Le fragole sono mature, esclusioni dal cestino

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di Maria Vita De Giorgi 

“Le fragole sono mature”. Così ha concluso Beppe Grillo su Facebook qualche giorno fa, avanzando proposte per il futuro Governo e illustrandone i punti programmatici.  Da quel momento, da quando Grillo, riassumendo la funzione di Capo supremo del Movimento da cui era stato lontano per mesi, è disceso a Roma, tutto è cambiato. Cambiato in un senso molto gradito all’A. di queste righe, peraltro del tutto estranea ai 5 Stelle, ma questo non rileva.

Il mutamento non è stato condiviso da tutti gli appartenenti al M5s: nonostante la votazione della mitica piattaforma Rousseau, 15 senatori hanno “votato no” al nuovo Governo. Di questi senatori il capo politico Vito Crimi ha annunciato su Facebook l’espulsione dal M5s e lo stesso provvedimento ha minacciato nei confronti dei 21 deputati che non hanno espresso voto favorevole. Intanto i capogruppo hanno ufficializzato l’espulsione dai Gruppi parlamentari, ma in queste righe ci occuperemo dell’esclusione dal Movimento, non dal Gruppo parlamentare.

In virtù del legittimo dubbio che un comunicato su Facebook, sia pure del capo politico, non legittimi una pronuncia siffatta, gli esclusi dal Movimento –  leggiamo in questi giorni – “stanno lavorando ad un ricorso contro l’espulsione basato sulla motivazione principale che la figura del capo politico, oggi interpretata da Vito Crimi, è stata di fatto abolita dagli iscritti su Rousseau, che hanno votato la modifica dello Statuto del M5s, che istituisce al suo posto invece un direttorio di cinque persone (che andrà poi eletto)”.

In attesa che vengano chiarite le regole per le candidature e l’elezione del direttorio, il collegio dei probiviri – fino ad ora organo del M5s preposto alle pratiche disciplinari – ha deciso per l’apertura del procedimento nonostante qualche parere contrario. Con un certo divertimento leggiamo che il collegio dei probiviri ne approfitta per avviare la procedura anche contro chi non ha rendicontato i soldi che devono essere restituiti, secondo Statuto. Quote spesso contestate.

Gli statuti delle associazioni d’abitudine prevedono quale sia l’organo dell’associazione che può comminare l’esclusione e contro il provvedimento si può fare ricorso al giudice ordinario (art. 24 c.c., 3° c.c.). Quale sia l’organo legittimato ad assumere provvedimenti disciplinari, come vedremo tra poco, è problema ricorrente per il Movimento 5 Stelle.

L’esclusione dell’associato è un vecchio tema di cui ci siamo occupati con dovizia di pagine alcuni decenni fa. Quell’art. 24 c.c., che prevede l’espulsione “per gravi motivi”, coinvolgeva argomenti fascinosi, anche se destinati a rimanere sulla carta: lo strapotere del gruppo nei confronti del “singolo”, i doveri di lealtà e i relativi dolorosi conflitti.

Dall’avvento dello Stato democratico le formazioni sociali, sede di svolgimento della personalità individuale (art. 2 Cost.), sono state elevate a soggetti autonomi di tutela. Un favore coerente con l’impianto personalista della nostra Carta costituzionale ma che ha impedito – insieme a ovvi interessi politici e preoccupazioni più o meno giustificate per eventuali ingerenze indebite – una normazione specifica della vita interna dei partiti e dei sindacati.

E così, fin dagli anni sessanta, serpeggiava il timore che le associazioni, in particolare partiti e sindacati, avessero tradito la loro funzione istituzionale, abusando della libertà garantita dall’ordinamento e si sollecitavano interventi legislativi che ne promuovessero la democrazia interna. Nel decennio successivo gli studiosi si chinarono, con singolare consonanza, sulla posizione del singolo nell’ambito delle organizzazioni di cui paventavano lo strapotere oppressivo e potenzialmente immune da ogni controllo, invocando questa volta l’intervento dello Stato e dei suoi giudici.

Il problema era (ed è ancora) il medesimo: fin dove arriva il riconoscimento dell’autonomia delle formazioni sociali? Fino al punto di poter violare i diritti fondamentali (cui si richiama lo stesso art. 2 Cost.), ma anche le norme ordinarie e le stesse regole statutarie? Il rispetto dei gruppi intermedi sembra a volte legittimare la lesione dei diritti dell’individuo. Queste violazioni sono tanto più frequenti quando sono sostenute da ideologie politiche o religiose, che consentono di fare appello a interessi collettivi e principi morali, considerati dagli stessi associati prevalenti rispetto alle norme positive.

La scarsissima giurisprudenza per la verità non illumina affatto. I casi portati sul tavolo del giudice sono quelli dell’associato escluso dal circolo (del tennis o simili) perché ha chiesto di consultare i bilanci, oppure non ha pagato la quota associativa o ha offeso il presidente.

Per quanto riguarda i partiti, molti si affacciarono al nuovo diritto, fin dai primi anni del dopoguerra, in preda al contrasto e alle divisioni. Ma anche in tempi meno remoti hanno guerreggiato sull’appropriazione di sigle, nomi e simboli, poi abbandonati all’oblio o sdegnosamente ripudiati e sostituiti con denominazioni e sigle sempre più fantasiose. Così Alleanza Nazionale e i dissidenti dell’MSI si sono accapigliati sulla “fiamma tricolore” (Trib. Roma 13 aprile 1995, ord.); PDS e Rifondazione Comunista si sono a lungo contesi Falce e Martello, nonché le sedi e il patrimonio del vecchio PCI (Trib. Roma, ord., 26 aprile 1991) e la S.C., con sentenza 23 dicembre 2010, n. 25999, ha messo fine ad una lunga controversia, iniziata nel 1997, sulla titolarità dello scudo crociato e sulla dispersione del patrimonio della DC.

Sembra preistoria, ma nel 2010 si accese un contrasto all’interno del PdL tra i due co-fondatori (Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini), fino alla rottura con una risoluzione dell’Ufficio di presidenza del partito, che ha condiviso la decisione del Comitato di Coordinamento di deferire la questione ai Probiviri al fine di chiedere l’espulsione dei dissidenti. La vicenda, come noto, si è conclusa con l’avvio di un nuovo movimento.

I magistrati però non amano ingerirsi nelle dispute associative: i giudizi sui casi di esclusione sono in prevalenza di vecchia data e negli anni sono andati scemando. Il tema sembrava addirittura aver perso rilievo via via che l’entrare e uscire da un’associazione è divenuto trascurabile notizia; ma è tornato inaspettatamente alla ribalta negli ultimi tempi, contrassegnati da preoccupante intolleranza nei confronti di chi esprime opinioni discordanti, da intimidazioni, espulsioni e rancorosi abbandoni dei dissidenti.

Un’ordinanza del Tribunale di Napoli, 29 aprile 2016, ha sospeso il provvedimento di esclusione di alcuni iscritti dal Movimento 5 Stelle, comunicato via mail dallo “staff di Beppe Grillo” e motivato con la partecipazione a un gruppo segreto Facebook che avrebbe perseguito lo scopo di manipolare il confronto per la formazione di un metodo di scelta del candidato a sindaco e della lista per le elezioni amministrative.

A parere del tribunale napoletano le norme contenute nel regolamento pubblicato sul portale del leader politico del Movimento non costituiscono – in assenza di un’espressa disposizione dello statuto – fonte idonea a regolare materie, come quella dell’esclusione degli associati, riservate dal codice civile alla competenza assembleare. Per tali ragioni, il Tribunale ha accolto il reclamo e ha sospeso i provvedimenti di esclusione.

Qualche mese dopo, Marika Cassimatis, insegnante di geografia in un Istituto tecnico di Genova, attivista del Movimento 5 Stelle dal Novembre 2012, ha ottenuto la nomina di candidata M5s alle elezioni del sindaco di Genova grazie alle “Comunarie” on line che l’hanno vista superare – seppur di poco – l’avversario. La candidata designata è stata depennata da Beppe Grillo, e rimpiazzata dal secondo classificato, per ragioni descritte sul suo blog, che in sostanza attengono alla “infedeltà” di alcuni componenti la lista: ‹‹Se qualcuno non capirà questa scelta, vi chiedo di fidarvi di me››.

Per quanto concerne l’assetto democratico del movimento l’ordinanza non si sbilancia in una valutazione e tuttavia non si esime dal considerare che ‹‹la cifra democratica del Movimento 5 Stelle è costituita dal fatto che le sue regole statutarie si preoccupano di raggiungere un punto di equilibrio tra il momento assemblear/movimentista e l’istanza dirigista che viene riconosciuta ed associata a figura di particolare carisma e peso politico per il Movimento, come Beppe Grillo, il quale in seno a tale organizzazione politica cumula in modo non seriamente contestabile la qualità di “capo politico” e di “Garante del Movimento”, come da Codice Etico ››.

Nel luglio 2016 l’avvocato Venerando Monello ha adito il Tribunale di Roma (ord. 17 gennaio 2017) chiedendo che accertasse l’ineleggibilità di Virginia Raggi alla carica di sindaca/o della Capitale, dichiarandone la decadenza. La condizione di ineleggibilità era ricollegata alla sottoscrizione da parte della Raggi di una clausola del codice di comportamento per i candidati ed eletti del Movimento 5 stelle alle elezioni amministrative di Roma 2016, clausola censurata per contrarietà al principio costituzionalmente garantito (art. 67 Cost.) del divieto di vincolo mandato imperativo (ribadito dall’art. 3 del Regolamento del Comune di Roma), nonché agli artt. 3, 51, 97 Cost. La clausola prevedeva, tra l’altro, che il candidato si obbligasse in caso di violazione a dimettersi dalla carica ricoperta, con conseguente dismissione dell’uso del simbolo ed espulsione dal M5S. Per evitare l’obiezione che si trattava di un “codice etico”, non azionabile davanti al giudice, si era ricorsi a un escamotage. La violazione avrebbe prodotto un “danno d’immagine” per il M5S che il candidato accettava di quantificare “in almeno Euro 150.000”, impegnandosi a versare l’importo “non appena gli sia notificata formale contestazione a cura dello staff coordinato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio”.

Qui si ricorderà tra parentesi che lo sbrigativo espediente voleva risolvere l’annoso problema dell’elevato “spostamento” degli eletti nelle varie assemblee. La clausola era però giuridicamente inefficace perché confliggeva con il rifiuto costituzionale del vincolo di principio di mandato parlamentare (art. 67 Cost., art. 2 del Regolamento del Parlamento europeo), così come erano nulle le “dimissioni in bianco” sottoscritte dagli eletti nelle liste di alcuni partiti della sinistra e affidate al segretario del partito (R. Bin, Ma mi faccia il piacere! La “multa” del M5S ai “ribelli” , 12 gennaio 2017). Di questo “codice di comportamento” per la verità mi pare non si sia più sentito parlare.

Tornando ai nostri giorni, gli esclusi dal Movimento impugneranno il provvedimento e il giudice avrà via facile per annullarlo, sia per l’assetto ancora confuso dell’ordinamento interno del M5s, sia perché – questo almeno penso io – l’espressione del proprio dissenso, se non si vive in un regime totalitario, non tollera repressioni.

Che i casi di esclusione dai partiti siano divenuti sempre più rari via via che ogni ideologia (la cui violazione era la principale causa di esclusione) è andata scolorendosi e si è fatta mutevole e cangiante è un bene, perché in nome dell’ideologia, dell’obbligo di lealtà ecc. si sono perpetrati (nascondendosi dietro belle e suggestive parole) comportamenti sgradevoli, prepotenti se non illeciti.

Con tutto il rispetto per l’Ordinamento in cui si colloca (e comunque sempre di Italia si tratta) un altro caso penoso è quello dell’allontanamento, per misteriosi gravi motivi (comunicati in via riservata ai singoli destinatari) deciso dal Vaticano, di Enzo Bianchi, che oramai ha 77 anni, dal Monastero che aveva fondato (nel 1968) a Bose, in provincia di Biella. Una comunità monastica di cui tutti per anni abbiamo sentito parlare, perché aperta, ecumenica e mista. La decisione è stata presa dal Segretario di Stato del Vaticano e approvata da Papa Francesco dopo un’ispezione di alcuni inviati al Monastero. La vicenda si segue, come tutte, su Internet e sui giornali, per cui qui è inutile riprodurla. Allo scopo di eseguire il Decreto singolare, del 13 maggio 2020, si disponeva, tra l’altro, che Enzo Bianchi si ritirasse dalla Comunità Monastica di Bose entro e non oltre il termine di dieci giorni dalla data di notifica del medesimo Decreto (avvenuta il 21 maggio 2020) e si trasferisse per un tempo indeterminato e senza soluzione di continuità, in un Monastero o altro luogo, che è stato poi individuato in Cellole, Toscana.  

Enzo Bianchi, leggiamo in questi giorni, si è rifiutato di lasciare Bose per trasferirsi in Toscana e anche questa vicenda è in (particolarmente doloroso) svolgimento.

Ci si chiederà perché, forse impropriamente, ho messo insieme casi così diversi. Perché sono accomunati dall’esercizio del potere in nome dell’ideologia, una parola che – evidentemente –  continua a far male quando declinata non nel segno della libertà di pensiero, mutevole nel tempo, bensì del vincolo vita natural durante. E perché «ogni volta che al vuoto di senso del paradigma individualistico si è voluto opporre l’eccesso di senso di una comunità riempita della propria esistenza collettiva, le conseguenze sono state distruttive. Prima nei confronti dei nemici esterni, o interni, contro cui tale comunità si è istituita ed infine anche di se stessa» (R. Esposito, Communitas. Origine e destino delle comunità, Torino 1998, 2° ed. 2006, p. 154)

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