Presidenzialismo? Quello delle regioni ha creato monarchie assolute e svuotato le assemblee legislative

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di Ivo Rossi

Presidenzialismo è diventata parola chiave dell’attuale stagione politica, indicata quale formula salvifica dei problemi italiani. Alcune volte viene richiamata quale strumento per eliminare l’instabilità dei governi, altre per affidare ai cittadini la decisione della scelta di chi governa, a partire dal presidente designato. Quale Presidente? Quello della Repubblica originariamente, ipotesi che nonostante fosse contenuta nel programma elettorale della coalizione destra-centro sembra aver lasciato il posto alla variante Presidente del Consiglio (per fortuna considerata la funzione di garanzia del Quirinale), anche se non può escludersi l’introduzione del premierato unito all’introduzione della sfiducia costruttiva. Non tutte le formule portano allo stesso esito e incrociano in modo diverso le grandi questioni delle garanzie e degli equilibri che reggono le nostre democrazie. Per alcuni si tratterebbe di eleggere il ‘sindaco d’Italia’, richiamandosi disinvoltamente alla norma sull’elezione diretta dei sindaci, mentre per il ministro Calderoli si tratterebbe invece, forzando il modello regionale, di eleggere il ‘governatore’ d’Italia.

E se una qualche instabilità le amministrazioni comunali avevano conosciuto, in particolare a partire dagli anni ’70, alla esigenza di stabilità difficilmente ci si poteva richiamare per le regioni, che nei precedenti trent’anni avevano dimostrato invece una notevole stabilità e rappresentatività. Se guardiamo al Veneto, si passa senza soluzione di continuità dalla stagione della presidenza Tomelleri a quella di Bernini e a quella Galan, con l’intermezzo straordinariamente confuso della stagione di tangentopoli.

L’elezione diretta dei presidenti delle regioni, enti di legislazione e non di sola amministrazione, ha dunque confermato la stabilità precedente degli esecutivi, introducendo però un vulnus significativo: lo svuotamento e la scomparsa pressoché generalizzata delle assemblee legislative, le uniche ancora elette con voto di preferenza a dispetto delle liste bloccate per il Parlamento. L’effetto, amplificato dalla comunicazione diretta attraverso i social media, e privata dalla mediazione giornalistica, ha generato delle monarchie assolute, anche a vita, come ha sostenuto recentemente Salvini riferendosi  all’ipotesi di quarto mandato del presidente veneto. Monarchie che hanno generato il venir meno della dialettica politica e la marginalizzazione delle minoranze e degli stessi consiglieri di maggioranza, ridotti a yes men di Presidenti sempre più onnipotenti influencer.

Qualcuno potrebbe obiettare che l’esito di questa personalizzazione delle istituzioni risponde alla volontà popolare, all’esercizio di quel popolo sovrano che nella stagione dell’apparente instabilità precedente affollava le urne con una partecipazione di assoluto rilievo (cambiavano i governi ma la DC rimaneva perno del sistema), mentre nella stagione dei plebisciti presidenziali la partecipazione democratica è precipitata. Invece il 37,20% registrato alle elezioni del Lazio e il 41,6% della partecipazione elettorale registrati in Lombardia, sono indicatori del crollo di fiducia dei cittadini verso le istituzioni, sfiducia che l’elezione diretta più che sanare sembra allargare, se non produrre. Con il paradosso che l’istituzione più vicina al popolo rispetto a quella nazionale, è diventata quella dotata di minor consenso, con poco più del 20/25% dell’elettorato che elegge il presidente. In certi casi un discorso analogo vale anche per i sindaci. Decisamente troppo poco per un sistema democratico. E se le regioni sono state immaginate per aumentare la partecipazione democratica, questa spoliazione, con la scomparsa della dialettica democratica, segnala questioni che non possono essere affrontate con un’alzata di spalle o con formule riprese dagli anni ’80 del novecento.

Si tratta di grandi questioni riguardanti lo stato della nostra democrazia, sia sul versante del necessario bilanciamento dei poteri a livello nazionale in cui, accanto alla stabilità dei governi, venga garantita la funzione parlamentare, sia sul versante delle regioni, che proprio per il loro essere enti di legislazione non possono a lungo sopportare l’annullamento della funzione legislativa assieme all’ininfluenza dell’organo rappresentativo. Avviare, in parallelo alla discussione nazionale, una riforma degli istituti regionali a 23 anni dall’introduzione del presidenzialismo che rafforzi il ruolo dei consigli regionali, anche introducendo una nuova legge elettorale e la sfiducia costruttiva nei confronti dell’esecutivo e affiancandolo con un rafforzamento del Consiglio delle autonomie locali, oggi ridotto a finzione coreografica, appare sempre più necessario.

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1 commento su “Presidenzialismo? Quello delle regioni ha creato monarchie assolute e svuotato le assemblee legislative”

  1. Ottimo articolo! Ricordiamo però che il sistema sindaco d’Italia era già il modello della riforma costituzionale promossa dal PD di Renzi & Boschi e di cui la legge elettorale “Italicum” era un elemento fondamentale (contrariamente alle rassicurazioni ipocrite di Renzi e dei numerosi fautori della riforma). Attraverso forzature non sanzionate della legge elettorale (quali il premio di maggioranza allora, i collegi uninominali legati alle liste proporzionali oggi e le liste bloccate) si intendeva e/o si intende tutt’ora rinforzare (indirettamente e in modo improprio) il governo e deresponsabilizzare il rappresentanti (svuotando il libero mandato attraverso le liste bloccate). Nelle sentenze 1/2014 e 35/2017 la Corte costituzionale non ha compreso, analizzato e censurato questi vizi devastanti nemmeno tanto occulti, che sono ormai una costante della normativa elettorale italiana, almeno dal 2005, se no dal 1994 (introduzione delle liste bloccate per 1/4 degli eletti). La Corte permissiva e i costituzionalisti appiattì sulla dottrina positiva sono, a mio parere, i principali colpevoli della degenerazione degli ultimi decenni.

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