Populismo e riforme costituzionali: sulla riduzione del numero dei parlamentari

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di Riccardo Cabazzi

Come afferma Roberto Bin nel suo scritto “Cos’è la Costituzione?” (Quad. cost. 1/2007), «non si tratta di negare l’opportunità o l’utilità di qualche intervento sul testo della costituzione; ciò che lascia invece perplessi è l’idea che attraverso riforme, anche vaste, della costituzione si possano costruire le basi giuridiche per migliorare il funzionamento del sistema politico». Come si possono interpretare e che significato assumono queste parole alla luce della recente riforma costituzionale sul taglio del numero dei parlamentari? Appare anzitutto decisivo comprendere qual è il clima culturale e politico entro cui tale riforma si è posta e, più in generale, quali siano le finalità che il legislatore vuole raggiungere. Ebbene: la riduzione di deputati e senatori non è che una battaglia politica “anticasta” del Movimento 5 Stelle, il quale punta a far approvare una novella costituzionale marcatamente simbolica, supportata dalla convinzione che questa determini una riduzione dei costi del Parlamento. Tuttavia, basta osservare con attenzione l’iter della riforma per comprendere appieno come la vera volontà che si cela dietro alla proposta pentastellata non è tanto quella di contenere i cosiddetti costi della politica, quanto più quella di cavalcare “l’onda populista” su cui il Movimento ha costruito i suoi passati successi elettorali.

Una parte dell’elettorato, infatti, ripone profonda sfiducia nel Parlamento, tanto da sminuirne la “valenza” costituzionale di istituzione ove ha luogo il dibattito politico-democratico. Ne discende, conseguentemente, lo svilimento dello stesso ruolo rappresentativo che ogni singolo parlamentare riveste, alla luce del suo mandato. Parimenti, quindi, chi ha proposto la recente riforma non sembra riconoscere alla democrazia rappresentativa, su cui si fonda il nostro Stato costituzionale, la centralità che la Carta le riserva. In altri termini, questo referendum costituzionale rende manifesto l’arretramento del meccanismo della rappresentanza; arretramento che potrebbe comportare la difficoltà del Parlamento nel mantenersi come il naturale centro di mediazione tra i soggetti sociali. Il vento dell’antipolitica, spesso cavalcato a fini elettorali, tende invero a promuovere imponenti spinte di delegittimazione non solo della classe politica, bensì delle stesse istituzioni parlamentari, con una sorta di “ripudio” delle prerogative degli eletti.

Ciò appare particolarmente evidente proprio alla luce delle finalità perseguite tramite la recente riforma costituzionale: tra queste non figura infatti, in alcun modo, la maggiore efficienza della Camera e del Senato, nemmeno adombrata dai promotori. Invece, tutto è ridotto in termini di costi, a dimostrazione che la rappresentatività del Parlamento è sacrificabile, secondo la preminente volontà dell’elettorato, sull’altare dell’imperativo di un pur esiguo risparmio economico. Il numero dei parlamentari non è infatti più avvertito quale garanzia del rapporto tra eletti ed elettori e degli spazi di rappresentanza dei partiti minori; viceversa diviene semplicemente un costo da abbattere, proprio perché ne appare smarrito il senso e l’utilità.

Tuttavia, a mio avviso, ciò che appare maggiormente criticabile è il metodo con cui si intende apportare una modifica alla nostra Carta costituzionale. Questa, come sottolineato anche dal Prof. Augusto Barbera, si caratterizza per l’incorporazione di taluni assunti etici socialmente condivisi come basilari e irrinunciabili. Ne deriva quindi, quale corollario, che una modifica del dettato costituzionale dovrebbe discendere necessariamente da un ampio dibattito politico, a cui dovrebbe altresì seguire una profonda convergenza assiologica da parte della larga maggioranza delle forze rappresentative.

Con riferimento alla riduzione del numero dei parlamentari mi pare invece che tutti i partiti che hanno espresso voto favorevole alla riforma lo abbiano fatto alla luce della preoccupazione per la perdita di consenso tra i propri elettori, senza valutarne tuttavia il contenuto ed il merito. Paradigmatica, in tal senso, la posizione del Partito Democratico che, pur mostrando uno scetticismo verso la proposta avanzata dal Movimento 5 Stelle non ha potuto sottrarsi alla “attrattività” di questa, pena due rilevanti conseguenze: in primis, la rottura dell’alleanza con l’attuale principiale alleato di governo; in secundis, una probabile emorragia di voti da parte di un corpo elettorale che sembra sempre più favorevole a gesti simbolici di riduzione dei costi della politica. Non a caso, infatti, l’attuale riforma costituzionale è stata pensata e formulata dal precedente governo giallo – verde, definito emblematicamente da parte della dottrina come l’esecutivo bi-populista perfetto.

Nondimeno non appare rinunciabile, in questa sede, ribadire quella che dovrebbe essere la differenza tra un politico ed uno statista. In particolare, riportando il pensiero dell’On. Alcide De Gasperi, mentre il primo guarda alla prossime elezioni, il secondo ha attenzione e cura per le prossime generazioni. Declinando quindi questo aforisma nel contesto delle riforme costituzionali: apportare delle modifiche alla Carta richiederebbe una progettualità tale da superare la logica del contingente, al fine di fornire alle forze politiche e ai cittadini uno “schacchiere” di valori condivisi su cui edificare il futuro sociale. A tal riguardo appaiono efficaci le parole di uno dei più celebri padri costituenti, Piero Calamandrei, secondo cui: «la Costituzione è presbite, perché guarda avanti e vede meglio in lontananza [..] Il nostro compito di eredi di questo grande patrimonio è di salvaguardarlo dai miopi». Tuttavia, tornando all’attuale referendum costituzionale, mi sembra che le forze politiche che hanno votato a favore di questa riforma abbiano rinunciato alla suddetta visione della Costituzione per fini meramente elettorali, in un quantomeno maldestro e simbolico tentativo di recuperare quel consenso che la politica ha perso in questi ultimi anni, in seguito all’ascesa del forte “vento” dell’antipolitica. Ciò appare evidente proprio da una più attenta analisi delle possibili conseguenze che deriverebbero dalla riforma, ove approvata per via referendaria. In particolare, la drastica riduzione del numero dei parlamentari appare idonea (i) a vulnerare i requisiti di rappresentatività delle Assemblee parlamentari, (ii) ad introdurre non lievi elementi di criticità nei lavori delle commissioni permanenti, (iii) ad indebolire il rapporto tra eletti ed elettori ed, infine, (iv) a comprimere gli spazi di rappresentanza dei partiti minori. Tutti elementi su cui, ad mio avviso, occorrerebbe porre maggiore attenzione.

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