Nella corsa alla Presidenza della Repubblica, Mario Draghi sembra al momento essere l’unico nome in circolazione che può seriamente ambire a riunire un’ampia convergenza di sostegni in questa complessa e sfilacciata XVIII legislatura. Certo, ove ciò si realizzasse si aprirebbe uno scenario inedito per la prassi costituzionale nostrana, poiché nessun Presidente del Consiglio ha traslocato direttamente da Palazzo Chigi al Colle più alto.
Dunque, anche se l’ipotesi Draghi dovesse rimanere solo un caso di scuola, vale la pena interrogarsi sui passaggi istituzionali da seguire nel rispetto attento della Costituzione e dei suoi equilibri.
Si aprono in realtà due scenari, da considerare distintamente: lo spartiacque è rappresentato dalla data di scadenza naturale del settennato di Mattarella (3 febbraio 2022), con la conseguente apertura della supplenza presidenziale da parte della Presidente del Senato.
Partiamo da quello più semplice: Draghi viene eletto Presidente della Repubblica prima del 3 febbraio 2022, nel periodo previsto dall’art. 85, comma secondo, Cost. (dunque, nei trenta giorni precedenti alla scadenza del settennato precedente).
In questo caso, nulla (o parva) quaestio: il Presidente uscente può occuparsi della nomina del nuovo Governo prima del giuramento del suo successore, ma, possibilmente, in un lasso di tempo tale da consentire prima l’insediamento del nuovo inquilino del Quirinale e poi le votazioni di fiducia sul nuovo Governo (non si può mai sapere se la fiducia sarà effettivamente concessa e il potere di scioglimento deve poter essere già esercitabile). Quest’ultimo – prima della fiducia – potrà poi offrire le proprie dimissioni di cortesia al nuovo Capo dello Stato, ma non si renderà necessaria una nuova nomina.
Qualora, invece, il collegio elettorale non individui il nuovo Presidente prima della supplenza presidenziale, parrebbe invece più opportuno organizzare la successione in maniera diversa.
È noto che la posizione giuridica del Presidente supplente e l’estensione dei suoi poteri siano stati discussi – senza unanimità di vedute, ça va sans dire – dalla dottrina. Tuttavia, ove fosse il Presidente del Consiglio eletto al Quirinale, sarebbero ovviamente necessarie le sue dimissioni: una disposizione costituzionale incontrovertibile (una regola, più che un principio) stabilisce che «l’ufficio di Presidente della Repubblica è incompatibile con qualsiasi altra carica» (l’art. 84, comma secondo, Cost.).
Con tale atto, tutto il Governo decadrebbe, rimanendo in carica per gli affari correnti, ma si constaterebbe un vuoto al vertice dell’Esecutivo, contrario al principio di continuità degli organi dello Stato. Qualcuno potrebbe ritenere operante l’art. 8, comma 2, della legge n. 400/1988, con la supplenza affidata al ministro più anziano o ad un ministro scelto dal Presidente del Consiglio. Tuttavia, in questa norma la supplenza presuppone la titolarità della carica in capo al soggetto che può, appunto, delegarla liberamente in caso di assenza o impedimento temporaneo (si noterà la differenza con l’art. 86 Cost. sulla supplenza del Presidente della Repubblica). Se il soggetto si dimette e/o non può più – ontologicamente – rivestire il suo ruolo, non può nemmeno indicare un sostituto pro tempore e pro futuro: si ricadrebbe, altrimenti, in un caso di supplenza dell’ex-Presidente del Consiglio. E, dal testo del primo comma di questo stesso articolo, lo stesso ragionamento varrebbe anche in presenza di un Vicepresidente ufficialmente individuato.
La soluzione più ragionevole sarebbe allora riconoscere alla Presidente supplente il potere di nominare un nuovo Governo, con una condizione specifica: che questo non si presenti davanti alle Camere prima di essere reinvestito – nella sua identica composizione o in altra – dal Presidente della Repubblica neoeletto. Dunque, le dimissioni (più o meno “di cortesia”) dovrebbero in realtà venire accettate, così da ristabilire l’ordine esatto delle competenze e lasciare al titolare effettivo la possibilità di determinarsi liberamente dopo aver meglio interloquito con le forze politiche e aver compreso in maniera ufficiale i loro intendimenti, eventualmente anche riconfermando il Governo “transitorio”.
Post scriptum
A prescindere da chi si troverà a capo dello Stato a partire da febbraio 2022, pare opportuno sottolineare – malgrado le innumerevoli voci di segno contrario che certamente si leveranno e i più vari argomenti che saranno addotti per giustificare la necessità di portare a termine la legislatura in un modo o nell’altro – che lo scioglimento anticipato delle Camere con l’indizione di nuove elezioni dovrebbe essere attentamente considerato dal suo futuro titolare. Inutile dire che su questo Parlamento grava un’ombra sempre più pesante circa la sua effettiva rappresentatività: le maggioranze cangianti, la costituzione di nuovi gruppi divenuti “aghi della bilancia”, gli innumerevoli “cambi di casacca”, nonché la revisione costituzionale approvata dal corpo elettorale sulla nuova consistenza numerica delle Camere… Eletto il Presidente della Repubblica, sarebbe forse il caso di dare la parola agli elettori, voltare pagina e lasciarsi alle spalle le glorie della XVIII legislatura. Purtroppo, il sistema elettorale sarà quello previsto dalla legge n. 165/2017: ma, allo stato, pare che manchi la volontà politica di mettere mano alla legislazione. Resta solo la speranza che un giudice sollevi – sollecitato meritoriamente da qualche cittadino elettore e secondo le modalità ammesse dalla sentenza n. 1/2014 – qualche dubbio di costituzionalità (la scelta di certo non manca…) su un meccanismo elettorale quantomeno perverso, aggravato dalla sua applicazione al nuovo Parlamento a ranghi ridotti.