inizio e una sua possibile fine) nel pianeta Terra.

In definitiva, il diritto “contingente” assolve l’umanità dalle sue responsabilità di specie, per dirottare l’attenzione della sua regolazione sull’eterno presente delle relazioni tra individui (nella illusoria promessa dei diritti “universali”/”individuali”).

I cambiamenti climatici antropogenici svelano che questo diritto è ormai nudo, sia perché non registrano una “contingenza” sia perché non delineano un “determinato spazio”, bensì un confine già violato, come attesta l’osservazione dei Planetary Boundaries (J. Rockström): non sono – purtroppo per noi –  una catastrofe umana con un “dopo”; sono un “durante”.

Gli interrogativi che insorgono imprimono dunque una linea, teorica e pratica, non sottovalutabile. Basti pensare alle innumerevoli declinazioni della “giustizia climatica”: dal tema dei migranti all’ ipotesi di democrazia ecologica; dalla insufficienza delle tecniche di bilanciamento alla prevalenza del principio “in dubio pro natura” su quello di precauzione; dalla questione dei c.c. “NDCs” (Nationally  Determinade Contributions) nel riparto di competenze dentro gli Stati ai nessi tra “apartheid climatico” e regionalismo differenziato; dallo Stato “integrato” allo Stato “energeticamente autarchico”; dalla rinvigorita attualità di antichi istituti di responsabilità civile (per es. artt. 844 e 2050 cod. civ.) alla rilevanza dell’inerzia climatica come autonomo illecito costituzionale ecc…

Come facciamo a gestire il diritto, soprattutto costituzionale, “durante” la catastrofe? Come facciamo a segnare la distinzione dell’umanità tra “vincitori” e “vinti”, “buoni” e “cattivi” di fronte a una catastrofe “in atto” che sta “vincendo” sull’intera umanità e non solo sui singoli individui? Quale “dopo” dobbiamo aspettare, per continuare ad assolverci dalla nostra storia di specie? Come possiamo continuare a predicare diritti “universali”/”individuali” “durante” una catastrofe che riguarda il nostro ruolo di specie sulla Terra? Può un diritto piegato all’ “artificio” del mercato (il “Dio laico” del mondo contingente dello scambio) intervenire “durante” la catastrofe? Può esso trasformare la “contingenza” in “missione”? Questo non significherebbe costruire una nuova “teologia del Regno”, ossia rinunciare alla “contingenza” (come vorrebbero il rinascente “eco-socialismo”e un certo “sovranismo”)?

La catastrofe che stiamo vivendo è stata provocata dal cumulo delle nostre azioni “contingenti”, alimentando però un “sistema naturale” che sta sopravanzando e si sta strutturalmente imponendo sui nostri “sistemi sociali” e sulle nostre finzioni di a-temporalità e a-spazialità (con buona pace della visione di Luhmann e del produttivismo marxista).

Dobbiamo allora decidere. E decidere, nella “situazione tragica” dei cambiamenti climatici, non significa più “quadrare il cerchio” (R. Dahrendorf), bensì “chiudere il cerchio” (B. Commoner), accettando il primato della natura per la salvezza di tutti.

Attualmente, le prospettiva che si presentano sembrano due.

1. La prima è quella di illudersi che la nostra società “contingente” possa sopravvivere a “struttura naturale” ormai definitivamente cambiata. Questa opzione accomuna i “negazionisti climatici” con gli ignoranti della storia (che – nell’era della contingenza a-temporale e a-spaziale – hanno facile gioco a essere presi sul serio da chi non vuole né studiare né conoscere e comprendere). La società “contingente” non è una vittima della nuova “struttura naturale”, verso la quale difendersi: ne è la causa. Pertanto, la società “contingente” è costretta a discutere di sé (e del suo diritto), se vuole sopravvivere nella nuova “struttura naturale”. Diventa allora evidente che i “negazionisti climatici” e gli ignoranti della storia dell’umanità (al pari dei “negazionisti” e ignoranti di qualsiasi altra catastrofe prodotta dalla specie umana) hanno fondamentalmente paura della messa in discussione della società in cui vivono; hanno paura di perdere, in nome della lotta ai cambiamenti climatici, i vantaggi e privilegi che la “contingenza” consente e garantisce a tutti, ma soprattutto a loro. “Negazionisti climatici” e ignoranti della storia dell’umanità sono innanzitutto dei codardi.

2. La seconda prospettiva, invece, trova riscontro nel nuovo lessico giuridico prodotto dal diritto climatico internazionale inaugurato nel 2015 (con l’Accordo di Parigi e i 17 SDGs). Il nuovo vocabolario giuridico dell’umanità, prima ancora che sui diritti, si declina sulla “preoccupazione comune” dell’umanità di fronte ai cambiamenti climatici “in atto”, nella consapevolezza dell’assunzione dei doveri (di mitigazione, adattamento, resilienza, non regressione) verso il sistema terra, prima ancora che verso i diritti “universali”/”individuali”.

Non è un caso: senso di “preoccupazione” e consapevolezza di una sorte “comune” sono sempre sintomi di una “interruzione della qualità della vita”; sono sempre una espressione “valoriale” della presa d’atto di una catastrofe, come scrive appunto Giuseppe Limone.

E se la prima “interruzione della qualità della vita” dell’intero sistema Terra è avvenuta con la “Conquista” dell’ “America”, inaugurando il diritto costituzionale occidentale come dispositivo contingente di legittimazione del debito ecologico globale del pianeta e della perdita di biodiversità per estrazione di valore di produzione e scambio dalla natura, l’ultima “interruzione della qualità della vita” è quella presente, in cui – per la prima volta – è il sistema Terra a fissare lo spazio e il tempo oltre la “contingenza” del diritto, a scandire un “durante” per il quale o diventiamo tutti noi “preoccupati” quotidianamente (non invece “contingentemente”) oppure sottoscriviamo la fine nostra non della “interruzione”.

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