L’esito positivo della consultazione referendaria del 20 e 21 settembre scorsi ha dato il via libera alla modifica degli artt. 56, 57 e 59 della Costituzione. L’approvazione referendaria a larga maggioranza non ha però risolto i problemi di funzionalità e di rappresentatività delle Camere segnalati da tanti studiosi. In particolare, il ridimensionamento del Parlamento, combinandosi con l’attuale legge elettorale (caratterizzata, com’è noto, da una componente maggioritaria non irrilevante), produrrà, nell’immediato, quello che Gaetano Silvestri ha definito un “effetto ipermaggioritario”, che non è dato sapere se e quando verrà superato, stante la notevole incertezza che al momento grava sull’esito del processo riformatore.
D’altro canto, nel perseguimento dei pur astrattamente apprezzabili obiettivi di efficienza e governabilità del sistema istituzionale, si rischia di trascurare altre esigenze, rispondenti a principi costituzionali, prima fra tutte la rappresentatività delle Camere e, più in generale, dell’organizzazione statale, che anche la Corte costituzionale ha considerato prioritaria rispetto alla stabilità di governo (sent. n. 1 del 2014).
Continua, invece, ad essere trascurato il nodo costituito dal sistema dei partiti, della cui capacità di consentire ai cittadini di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (secondo quanto prevede l’art. 49 della Costituzione) si può oggi certamente dubitare. Tra le numerose proposte di riforma avanzate negli ultimi giorni dalle forze politiche di maggioranza, non compare, infatti, alcun progetto di disciplina della democrazia interna dei partiti, che invece potrebbe fornire nuova linfa vitale al sistema dei diritti di partecipazione politica dei cittadini.
Stando alle prime dichiarazioni successive alla consultazione referendaria, sono ben altri gli obiettivi. In particolare, il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, grande fautore del taglio del numero dei parlamentari, ha subito preannunciato che occorrerà intervenire sui regolamenti parlamentari per evitare i “cambi di casacca”.
Il pensiero corre al “contratto di governo” alla base del primo governo Conte, che, al punto 20, sulle riforme istituzionali, autonomia e democrazia diretta, prevedeva: “occorre introdurre forme di vincolo di mandato per i parlamentari, per contrastare il sempre crescente fenomeno del trasformismo. Del resto, altri ordinamenti, anche europei, contengono previsioni volte a impedire le defezioni e a far sì che i gruppi parlamentari siano sempre espressione di forze politiche presentatesi dinanzi agli elettori, come si può ricavare dall’articolo 160 della Costituzione portoghese o dalla disciplina dei gruppi parlamentari in Spagna”. Il riferimento era all’istituto dell’anti-defection clause, previsto dall’art. 160, comma 1, della Costituzione del Portogallo. In base a tale previsione, i deputati perdono il seggio qualora s’iscrivano a un partito diverso da quello per il quale si sono presentati alle elezioni. Lo stesso tipo di sanzione è utilizzata qualora i parlamentari si trovino in situazioni d’incapacità o incompatibilità previste dalla legge o se superino il numero di assenze previste dal regolamento o se siano condannati in giudizio per determinati delitti. Si tratta, tuttavia, di previsioni che non escludono affatto il principio del divieto di mandato imperativo, previsto anche dalla Costituzione portoghese: com’è stato ricordato, infatti, il secondo comma dell’art. 152 di quest’ultima prevede che “i deputati rappresentano tutto il Paese e non le circoscrizioni nelle quali sono stati eletti”, mentre l’art. 155, al primo comma, della stessa Costituzione afferma che i deputati “esercitano liberamente il proprio mandato”.
A preoccupare è poi la circostanza che misure del genere possano essere introdotte non in Costituzione, come sarebbe giusto che fosse, considerata la rilevanza costituzionale delle stesse, ma nei regolamenti parlamentari, per i quali la possibilità di rivolgersi alla Corte costituzionale incontra l’ostacolo di un orientamento giurisprudenziale contrario.
Di proposte orientate in tal senso non v’è traccia nel progetto di riforma da ultimo avanzato dal PD ma non può escludersi che, a breve, si propongano concrete modifiche dei regolamenti parlamentari volte a introdurre istituti che, anziché ridare voce ai rappresentati, finirebbero con il rafforzare il vincolo di mandato tra i parlamentari stessi e i rispettivi partiti di riferimento. Privi del tutto o quasi di un’organizzazione interna democratica, questi ultimi – o meglio: i loro leader e gruppi dominanti – finirebbero così con il gestire agevolmente le dinamiche istituzionali. Il che darebbe corpo alle preoccupazioni di quanti, in questi mesi, hanno visto nel taglio del numero dei parlamentari un intervento volto non già a restituire efficienza alle Camere ma a colpire il ruolo delle istituzioni rappresentative.
Contrariamente all’autrice non penso che l’esito del recente referendum comporti il rischio di dare una spinta “iper-maggioritaria” alla forma di governo (un obiettivo invece espressamente perseguito dalle tre penultime leggi elettorali votate dal Parlamento) ; né penso che metta in pericolo “la rappresentatività delle Camere” (compromessa invece dalle leggi elettorali appena menzionate). Il referendum ratifica semplicemente una revisione non-riforma (cf. Eleonora Bottini oggi su JP blog), una revisione insignificante.
Sono ancora meno d’accordo con l’osservazione sul “sistema dei partiti”, non toccato né dal taglio del numero dei parlamentari, né dai progetti di revisione più organici precedenti, bensì indirettamente sempre dalla serie di leggi elettorali che dal 1995 hanno cambiato il panorama partitico del paese, la frammentazione parlamentare e la nascita di nuovi poteri politici al di fuori dal parlamento e spesso al di fuori dai partiti!
Se posso condividere l’auspicio dell’autrice per una maggiore “democrazia interna dei partiti”, non penso che questo obbiettivo possa o debba essere realizzato attraverso un non meglio precisato “progetto di disciplina” dell’organizzazione interna dei partiti; penso che al contrario la democrazia interna non possa essere assicurato senza una legge elettorale rigorosamente conforme; una legge elettorale democratica che non fornisca solo “nuova linfa vitale al sistema dei diritti di partecipazione politica dei cittadini”, ma garantisca o rispetti i loro diritti sacrosanti di scelta dei loro rappresentanti, ben oltre le condizioni molli sancite dalle sentenze 1/2014 e 35/2017. Le liste bloccate sono la restrizione (dei diritti politici fondamentali) che ha reso indispensabile la parate delle primarie e altre soluzioni improvvisate come l’illusoria e ingannevole democrazia privata della piattaforma Rousseau.
L’unico punto sul quale concordo con l’autrice è la critica del progetto pentastellato, inserito come al 20 dell’ominoso “contratto” del precedente governo, per introdurre “delle forme di vincolo di mandato per i parlamentari”, in emulazione dei progetti precedenti promossi in varieforme dai governi Berlusconi. Se passasse tale prgetto, sarebbe la morte del governo parlamentare e la sua trasformazione prima in partitocrazia, governo dei poteri privati, poi non si sa in che cos’altro ancora. Non condivido la troppo indulgente interpretazione delle disposizioni contenute nella Costituzione portoghese (art. 160): come può vietare a un parlamentare di cambiare, non gruppo parlamentare, ma partito? Ma anche se si sostituisse nel testo il gruppo al partito, la disposizione non risolverebbe la clamorosa contraddizione con il principio del libero mandato affermato maldestramente altrove.
Il regime parlamentare liberale creato – almeno sulla carta – dalla Costituzione del 1947 si sta disintegrando sotto le spinte di attori politici senza scrupoli o incoscienti, con il permesso di sentenze poco rigorose dei giudici supremi e con l’assist di una dottrina per lo più compiacente e confusa.