La disponibilità dei testi di riforma dei regolamenti parlamentari predisposti dalle Giunta per il regolamento di Camera (v. l’allegato alla seduta del 17 febbraio) e Senato (v. il testo base adottato nella seduta del 18 gennaio 2022) consente finalmente di poter svolgere alcune prime considerazioni su un tema la cui importanza è inutile qui evidenziare.
Le regole sulla costituzione e lo scioglimento dei gruppi politici, e le in certo modo connesse clausole c.d. anti-transfughismo, rilevano ai fini non solo della strutturazione e del funzionamento delle camere nella prossima legislatura, dopo la riduzione del numero dei loro componenti, ma anche della conformazione del quadro politico, essendo talora la lasca interpretazione delle suddette regole causa principale della sua frammentazione, nonostante i meccanismi elettorali selettivi posti all’ingresso della rappresentanza politica.
Quella che segue, quindi, è una breve esposizione – per comodità espositiva suddivisa schematicamente in punti – delle disposizioni che si vorrebbero introdurre sui gruppi parlamentari e sulle componenti politiche del gruppo misto, con annotate a margine alcune considerazioni critiche in merito alla loro efficacia rispetto agli obiettivi dichiarati, formulate anche alla luce delle precedenti prassi parlamentari in tema.
I riferimenti normativi vanno intesi in relazione non al testo vigente ma a quello che si vorrebbe introdurre.
1. Costituzione dei gruppi parlamentari ad inizio legislatura. Entrambe le Camere prevedono una riduzione degli attuali quorum minimi previsti per costituire un gruppo parlamentare: alla Camera da venti a quattordici deputati (art. 14.1); al Senato da dieci a sette senatori (art. 14.4 R.S.).
Rispetto alla diminuzione del numero dei componenti delle due assemblee (com’è noto da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori elettivi), in entrambi i casi le riduzioni sono più che proporzionali. Applicando infatti la proporzione numerica (alla Camera 20:630=x:400; al Senato 10:315=x:200) il quorum minimo per costituire un gruppo parlamentare avrebbe dovuto essere di tredici deputati alla Camera (20×400:630=12,69) e di sei senatori al Senato, con arrotondamento per difetto (10: 315=x:200=6,34). Lo stesso dicasi per il gruppo delle minoranze linguistiche del Senato (alla Camera invece esse possono costituirsi in componente politica del Gruppo misto: v. infra, § 4.d)), dove occorrerebbero non più cinque ma quattro senatori (art. 14.8) anziché tre (5:315=x:200, per cui x è uguale a 3,17). Evidentemente entrambe le Camere vorrebbero rendere il quorum costitutivo leggermente più selettivo. Il che, però, ha subito indotto taluni (v. l’intervento del deputato Fornaro nella predetta seduta della Giunta per il regolamento della Camera) a rilevare come tale riduzione più che proporzionale possa comportare per le forze politiche minoritarie ulteriori difficoltà rispetto a quelle di derivanti dall’attuale legge elettorale.
Inoltre, va evidenziato come permane la profonda differenza tra le due Camere in materia di requisiti per la costituzione dei gruppi parlamentari ad inizio legislatura. Alla Camera dei deputati, infatti, continuerebbe ad essere sufficiente il mero requisito numerico (art. 14.1 che richiama espressamente il termine di quattro giorni dalla prima seduta previsto dal successivo art. 15.1). Al Senato, al contrario, si confermerebbe la necessità di affiancare ad esso il requisito politico, e cioè il dover il gruppo parlamentare “rappresentare un partito o movimento politico, anche risultante dall’aggregazione di più partiti o movimenti politici, che abbia presentato alle ultime elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrassegno, conseguendo l’elezione di Senatori” (art. 14.4). Si tratta di una discrasia grave, che già nell’attuale legislatura è stata motivo di tensione tra le due Camere (si veda in tal senso la vicenda della costituzione del gruppo di Italia Viva, la cui costituzione alla Camera in base al mero requisito numerico ha in certo misura influenzato la costituzione al Senato grazie al decisivo appoggio del Partito socialista di Nencini). Tale discrasia appare tanto più difficilmente spiegabile appena si consideri, come si dirà, che il requisito politico è previsto per la costituzione di gruppi parlamentari in corso di legislatura. Né basta a giustificare tale scelta la presumibile corrispondenza ad inizio legislatura tra forze politiche presentatesi alle elezioni e gruppi parlamentari perché nulla esclude che, proprio profittando del mero requisito numerico, si possano sin da subito costituire gruppi parlamentari espressione di aggregazioni politiche post-elettorali, come nel caso del gruppo Per le autonomie al Senato. Parimenti si potrebbe dare il caso della formazione di più gruppi da parte di partiti o movimenti politici che si siano invece presentati congiuntamente alle elezioni.
Proprio in riferimento a tale ipotesi, il nuovo art. 14.4 del regolamento del Senato, rispetto all’attuale – oltreché ora opportunamente specificare che il riferimento alle elezioni del Senato vada inteso alle ultime – ribadisce, con formula meno anodina, che i “partiti o movimenti politici [che] abbiano presentato alle elezioni congiuntamente liste di candidati con il medesimo contrassegno, con riferimento a tali liste, possono costituire un solo Gruppo, che rappresenta complessivamente tutti i medesimi partiti o movimenti politici” oppure “uno o più Gruppi autonomi” ma – specificando ora – solo se “abbiano presentato il proprio contrassegno in coalizione alle ultime elezioni del Senato”: sempreché ovviamente in entrambi i casi siano composti da almeno sette senatori. Pertanto, nel caso – già ora frequente – di forze politiche che si presentano non coalizzate ma congiuntamente, inserendo il loro contrassegno elettorale all’interno di uno più vasto che comprenda anche quelli delle altre forze politiche – queste potranno formare solo un gruppo parlamentare, anziché suddividersi in più di uno qualora ne avessero ovviamente la consistenza numerica.
2. Costituzione dei gruppi parlamentari in corso di legislatura. Entrambe le proposte prevedono la possibilità di costituire nuovi gruppi parlamentari in corso di legislatura, per non ingessare la connaturata fluidità e dinamicità del quadro politico. Nel contempo, però, ciò è consentito quando si è in presenza di determinati presupposti quantitativi e qualitativi che lascino ragionevolmente supporre che si sia in presenza di fenomeni politici significativi.
Tali presupposti sono identificati alla Camera dalla fusione di gruppi già esistenti oppure da una scissione numericamente significativa all’interno di un gruppo già costituito. In quest’ultimo caso, infatti, sempre almeno quattordici deputati possono costituire un nuovo gruppo parlamentare se “esclusivamente [e quindi tutti] provenienti da un unico Gruppo parlamentare (…) e che rappresentino, in forza di elementi certi ed inequivoci, un partito o un movimento politico organizzato nel Paese anche formatosi successivamente alle elezioni” (art. 14.2).
Sempre alla Camera ulteriore possibilità di costituire un gruppo parlamentare in corso di legislatura riguarda i gruppi composti da meno di quattordici deputati che l’Ufficio di Presidenza può autorizzare “entro il primo anno di legislatura” se rappresentano “un partito o movimento politico che abbia presentato alle ultime elezioni della Camera dei deputati, con il medesimo contrassegno, in almeno venti circoscrizioni, proprie liste di candidati ed abbia avuto accesso alla assegnazione dei seggi. In caso di liste presentate unitariamente da più partiti, può essere autorizzata la costituzione o la permanenza di un solo Gruppo rappresentativo della formazione politica complessiva identificata nella lista” (art. 14.2-bis). Verrebbe quindi mantenuta l’ipotesi – abrogata dal Senato nel 2017 – del gruppo autorizzato in deroga al requisito numerico previsto, richiamando espressamente a tal fine la necessità di attualizzare i requisiti regolamentari oggi previsti per autorizzare tali gruppi (v. Giunta per il regolamento, parere del 16 maggio 2006), continuando peraltro a non prevedere – come invece sarebbe opportuno per ragioni organizzative – un numero minimo di deputati aderenti. Rispetto all’attuale art. 14.2, verrebbe introdotto il limite temporale del primo anno di legislatura, nell’implicito presupposto che vadano autorizzati solo i gruppi parlamentari di quelle forze politiche che, pur non avendo ottenuto alle ultime elezioni politiche della Camera (specificazione opportuna) almeno quattordici eletti (rectius: l’adesione al gruppo di almeno quattordici eletti), abbiano presentato con il medesimo contrassegno proprie liste di candidati in almeno venti circoscrizioni (anziché, come oggi, venti collegi) e siano state ammesse all’assegnazione dei seggi, formula più semplice e meno impegnativa rispetto all’attuale che richiede di aver “ottenuto almeno un quoziente in un collegio e una cifra elettorale nazionale di almeno trecentomila voti di lista validi” (così l’art. 14.2 R.C. vigente). Infine, onde evitare il proliferare di gruppi corrispondenti a forze politiche presentatesi in coalizione, si specifica che in caso di liste presentate unitariamente da più partiti, l’Ufficio di Presidenza può autorizzare la costituzione “di un solo Gruppo rappresentativo della formazione politica complessiva identificata nella lista”. Ciò che però non viene chiarito – ed è un chiarimento che sembra quanto mai opportuno in tempi di fragilità del quadro politico – se in quest’ultimo caso la mancata adesione o la defezione di uno di tali partiti presentatisi in coalizione determini rispettivamente l’impossibile costituzione del gruppo o il suo successivo scioglimento; insomma, se le forze politiche coalizzate simul stabunt, simul cadent.
Anche al Senato, contrariamente alla disciplina vigente, verrebbe ammessa la possibilità di costituire nuovi gruppi parlamentari in corso di legislatura. Il quinto comma dell’art. 14, infatti, in deroga al precedente quarto, introdurrebbe la possibilità di nuovi gruppi a condizione “che rappresentino un partito o un movimento politico che nella legislatura abbia presentato alle elezioni politiche, regionali o del Parlamento europeo propri candidati conseguendo l’elezione di propri rappresentanti, a condizione che sia costituito da non meno di dieci componenti”. Pertanto, per costituire un nuovo gruppo occorrono due requisiti. Il primo, numerico, consistente in un numero di aderenti (dieci) superiore a quello generalmente previsto (sette) per costituire un gruppo, nel presupposto che ciò lasci ragionevolmente presumere che tali nuovi soggetti politici abbiano una effettiva e consistente corrispondenza nel corpo elettorale. Il secondo, politico, per cui il gruppo deve corrispondere ad una forza politica che abbia presentato liste alle elezioni politiche, regionali o europee (e quindi, al limite, non necessariamente per il Senato).
Piuttosto non è immediatamente chiaro se un gruppo siffatto possa costituirsi solo ad inizio legislatura o – come sembra – anche nel suo corso, dato che il citato quinto comma deroga al precedente quarto (sui requisiti per costituire un gruppo) ma non al secondo e terzo che fissano in tre giorni il termine entro cui i senatori eletti ad inizio o nel corso della legislatura devono dichiarare il gruppo del quale intendono far parte.
È infine previsto che in tal caso i senatori debbano produrre al Presidente una dichiarazione circa il riconoscimento del gruppo da parte del partito o del movimento politico che intendono rappresentare, il cui venir meno determina il suo successivo scioglimento (per ulteriori considerazioni v. infra, § 5).
3. Scioglimento dei gruppi parlamentari in corso di legislatura. Alla Camera il gruppo parlamentare il numero dei cui componenti sia disceso in corso di legislatura al di sotto della soglia minima prevista di almeno quattordici deputati può essere autorizzato dall’Ufficio di Presidenza a permanere tale (art. 14.2-bis).
Questa sorta di repêchage non è prevista invece al Senato, dove l’art. 14.9 prevede lo scioglimento del gruppo per difetto del requisito numerico richiesto (sette senatori; quattro per il gruppo delle minoranze linguistiche), con conseguente iscrizione dei suoi componenti al gruppo misto qualora costoro entro i successivi tre giorni non aderiscano ad altri gruppi
4. Costituzione delle componenti politiche all’interno del Gruppo misto della Camera. La nuova disciplina per la costituzione delle componenti politiche all’interno del gruppo riprende “in scala” quella sui gruppi parlamentari.
Alla Camera è possibile costituire una componente politica nel gruppo misto in quattro ipotesi.
4.a) In primo luogo viene confermata la possibilità di costituire componenti politiche senza alcun limite temporale o requisito politico da parte della metà dei deputati previsti per costituire un gruppo parlamentare (sette rispetto ai proposti quattordici, come oggi dieci rispetto agli attuali venti).
4.b) In secondo luogo, viene ribadita l’attuale possibilità di costituire ulteriori componenti politiche da parte di almeno tre deputati, senza quindi alcuna riduzione proporzionale ed anzi con un aumento percentuale rispetto al totale dei componenti dallo 0,47 (3 su 630) allo 0,75 (3 su 400) per cento. Costoro, però, anziché rappresentare un partito o movimento politico “la cui esistenza, alla data di svolgimento delle elezioni per la Camera dei deputati, risulti in forza di elementi certi e inequivoci e che abbia presentato, anche congiuntamente con altri, liste di candidati ovvero candidature nei collegi uninominali” (art. 14.5 vigente), dovrebbero piuttosto rappresentare un partito o movimento politico “che abbia presentato alle ultime elezioni della Camera dei deputati con lo stesso contrassegno proprie liste di candidati o candidati, anche congiuntamente o in coalizione con altri partiti o movimenti politici, conseguendovi l’elezione di almeno un deputato” (futuro art. 14.5). Il motivo di questi criteri maggiormente restrittivi sta nella interpretazione estremamente estensiva che i Presidenti della Camera che si sono succeduto hanno dato dei suddetti “elementi certi e inequivoci” (ma v. infra) e che ha consentito la costituzione di componenti politiche anche a partiti o movimenti che si erano presentati alle elezioni politiche senza però conseguirvi eletti (per rimanere all’attuale legislatura v. le vicende qui commentate delle componenti politiche di Cambiamo!-10 Volte Meglio (già Sogno Italia-10 Volte Meglio; Popolo protagonista-Alternativa Popolare nonché le ulteriori componenti politiche di FacciamoEco-Federazione dei Verdi (ora sciolta), Europa Verde-Verdi Europei e Manifesta, Potere al Popolo, Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea). Tutte componenti politiche definite etero-costituite in virtù dell’utilizzo di contrassegno elettorali di proprietà di soggetti extraparlamentari. Da qui dunque la precisazione che tali componenti politiche dovrebbero rappresentare un partito che abbia presentato, anche congiuntamente o in coalizione, candidature di liste o candidati uninominali nelle ultime elezioni della Camera (e non, dunque, in altre) e che, soprattutto, vi abbia conseguito almeno un eletto.
Rimangono però alcune criticità. Innanzi tutto, al contrario di quanto previsto per i gruppi parlamentari, il giudizio sulla costituzione di tali componenti è rimesso discrezionalmente al solo Presidente della Camera anziché all’Ufficio di Presidenza, come sarebbe senz’altro più opportuno ai fini della collegialità e della trasparenza della decisione. In secondo luogo, al contrario del Senato (v. infra, § 5), nulla è previsto per scongiurare l’ipotesi, come detto già verificatasi, che la componente politica si possa costituire non per volontà esclusiva dei deputati suoi componenti ma perché un soggetto extraparlamentare, titolare del simbolo elettorale di una forza politica che ha ottenuto eletti, riconosca loro di rappresentarla, incentivando così un indecoroso “mercato dei simboli elettorali”. Infine, nulla pare impedisca che forze politiche presentatesi congiuntamente o in coalizione possano formare distinte componenti politiche, potendo “sfruttare” più volte l’unico deputato eletto. A tal fine va evidenziato che non viene specificato che il deputato debba essere eletto nella quota proporzionale oppure nel collegio uninominale, dove però in realtà i candidati non si presentano con un proprio contrassegno elettorale; per cui basterebbe l’elezione di un siffatto candidato nella quota uninominale perché a cascata tutte le forze politiche coalizzatesi o presentatesi congiuntamente potrebbero costituire con appena tre deputati una componente politica. E, come è noto, costituire una componente politica costituisce un vantaggio non solo in termini di visibilità politica ma anche di accesso al finanziamento pubblico indiretto.
4.c) La proposta di riforma della Camera introduce una terza e finora inedita possibilità di costituire una componente politica del gruppo misto, e cioè da parte di almeno sette deputati esclusivamente (e quindi tutti) “provenienti da un unico gruppo parlamentare o da una unica componente politica del Gruppo misto (…) e che rappresentino, in forza di elementi certi ed inequivoci, un partito o un movimento politico organizzato nel Paese anche formatosi successivamente alle elezioni”. L’equivoco criterio degli “elementi certi ed inequivoci” rimesso alla valutazione discrezionale del Presidente viene dunque qui ripreso ma nello stesso tempo circoscritto ad una ipotesi ben determinata, e cioè in presenza di una scissione politica che ha dato vita ad un partito o ad un movimento politico formatosi anche dopo le elezioni (da sottintendere ultime elezioni politiche della Camera). Tale scissione deve essere numericamente significativa (almeno sette deputati) rispetto al gruppo parlamentare (il che significa al massimo il 50%) o ad una componente politica (il che potrebbe però costituirne la totalità, essendo come detto la componente politica composta giustappunto da almeno sette deputati). L’aver stabilito una medesima quota numerica (almeno sette deputati) per due realtà che per costituirsi necessitano l’una (il gruppo) di un quorum doppio (quattordici anziché sette) di deputati dell’altra (la componente politica) sembra irragionevole. Tra l’altro non si comprende perché occorra una specificazione simile per gli scissionisti quando già è prevista comunque la possibilità per sette deputati di costituirsi in componente politica autonoma, a meno che la si voglia intendere limitata all’inizio della legislatura, il che invero non traspare dal primo periodo dello stesso art. 14.5 che non introduce alcun limite temporale.
4.d) Infine è ribadita (art. 14.5-bis uguale al precedente art. 14.5, ultimo periodo) la possibilità di costituire un’unica componente politica all’interno del gruppo della Camera da parte di almeno due (anziché, come ora, tre) deputati “appartenenti a minoranze linguistiche tutelate dalla Costituzione e individuate dalla legge, i quali siano stati eletti, sulla base o in collegamento con liste che di esse siano espressione, nelle zone in cui tali minoranze sono tutelate”. Quella numerica, dunque, è l’unica variazione introdotta e costituisce il minimo numerico per costituire una componente politica nel gruppo misto della Camera.
5. Costituzione delle componenti politiche all’interno del Gruppo misto del Senato. Al Senato le componenti politiche del gruppo misto sono state introdotte in virtù del parere “interpretativo” della Giunta per il regolamento dell’11 maggio 2021. Parere che, come già rilevato, di interpretativo non ha nulla giacché quella dell’espressa introduzione nel regolamento di simili componenti è questione che, come ebbe a dire la Presidente del Senato, certo “non [può] ritenersi di mera interpretazione in quanto, con riferimento alla disciplina delle componenti politiche del Gruppo Misto, il Regolamento del Senato presenta una vera e propria vacatio, tanto più se raffrontato con l’analitica disciplina prevista dal Regolamento della Camera dei deputati” (Giunta per il regolamento, seduta del 2 dicembre 2020). Da allora, infatti, si sono formate nel misto, quasi sempre su iniziativa di senatori ex pentastellati, componenti politiche che hanno adottato il simbolo di forze politiche che non hanno ottenuto eletti: il 22 giugno 2021 l’Alternativa c’è – Lista del Popolo per la Costituzione (cessata il 9 novembre); il 20 luglio 2021 Potere al popolo e Italia dei Valori da parte rispettivamente dei sen. Mantero e Lannutti, entrambi fuoriusciti dal M5S; il 14 settembre 2021 Italexit per l’Italia-Partito Valore Umano (quest’ultimo presentatosi alle elezioni); l’11 novembre 2021 Partito comunista (sen. Dessì).
Per formalizzare tale parere e dare compiutezza alla disciplina regolamentare sulle componenti politiche del misto, il testo di riforma propone di precisare che “i Senatori appartenenti al Gruppo misto possono chiedere al Presidente del Senato [anche qui, quindi, non al Consiglio di Presidenza] di costituire componenti politiche” purché costoro “rappresentino un partito o movimento politico, anche risultante dall’aggregazione di più partiti o movimenti politici, che abbia presentato alle ultime elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrassegno, conseguendo l’elezione di Senatori” (art. 14.6). Di fatto, è la stessa ipotesi prevista dalla proposta della Camera, come detto imperniata sulla necessità che si tratti di forza politica che si sia non solo presentata alle ultime elezioni del Senato ma vi abbia anche conseguito l’elezione di Senatori. L’unica differenza, negativa, è la mancanza di un quorum minimo numerico, evidentemente dovuta al numero estremamente ridotto dei futuri senatori, sicché sarebbe possibile anche una componente politica costituita da un singolo senatore (come del resto già accade: v. le componenti politiche di Italia dei Valori e Potere al Popolo). Inoltre, come per i gruppi parlamentari (art. 14.5 su cui v. supra, § 2), così anche per le componenti politiche è prevista la possibilità che il Presidente del Senato consenta “la costituzione di componenti politiche in seno al Gruppo misto, che rappresentino un partito o un movimento politico che nella legislatura abbia presentato alle elezioni politiche, regionali o del Parlamento europeo propri candidati conseguendo l’elezione di propri rappresentanti” (art. 14.6).
Per costituire una componente politica, così come un gruppo parlamentare (v. art. 14.5 su cui v. supra, § 2), in rappresentanza di una forza politica che abbia presentato liste alle elezioni politiche, regionali o europee (e quindi, al limite, non le abbia presentate al Senato), occorre che i componenti trasmettano “al Presidente una dichiarazione di riconoscimento da parte del partito o movimento politico che intendono rappresentare”. Se viene meno tale dichiarazione “il Gruppo è dichiarato sciolto e i Senatori che ne facevano parte, qualora entro tre giorni dalla dichiarazione di scioglimento non aderiscano ad altri Gruppi, vengono iscritti al Gruppo misto” (art. 14.9). Tale previsione si presta a due osservazioni critiche. In primo luogo, la previsione di scioglimento del solo Gruppo parlamentare lascerebbe intendere, di converso, la sopravvivenza della componente politica nonostante il venir meno della dichiarazione di riconoscimento che ne ha determinato la costituzione. In secondo luogo viene formalizzata la possibilità che tale dichiarazione possa essere firmata da un soggetto extraparlamentare detentore del simbolo elettorale presentato in una elezione diversa da quella del Senato che così deterrebbe, come oggi accade alla Camera, il potere di vita e di morte di tale componente politica, indipendentemente dalla volontà dei senatori che ne fanno parte.
6. Clausole c.d. anti-transfughismo. Com’è noto, su iniziativa soprattutto del Partito democratico si vorrebbero introdurre in entrambi i regolamenti clausole che, pur rispettando la libertà di mandato del parlamentare garantita dall’art. 67 Cost., tendessero a penalizzare – anziché come ora, incentivare – la mobilità da un gruppo politico ad un altro, magari appositamente costituito. Mobilità che, com’è altrettanto noto, ha raggiunto nella corrente legislatura notevoli dimensioni sia alla Camera che al Senato. Non essendo ovviamente questa la sede per riprendere le fila di una così ampia e complessa questione, che rimanda alla natura della rappresentanza politica, va solo qui evidenziato come entrambi i progetti di riforma regolamentare affrontino il tema seppur con proposte profondamente diverse.
Alla Camera si punta soprattutto alla decadenza dalla carica di chi sia entrato a far parte di un gruppo diverso da quello d’appartenenza al momento della elezione: vicepresidenti e segretari dell’Ufficio di Presidenza (art. 5.7, che esclude il Presidente della Camera ed i questori), nonché il presidente, i due vicepresidenti e i due segretari di ogni Commissione (art. 20.1). Tale decadenza non opera se il gruppo d’appartenenza abbia deliberato la sua cessazione, sia stato sciolto o si sia fuso con altro gruppo (ma si fa riferimento ad “altri gruppi parlamentari”, quasi che dovessero essere più di uno). Parimenti la decadenza non opera se il titolare della carica abbia costituito in corso di legislatura, con altri deputati tutti provenienti dal suo gruppo, un nuovo gruppo parlamentare ai sensi dell’art. 14.2 R.C. (almeno 14 deputati che rappresentino, in forza di elementi certi ed inequivoci, un partito o un movimento politico organizzato nel Paese anche formatosi successivamente alle elezioni). Infine, causa particolare di decadenza, certo non in funzione di anti-transfughismo, è quella prevista per i componenti dell’Ufficio di Presidenza – Presidente e questore stavolta inclusi – qualora chiamati a far parte del Governo (art. 5.9-bis R.C.).
Anche il progetto di riforma del Senato prevede la decadenza dei “componenti del Consiglio di Presidenza che cessano di far parte del Gruppo al quale appartenevano al momento dell’elezione decadono dall’incarico” (art. 13.1-bis R.S.). Rispetto alla clausola di decadenza prevista dalla Camera, quella del Senato si applica quindi anche ai Questori e al Presidente del Senato con la sola – invero ben limitata eccezione – che egli eserciti le funzioni di supplenza del Capo dello Stato (art. 86.1 Cost.). Un’ipotesi assolutamente inopportuna perché verrebbe ad infrangere la figura, per quanto mitizzata, di imparzialità e di neutralità del Presidente. Inoltre la decadenza interverrebbe per il solo non far più parte del gruppo d’appartenenza al momento dell’elezione, anche se non si sia entrati a far parte di altro gruppo, come invece sarebbe previsto alla Camera. Invece, come per la Camera la decadenza non si applicherebbe “quando la cessazione sia stata deliberata dal Gruppo di provenienza, ovvero in caso di scioglimento o fusione con altri Gruppi parlamentari” (anche qui al plurale).
Analogamente come alla Camera, anche al Senato decadrebbero dall’incarico “i componenti dell’Ufficio di Presidenza” delle Commissioni (art. 27.3-bis) nonché tutti i componenti organi collegiali del Senato (sembrerebbe esclusi quelli di giurisdizione interna: art. 27.3-ter) sempre nel presupposto che essi cessino di far parte del Gruppo al quale appartenevano al momento dell’elezione. Anche in questo caso la decadenza non interverrebbe se il gruppo abbia deliberato la propria cessazione oppure sia stato sciolto o si sia fuso con “altri Gruppi parlamentari” (anche qui al plurale: art. 27.3-bis).
In questo quadro fanno eccezione i membri della Giunta per il regolamento (art. 18.1) e della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari (art. 19.1) del Senato i quali decadono dall’incarico se cessino di far parte del gruppo d’appartenenza al momento dell’elezione, senza eccezione alcuna circa le vicende del gruppo (come detto cessazione, scioglimento o fusione).
Piuttosto, per combattere il transfughismo parlamentare, il Senato, al contrario della Camera, vorrebbe introdurre, sul modello europeo e francese, la figura del “senatore non iscritto” ad alcun gruppo parlamentare, ipotesi finora limitata ai senatori di diritto ed a vita in ragione della loro natura non elettiva (art. 14.1). Infatti, secondo la nuova versione di quest’ultimo articolo sono “considerati non iscritti ad alcun Gruppo parlamentare i senatori che si dimettono dal Gruppo di appartenenza, ivi compreso il Gruppo misto, o ne vengono espulsi, salvo che entro il termine di tre giorni abbiano aderito a un altro Gruppo già costituito, previa [ovvia] autorizzazione del Presidente del Gruppo stesso. Ai senatori non iscritti ad alcun Gruppo sono garantiti idonei tempi di intervento”. Lo status di senatore non iscritto quindi non deriva semplicemente dalle dimissioni dall’originario gruppo d’appartenenza o dall’esservi stato espulso (ipotesi inverosimile se riferita al Gruppo misto cui pure però la disposizione fa riferimento) ma dalla scelta di non aver voluto aderire ad altro gruppo parlamentare nei successivi tre giorni.
Oltre a tale misura, per disincentivare il transfughismo parlamentare entrambe le Camere cercano soprattutto di sterilizzarne gli effetti finanziari sui contributi finora destinati ai gruppi in base alla loro consistenza numerica.
Così alla Camera (art. 15.3-bis) i contributi finanziari destinati annualmente ai Gruppi sarebbero ripartiti dall’Ufficio di Presidenza “per un quarto in misura uguale tra i Gruppi e per la restante parte in misura proporzionale alla consistenza numerica degli stessi all’inizio di ciascuna legislatura”. Tale contribuzione potrebbe variare solo, ovviamente, in caso di cessazione o nuova costituzione di un gruppo oppure, solamente per la parte proporzionale, se il gruppo varia di consistenza numerica “in misura non inferiore ad un terzo”, sia in meno sia in più, ma in quest’ultimo caso solo a seguito della “iscrizione di almeno dieci ulteriori deputati”. A tal fine, per quanto riguarda il Gruppo misto, sono presi in considerazione solo i deputati iscritti ad una componente politica (esclusi quindi quelli non iscritti ad alcuna di esse) perché “il contributo assegnato al Gruppo misto è ripartito tra le componenti politiche in esso costituite in ragione delle esigenze di base comuni e della consistenza numerica di ciascuna componente”. In tal modo, dunque, si intendono sterilizzare entro una certa misura gli effetti finanziari della mobilità parlamentare, fissando una soglia numerica (minimo dieci deputati) al di sotto della quale la contribuzione resta invariata. Inoltre si penalizzano i singoli deputati destinati al gruppo misto che non hanno i requisiti numerici e politici per costituirvi una componente politica.
Analoga soluzione si ipotizza al Senato dove (art. 16.1, nuovo terzo periodo) ancor più drasticamente sarebbe previsto che “le variazioni nella consistenza numerica dei Gruppi parlamentari, derivanti dall’adesione di senatori provenienti da altri Gruppi o precedentemente non iscritti, non determinano rimodulazioni nell’importo del contributo di cui al primo periodo”. Piuttosto l’importo di tali contributi sarebbe “soggetto a rimodulazione nel solo caso di riduzione della consistenza numerica del Gruppo”. Di fatto quindi i contributi potrebbero solo essere diminuiti anziché aumentati.
7. Brevi considerazioni finali. Le proposte qui commentate costituiscono solo il testo base di un processo di riforma che si preannuncia lungo e complesso, in riferimento anche al necessario adeguamento della composizione numerica degli organi collegiali e dei quorum procedurali e, soprattutto, della necessaria riduzione del numero delle commissioni parlamentari, con conseguente ridefinizione delle loro competenze, in vista delle quali significativamente la Camera ha deciso di soprassedere in attesa di coordinarsi con il Senato al fine di armonizzare le reciproche discipline (a tal fine ci sarà un inedito incontro tra i due Presidenti e i relatori delle rispettive Giunte).
La sintetica panoramica che si è voluta compiere ha l’unico scopo di evidenziare sin da subito i pregi, ma anche i motivi di perplessità ed i difetti, di una riforma regolamentare sulla costituzione dei gruppi politici (includendo in tale espressione gruppi parlamentari e componenti politiche del misto) che potrebbe essere formulata in termini più precisi e talora stringenti per rimediare a prassi applicative distorsive, come accaduto al Senato con la riforma del 2017. Prassi certo espressione della dinamicità del quadro politico – in certa misura incomprimibile – ma che hanno finito per contraddirne la ratio, che vuole i gruppi politici in primo luogo corrispondenti alle forze che si sono presentate alle elezioni e che vi hanno ottenuto il consenso degli elettori, anziché espressione delle volubili e talora poco trasparenti volontà degli eletti.
L'immagine è di Bruno Donzelli (1941) - ArsValue.com
Il divieto di mandato imperativo – art. 67 Cost. “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato” – significa che il parlamentare che abbandona il partito che lo ha fatto eleggere non perde il seggio conquistato: questo è quanto ha detto la Corte costituzionale. Ma non significa affatto che egli, restando in carica, possa dar vita ad un’autonoma formazione politico-parlamentare. Andrebbe preso in considerazione non solo l’interesse del parlamentare transfuga, ma anche quello degli elettori: se io elettore, che ho votato un parlamentare perché rappresenta il partito che prescelgo (e che talvolta mi impone di votarlo, per es. nel seggio maggioritario), posso pretendere che lui continui a rappresentare in Parlamento quel partito e non vada altrove, aderendo a gruppi diversi o inventandosi un gruppo su misura? L’art. 67 non lo lega ad un “mandato” (figura giuridica precisa che si innesta sulla rappresentanza) ma non significa affatto che una volta eletto il “mio” rappresentante sia del tutto libero di fare quello che vuole e che l’ordinamento della Camera a cui appartiene lo agevoli a formare gruppi o componenti diversi e concorrenti rispetto al partito che ho votato. Ha uno scrupolo di coscienza che gli impedisce di restare ne gruppo politico che rappresenta il risultato del mio voto? Bene, si dimetta dalla carica: questa sarebbe la risposta moralmente e politicamente coerente. Lo tutela l’art. 67? E’ l’interpretazione autorevole, che però non mi ha mai persuaso. E il mio voto chi lo tutela allora? Quantomeno vi siano congegni dissuasori nei regolamenti, non agevolazioni evidenti. Che resti in carica senza un gruppo, come in Francia, mi va bene. Che passi ad un altro gruppo non mi sembra moralmente lecito, rispettoso della volontà dei “suoi” elettori. Ciò almeno sin quando il sistema elettorale non sia un maggioritario uninominale in cui il candidato conquista il “suo” seggio, non il seggio che gli è gentilmente offerto dal partito.
Non commento l’analisi minuziosa del prof . Curreri che dal mio punto di vista mette utilmente in evidenza l’assurda complessità della regolazione (esistente e progettata) dei gruppi parlamentari che, a parte poche garanzie previste dalla Costituzione, è di competenza delle assemblee, “interna corporis”, e da modificare come tali. Rispondo invece alla presa di posizione più teorica e per questo più importante del prof. Bin per esprimere la mia opinione (ragionata, studiata) diametralmente opposta. L’articolo 67 garantisce il libero mandato (individuale) del parlamentare eletto individualmente, anche se le liste bloccate hanno da tempo tolto il potere di scelta (individuale e diretta) agli elettori, a cui appartiene in base ai principi della democrazia rappresentativa (art. 1, 48, 56, 58), per trasferirlo, non ai partiti, ma a poteri di fatto esterni al processo elettorale e non sottoposti ad obblighi di democrazia propria, in concreto a coloro che comandano di fatto nei partiti. Il prof. Bin intende vincolare il mandato parlamentare, cioè assoggettare le scelte dei legislatori a un potere diverso, non ben determinato, il gruppo di appartenenza 1. elettorale (la lista), 2. pre- e extra-elettorale (il partito) e/o 3. post-elettorale (il gruppo parlamentare, regolato dalle disposizioni sulle cosiddette sigle elettorali, cioè dalle liste). Per giustificare le restrizioni al libero mandato il prof Bin invoca, per assurdo, la tutela dei diritti dell’elettore. È un puro sofisma. Spero che ci siano studiosi lucidi che si rendono conto delle contraddizioni di queste argomentazioni (al plurale, perché da 25 anni sempre più diffuse). Al meglio se si trova all’inizio di un regresso all’infinito: non essendo in grado di assicurare direttamente condizioni di elezione democratica dei rappresentanti si rinvia alla loro selezione democratica (interna ai partiti), che anche se esistesse (quod non!) replicherebbe le stesse difficoltà del primo livello (democrazia parlamentare) per le quali la soluzione è stata rinviata al secondo livello (democrazia interna). Tutta questa confusione e violazione dei principi di democrazia rappresentativa (fondata sul libero mandato elettorale!) riflette la confusione e violazione dei principi elementari che da 25 anni caratterizza la legislazione, giurisprudenza e dottrina elettorale, una confusione culminata nelle due sentenze della Corte costituzionale 1/2914 e 35/2017 spiegate da una babele di glosse non sempre più comprensibili dell’oracolo stesso. Non se ne viene più fuori, a meno o di accontentarsi (di soluzioni superficiali e incoerenti che portano a problemi sempre più irrisolvibili, lo status quo) o di tornare ai fondamenti. La soluzione si trova in una corretta articolazione fra principio di maggioranza e equa rappresentanza, fra elezione individuale dei candidati e rappresentazione proporzionale degli schieramenti. Ma non interessa più nessuno.