Per quanto evidente, a tutti è sfuggito un effetto della recente riduzione del numero dei parlamentari e cioè che il Parlamento in seduta comune, in futuro composto da 600 parlamentari elettivi anziché 945, potrà molto più facilmente riunirsi nell’Aula della Camera.
Dai lavori della costituente non emerge chiaramente ma si può supporre che una delle cause che indusse a limitare le attribuzioni delle camere riunite fu proprio l’eccessivo numero dei suoi membri, ancorché come noto inferiore rispetto ad oggi: I legislatura 908 parlamentari (574 deputati e 334 senatori); II legislatura 827 parlamentari (590 deputati e 237 senatori); III legislatura 842 parlamentari (596 deputati e 246 senatori). Fu dunque anche per questo recondito motivo che fu scartata la proposta di Mortati (seconda sottocommissione, prima sezione, seduta del 4 gennaio 1947) di far votare al Parlamento in seduta comune la fiducia iniziale al solo Presidente del Consiglio.
Di conseguenza, com’è noto, il Parlamento in seduta comune è oggi considerato dai più un collegio imperfetto, non in grado di poter discutere su quanto oggetto delle sue attribuzioni prevalentemente elettorali. Esso, infatti, per Costituzione deve esclusivamente: eleggere il Presidente della Repubblica (art. 83), assistere al suo giuramento (art. 91) e metterlo in stato di accusa (art. 90); eleggere un terzo dei giudici costituzionali (art. 135) e dei membri del Consiglio superiore della magistratura (art. 104); eleggere ogni nove anni i 45 cittadini fra i quali estrarre a sorte i sedici che integreranno la Corte costituzionale nei giudizi d’accusa contro il Presidente della Repubblica.
Grazie alla riduzione del numero dei parlamentari, le predette difficoltà operative sono oggi superate. Non è quindi un caso che si stia sin d’ora cominciando a ragionare sull’ampliamento delle attribuzioni delle camere riunite.
Va in questo senso la recente proposta di riforma costituzionale presentata lo scorso 2 ottobre al Senato dal Partito democratico su Razionalizzazione del parlamentarismo attraverso la valorizzazione del Parlamento in seduta Comune per la definizione dell’indirizzo politico nazionale, l’introduzione della sfiducia costruttiva e di nuovi elementi di differenziazione di Camera e Senato. Già dal titolo si comprende come essa tratti diversi altri profili, sui quali sarà certamente il caso di ritornare al futuro, primo fra i quali la riforma del procedimento legislativo allo scopo di superare l’attuale bicameralismo paritario.
Concentrandoci invece sul Parlamento in seduta comune, obiettivo della riforma è farne “la sede unitaria di definizione dell’indirizzo politico nazionale”, riprendendo l’originaria Progetto di Costituzione presentato in assemblea Costituente. Esso, infatti, sarebbe chiamato a prendere le decisioni più importanti: voto di fiducia (a maggioranza semplice) e di sfiducia (costruttiva ed a maggioranza assoluta) al Governo; approvazione della legge di bilancio e autorizzazione al c.d. scostamento di bilancio; approvazione della leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali: audizione delle comunicazioni che il Presidente del Consiglio deve svolgere prima (con eventuale formulazione di indirizzi) e dopo i Consigli europei; infine, conversione dei decreti legge.
Per svolgere tali nuove attribuzioni il Parlamento in seduta comune dovrà dotarsi di un proprio regolamento (al posto dell’attuale richiamo al regolamento della Camera dei deputati) chiamato, in particolare, a regolare l’esame congiunto delle commissioni permanenti di Camera e Senato sui disegni di legge ad esso riservati.
In attesa di ulteriori approfondimenti, tale proposta di riforma si presta fin d’ora a tre brevi considerazioni
In primo luogo, l’ampliamento delle attribuzioni costituzionali del Parlamento in seduta comune si colloca nella prospettiva del superamento del nostro bicameralismo paritario. Prova ne sia che la proposta prevede una – invero marginale – differenziazione della composizione del Senato, in cui entrerebbero a far parte un rappresentante (il Presidente della Regione?) eletto a maggioranza assoluta da ciascun Consiglio regionale o delle Province autonome, nonché, soprattutto, la preminenza nell’iter legislativo della volontà della Camera su quella del Senato, ad eccezione di alcune leggi “bicamerali” paritarie (leggi costituzionali e di revisione della Costituzione; leggi elettorali; leggi di delegazione legislativa).
La novità sta nel fatto che tale tendenza al superamento del bicameralismo paritario si traduce nella concentrazione dei poteri di indirizzo politico non, come finora proposto, nella Camera dei deputati ma nel Parlamento in seduta comune, composto da membri eletti allo stesso modo (da qui la proposta di far eleggere i senatori dai diciottenni in circoscrizioni non più regionali).
È stato già rilevato (Caravita) che in tal modo, contraddittoriamente, si avrebbero due Camere che partecipano paritariamente al rapporto di fiducia ma che rimarrebbero differenziate in ordine all’esercizio della potestà legislativa. Tale autorevole osservazione pare però viziata da un errore di prospettiva, perché il Parlamento in seduta comune, per quanto composto da deputati e senatori, è organo altro rispetto a Camera e Senato, i quali, quindi, perdono in esso la propria soggettività per fondersi in un terzo organo costituzionale.
In secondo luogo l’accentramento del potere fiduciario nel Parlamento in seduta comune dovrebbe garantire, nelle intenzioni dei proponenti, “una più sicura stabilità al Governo”. In questo senso, come detto, vanno: l’attribuzione al Presidente del Consiglio del potere di proporre al Presidente della Repubblica non solo la nomina ma anche la revoca dei ministri; l’introduzione della sfiducia costruttiva e la sua approvazione da parte ora delle camere riunite a maggioranza più elevata (assoluta) rispetto a quella (semplice) richiesta in sede di fiducia, con ulteriore rafforzamento della possibilità – già com’è noto vigente – di governi di minoranza.
La soluzione della attribuzione del potere fiduciario al Parlamento in seduta comune non è nuova.
Come detto, il progetto originario della Commissione dei 75, approvato il 31 gennaio 1947, aveva previsto che la fiducia iniziale andasse approvata dal Parlamento in seduta comune e che in caso di sfiducia di una sola delle due Camere il Governo, in alternativa alle dimissioni, potesse tornare di fronte al Parlamento in seduta comune. Tale proposta era stata in parte ripresa dal disegno di legge di riforma costituzionale presentato il 18 aprile 2012 (c.d. ABC dalle iniziali dei tre leader politici – Alfano, Bersani e Casini – che l’avevano sponsorizzata) che, proprio a causa delle difficoltà strutturali del Parlamento a riunirsi in seduta comune cui facevamo cenno all’inizio, prevedeva un meccanismo istituzionale alquanto complicato e farraginoso: fiducia di ciascuna delle due Camere, sfiducia del Parlamento in seduta comune; possibilità per il Presidente del Consiglio, in caso di negazione della questione di fiducia da parte di una delle camere, di chiedere al Presidente della Repubblica lo scioglimento di una o entrambe le Camere, a meno che il Parlamento in seduta comune avesse indicato a maggioranza assoluta il nuovo Presidente del Consiglio.
Nell’attuale proposta del Partito democratico tali difficoltà strutturali sono superate grazie per l’appunto alla riduzione del numero dei parlamentari. Ma – e veniamo al terzo punto – l’obiettivo in tal modo di rafforzare la stabilità di governo sembra, per così dire, fuori portata per la semplice, ma decisiva considerazione che, tranne le crisi parlamentari del governo Prodi (1998 e 2008) e quella semiparlamentare del governo Conte I (dimessosi il 20 agosto 2019 a seguito della mozione di sfiducia, poi ritirata, della Lega per Salvini), tutte le crisi di governo sono state extraparlamentari, cioè insorte a seguito di dissociazioni di parte della maggioranza di governo, con conseguenti dimissioni spontanee del Presidente del Consiglio. Sotto questo profilo dunque le disposizioni costituzionali proposte possono solo costituire un deterrente ragionevole alle crisi parlamentari, ma non a quelle extraparlamentari.
Invero, l’obiezione è ben presente agli autori del progetto i quali prevedono l’obbligatoria parlamentarizzazione delle crisi generate dalle dimissioni volontarie del Presidente del Consiglio il quale, prima di rassegnarle al Presidente della Repubblica, sarebbe obbligato a comunicarne le motivazioni al Parlamento in seduta comune. Inoltre, nel caso in cui fosse presentata una mozione di sfiducia, il Presidente del Consiglio sarebbe obbligato a dimettersi solo dopo la sua votazione.
La parlamentarizzazione della crisi risponde senz’altro all’esigenza di renderne pubbliche le motivazioni. Di contro è pur vero che talora questo pubblico passaggio parlamentare è stato evitato proprio per non acuire i motivi di contrasto tra le forze politiche di maggioranza in misura tale da rendere ancor più difficoltoso il compito del Presidente della Repubblica di nomina del nuovo esecutivo. Come è stato detto (Chessa) con bella immagine, il Presidente del Consiglio dimissionario è come il giocatore di scacchi esperto che, di fronte alla prevedibile sconfitta, preferisce abbandonare la partita. Insomma, la parlamentarizzazione della crisi può risolversi in una forma di “accanimento terapeutico” inutile e anzi dannoso ai fini della prosecuzione della legislatura.
Sempre a proposito del rapporto di fiducia ci sono infine, due ulteriori questioni da evidenziare: la questione di fiducia e la mozione di sfiducia individuale. Sulla prima, il progetto prevede che, se il Governo presenta la questione di fiducia in una delle Camere o nel Parlamento in seduta comune, è quest’ultimo che la vota non prima di tre giorni dalla sua presentazione, con obbligo di dimissioni in caso di bocciatura. In tal modo la questione di fiducia perderebbe ogni valenza tecnica, sia per l’intervallo di tre giorni, sia soprattutto perché votata non dalla camera presso cui è posta ma dalle camere riunite. Il che, in effetti, dovrebbe limitarne gli attuali abusi. Di contro, però, non si può escludere che il Governo, pur avendo ottenuto la fiducia sull’approvazione di un disegno di legge, lo veda poi bocciato da una delle camere in sede di votazione finale. Una situazione che richiama alla memoria quando, prima della riforma del voto segreto del 1988, il governo otteneva la fiducia sull’articolo unico di conversione del decreto legge salvo venire sconfitto sulla sua approvazione finale a scrutinio segreto. Ed ora come allora le conseguenze non potrebbero che essere le stesse: dimissioni.
In secondo luogo, il progetto non tratta della mozione di sfiducia individuale la cui approvazione da parte di una delle camere, com’è noto, potrebbe segnalare una grave rottura nella maggioranza di governo e indurre quindi il Presidente del Consiglio alle dimissioni. Per questo motivo, per ragioni di coerenza, si dovrebbe o vietare tali mozioni oppure attrarle alla competenza delle Camere riunite.
Tirando le somme, il progetto qui commentato va senz’altro nella condivisibile direzione di superare il bicameralismo paritario, concentrando le funzioni d’indirizzo politico non nella Camera dei deputati ma nel Parlamento in seduta comune. La coesistenza di tale terzo organo con le altre due camere pone però problemi di reciproco coordinamento che sono ovviamente non solo tecnici ma politici e che per questo potrebbero aggravare, anziché semplificare, il funzionamento delle nostre istituzioni di governo.