Sul quorum nei referendum per le variazioni territoriali dei comuni. Il caso veneziano non è affatto banale

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di Giacomo Menegus Roberto Bin

Nella giornata del 7 ottobre scorso si è tenuta, dinanzi al Tar Veneto, la discussione del ricorso proposto da uno dei promotori della separazione tra Mestre e Venezia, fallita il 1° dicembre 2019 a causa del mancato raggiungimento del quorum al referendum. Gli aventi diritto recatisi alle urne sono stati solo il 21,73%, con i Sì che hanno (inutilmente) prevalso sui No, attestandosi al 66,11%. Il ricorrente sostiene che la previsione di un quorum di validità (art. 20, c. 4, l.r. n. 1/1973, cui rinvia l’art. 6, c. 5, l.r. n. 25/1992) sia in contrasto con la natura consultiva dei referendum per le variazioni territoriali dei Comuni ex art. 133, c. 2, Cost. e ha chiesto di annullare l’esito del voto e la delibera del Consiglio regionale che aveva deciso «il non passaggio agli articoli della proposta di legge».

Il tema dei quorum (costitutivi e/o deliberativi) nei referendum regionali cd. territoriali non ha ricevuto particolare attenzione in dottrina; merita tuttavia di essere esaminato non solo per il rilievo del caso di specie, ma anche perché sono diverse le leggi regionali che li prevedono. Oltre al Veneto, tra le Regioni a statuto ordinario sono Umbria (art. 48, c. 1, l.r. n. 14/2010), Basilicata (artt. 6 e 9 l.r. n. 42/1993) e Molise (art. 14 l.r. n. 35/1975) a richiedere sia la partecipazione della maggioranza assoluta degli aventi diritto sia la maggioranza dei voti validi favorevoli, mentre il Piemonte (art. 36, c. 3-bis, l.r. n. 4/1973) le esige solo nel caso in cui la popolazione interessata non coincida con l’intera popolazione comunale (prevedendo poi il solo quorum deliberativo negli altri casi). La Liguria fissa invece la partecipazione necessaria al 30% degli aventi diritto (art. 52 l.r. n. 12/2020) e l’Emilia-Romagna prescrive la necessaria partecipazione della maggioranza degli aventi diritto esclusivamente nei casi di «istituzione di nuovo comune mediante scorporo di una porzione di territorio o distacco di frazione» (art. 12, 9-bis, l.r. 24/1996), come pure il Lazio (art. 7, l.r. n. 19/1980, che però richiede sempre la maggioranza dei voti favorevoli). Calabria (art. 44, c. 2, l.r. n. 13/1983), Lombardia (art. 9-ter, c. 6, l.r. n. 29/2006), Abruzzo (art. 30 l.r. n. 44/2007) prevedono infine il solo quorum deliberativo.

Vi sono molteplici ragioni per dubitare della legittimità costituzionale di tali previsioni e per ritenere fondato il ricorso sul referendum veneziano, almeno quanto a questo profilo.

Va premesso che non c’è dubbio alcuno che il referendum per le variazioni delle circoscrizioni comunali abbia natura meramente consultiva e pertanto non vincoli la Regione a conformarsi agli esiti della consultazione. Sul punto è chiarissima la giurisprudenza costituzionale (sent. nn. 453/1989, 2/2018 e 214/2019) e concorde la dottrina (per tutti cfr. M. Pedrazza Gorlero, Incertezze costruttive nel procedimento di variazione territoriale dei Comuni (A proposito del giudizio di meritevolezza previsto dall’art. 25, I comma, L. R. Veneto 12 gennaio 1973 n. 1), ora in Id., Congetture costituzionali, ESI, Napoli 2015, 665 ss.). L’art. 133, c. 2, Cost. si limita ad imporre al legislatore regionale, competente in materia, di sentire le popolazioni interessate alla variazione circoscrizionale: una consultazione che – come ha chiarito dalla Corte costituzionale – deve svolgersi necessariamente attraverso referendum e che costituisce un aggravamento dell’iter legis regionale. Il referendum è però, come si dice nella sent. n. 2/2018, non «oggetto e contenuto della legge di variazione», ma suo mero «presupposto procedimentale», benché indefettibile. La Regione insomma non è costituzionalmente tenuta, anche a forte di un esito eventualmente favorevole, ad adottare la legge di variazione territoriale, potendo derivare dall’esito del voto tutt’al più un forte condizionamento politico.

Merita ricordare che la ratio dell’art. 133, c. 2, Cost. va rintracciata, da un lato, nella garanzia «del principio di partecipazione delle comunità locali a talune fondamentali decisioni che le riguardano» (Corte cost. n. 453/1989), espressione del più generale principio autonomistico di cui all’art. 5 Cost.; dall’altro lato, nell’esigenza di non consegnare esclusivamente alla volontà delle popolazioni interessate la decisione sulle modifiche territoriali, dovendosi tener conto anche di altri elementi, non ultime ragioni di efficienza e funzionalità dell’amministrazione comunale (il tema emerge peraltro anche dai lavori dell’Assemblea costituente). L’obiettivo è assicurare la partecipazione delle popolazioni, segnando così uno scarto notevole rispetto all’esperienza del regime fascista, durante la quale si provvedeva d’imperio con regio decreto (come nel caso della formazione dello stesso Comune di Venezia); ma al contempo si è inteso lasciare alla Regione l’ultima parola sull’opportunità della modifica.

Già queste brevi considerazioni revocano in dubbio la legittimità di quorum costitutivi e deliberativi per i referendum in questione: la Regione che li prevede si vincola infatti a non prendere in esame gli esiti della consultazione che non raggiunga il quorum ovvero a dare seguito alla variazione territoriale nel caso in cui il quorum sia raggiunto e i Sì superino i No. In entrambi i casi il legislatore regionale, che la Carta vorrebbe giuridicamente libero di decidere sulla modificazione proposta, si auto-vincola agli esiti del referendum. Ma in tal modo contraddice la ratio della norma e finisce per trasferire in capo alle popolazioni interessate il potere decisionale in materia.

La Regione Veneto sostiene che la previsione del quorum risponda a logiche di buon senso – «non si possono mutare i confini di un Comune senza che la maggioranza dei cittadini sia d’accordo» (Corriere del Veneto, 8 ottobre 2020) – e di razionalizzazione del procedimento, perché così facendo il legislatore regionale avrebbe deciso di autolimitarsi preventivamente per i casi in cui ritiene comunque inopportuno dar seguito alle modifiche proposte.

Questa tesi si scontra tuttavia con un duplice ordine di argomenti: un primo letterale e sistematico; un secondo teleologico.

Quanto al primo, va osservato che, laddove la Costituzione ha inteso introdurre quorum ai fini di modifiche territoriali, lo ha fatto espressamente: la disposizione appena precedente a quella in esame, l’art. 132 Cost., prevede che l’istituzione di nuove Regioni ovvero il trasferimento di una Provincia o un Comune da una Regione ad un’altra sia approvata «dalla maggioranza delle popolazioni» «con referendum» (art. 132, commi 1 e 2; quest’ultimo comma nella versione frutto della riforma del 2001); l’art. 133 Cost. dice invece semplicemente «sentite le popolazioni interessate». Si potrebbe obiettare che tale argomento prova troppo, non escludendosi la possibilità di introdurre per via legislativa soluzioni analoghe a quelle dell’art. 132 Cost. Soccorre tuttavia in proposito la discussione svoltasi in seno alla seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione (e più in generale nei lavori preparatori): v’era già allora la consapevolezza del problema (si vedano in particolare gli interventi di Terracini, Perassi e Mortati) e, benché non fossero mancate proposte nel senso dell’introduzione nel testo del riferimento alla maggioranza dei voti o delle popolazioni, si è deciso per la formulazione odierna, che non fa menzione di quorum alcuno. Vale pertanto il noto brocardo: Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit.

D’altra parte, la previsione del quorum – e veniamo così al secondo argomento – va a frustrare, come si accennava, la ratio complessiva dell’art. 133, c. 2, Cost.

Laddove affida alla legge (e non ad atto amministrativo) della Regione il compito di modificare le circoscrizioni comunali, la norma costituzionale chiede al legislatore regionale di esprimere una valutazione politico-amministrativa di opportunità della specifica variazione proposta. Valutazione che non può essere effettuata nei casi in cui non si raggiunga il quorum, giacché in tal caso la Regione automaticamente non dà seguito alla proposta; e neppure nei casi in cui il quorum si raggiunga e i Sì prevalgano sui No, perché la Regione sembrerebbe costretta in tale ipotesi a dar seguito alla variazione.

In tal modo la Regione si preclude la possibilità di ponderare elementi ulteriori rispetto alla partecipazione delle popolazioni. Ad esempio, nel caso di raggiungimento del quorum (e vittoria del Sì), il legislatore regionale non potrà valutare l’eventuale ricaduta negativa in termini economici e di funzionalità dell’ente (si pensi alla frammentazione in Comuni di dimensioni ridotte) che potrebbe suggerire di non dar corso alla modifica. All’opposto, in caso di mancato raggiungimento del quorum, non potrà considerare – specie quando vi fosse comunque la prevalenza dei Sì – se la modifica territoriale non conduca a una razionalizzazione della geografia amministrativa e ad un efficientamento amministrativo. Ma, soprattutto, – in casi come quello veneziano, dove si assiste ad una suddivisione di un grande Comune in altri più piccoli – la Regione si troverebbe vincolata dal comportamento della popolazione residente nella parte più popolosa che, astenendosi dal voto referendario, potrebbe sistematicamente bloccare la richiesta di autonomia di quella meno popolosa, ma proprio perciò più interessata a far valere le ragioni del proprio distacco. I più, semplicemente astenendosi dal voto, bloccherebbero la volontà dei meno di sottrarsi al sopruso della maggioranza: il che è palesemente in contrasto con lo spirito dell’art. 133, c. 2, Cost.

È infine giusto il caso di rilevare che la tesi della Regione Veneto soffre pure di una certa incoerenza, se solo si considera che la stessa normativa veneta prevede quorum più favorevoli nel caso di fusioni di Comuni (art. 6, c. 5-bis, l.r. n. 25/1992).

Venendo più specificamente al ricorso pendente dinanzi al Tar Veneto, è bene sottolineare che gli esiti del referendum parrebbero comunque invalidi anche nella ipotesi (a dire il vero remota, vista la chiarezza del dato legislativo) in cui la Regione sostenesse, nonostante la previsione del quorum, di aver conservato in realtà un margine di valutazione discrezionale nel merito della variazione territoriale e di aver quindi deciso in autonomia di non dar seguito alla proposta separazione di Venezia e Mestre (prescindendo insomma dal dettato della stessa legge regionale!).

In questo caso, non si avrebbe la violazione dell’art. 133, c. 2, Cost., ma quella (forse più grave) del libero diritto di voto dei cittadini veneziani ai sensi dell’art. 48, c. 2, Cost.: la previsione di un quorum infatti ingenera legittimamente negli elettori la convinzione che il mancato raggiungimento dello stesso porti al fallimento della separazione – e viceversa che il raggiungimento dello stesso (e vittoria dei Sì) alla necessaria istituzione dei due Comuni –, orientandone il comportamento di conseguenza (ad esempio nel senso dell’astensione). Affermare, in ipotesi, che in questo caso il mancato raggiungimento del quorum non ha comunque vincolato la Regione a non dar seguito al referendum significherebbe aver alterato la libera partecipazione al voto degli elettori.

In conclusione, alla luce delle considerazioni svolte, il Tar Veneto dovrebbe porsi il problema della legittimità costituzionale della legge veneta (rispetto all’art. 133, c. 2, Cost.), investendo della questione la Corte costituzionale. Nel caso in cui la questione fosse accolta, ciò comporterebbe l’annullamento del referendum e potrebbe innescare l’iter per una nuova consultazione, questa volta senza quorum.

Una breve postilla va fatta rispetto a due ulteriori argomenti sollevati dalla difesa regionale, almeno secondo quanto riportato dalla stampa: a) il progetto di legge – presentato nel 2014 – sarebbe ormai decaduto, avendo attraversato ben tre consiliature e quindi non potrebbe essere indetto comunque un nuovo referendum; b) in questo caso, per darsi luogo ad una nuova iniziativa “separatista”, bisognerebbe attendere i 10 anni previsti dallo Statuto regionale. Verrebbe così messa in dubbio anche la rilevanza della questione di costituzionalità.

Il primo argomento pare una forzatura, tanto più che l’iter legis non si è concluso correttamente nella scorsa consiliatura proprio per l’illegittima previsione del quorum. Lo Statuto del Veneto dispone inoltre all’art. 20, c. 4, che i progetti di legge di iniziativa popolare (com’era quello di specie) non decadono con la fine della legislatura, esprimendo quindi un chiaro favor per la conservazione di tali iniziative. E nulla pare impedire allo stesso Consiglio di ritornare eventualmente sulla decisione.

Il secondo argomento fa leva sull’art. 20, c. 3, dello Statuto, a mente del quale «I progetti di legge di istituzione di nuovi comuni o di modifica delle loro circoscrizioni e denominazioni, che siano stati respinti dal Consiglio regionale, non possono essere ripresentati prima del termine di dieci anni, ridotto a cinque se di iniziativa dei comuni». Se un rigetto puramente formale del progetto di legge si è in effetti avuto con la decisione del Consiglio sul «non passaggio agli articoli della proposta di legge» conseguente al referendum (Deliberazione n. 15/2020), pare difficile che la stessa possa integrare la previsione dell’art. 20, c. 3, St. Veneto. Il senso della norma è chiaramente quello di “bloccare” nuove iniziative che si siano scontrate con la contraria volontà politica del Consiglio regionale. Ma nel nostro caso c’è stata, al contrario, una valutazione positiva della modifica territoriale da parte del Consiglio, espressa attraverso il giudizio di ragionevolezza favorevole (reso in data 8 luglio 2014); mentre – per tutti i motivi suesposti – la decisione di non dar seguito alla proposta pare essere il frutto non di una scelta del legislatore regionale, ma dell’automatismo imposto dalla previsione del quorum.

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2 commenti su “Sul quorum nei referendum per le variazioni territoriali dei comuni. Il caso veneziano non è affatto banale”

  1. ERRATA CORRIGE: la data corretta del giudizio di meritevolezza è il 14 febbraio 2017; quella indicata nel testo è la data del giudizio di ammissibilità della proposta. GM

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  2. Un problema simile si pose in Sicilia allorquando fu annunciata l’istituzione dei liberi consorzi comunali, dando la possibilità ai Comuni di poter scegliere a quale di essi aderire oppure d’istituirne di nuovi.
    Allora il comune di Gela decise di staccarsi dal libero consorzio di Caltanissetta.
    Tale delibera comunale fu sottoposta a referendum confermativo la cui validità fu controversa proprio a causa della mancata partecipazione della metà più uno degli aventi diritti.
    Allora difesi la validità di tale consultazione e tale opinione fu poi accolta dall’Ufficio legislativo e legale della Regione siciliana (parere 20235/2014) .

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