Oggi non possiamo sapere se e quando il disegno di legge di riforma costituzionale che va sotto il nome di premierato elettivo andrà in porto. Oggi sappiamo – non è passato nemmeno un mese dalla sua presentazione – che non gode di buona stampa. Gli aggettivi denigratori si sprecano. Confuso, contraddittorio, torbido, pericoloso, autoritario, eversivo e decine altri, anch’essi assai poco lusinghieri. Se non è un record, poco ci manca.
In un articoletto di qualche tempo fa dicevo: si scrive premierato elettivo, si legge premierato infantile. Un aggettivo, infantile, che condensa tutti gli altri. Un aggettivo che, contro le apparenze, prende sul serio, molto sul serio, la proposta di riforma. Per questa ragione a questa breve premessa seguono sette pensieri. E, infine, una raccomandazione rivolta, innanzitutto, a me stesso.
Primo pensiero. Premierato infantile non significa che possiamo dormire sonni tranquilli. Il premierato elettivo è la peggiore forma di presidenzialismo ipotizzabile, prova ne sia che non esiste in nessuna parte del mondo “conosciuto”.
Israele la introduce nel 1996 ma l’abbandona già nel 2001. Perché? Perché non funzionava. Dopo cinque anni e tre elezioni aveva prodotto una frammentazione partitica e una instabilità politica ancora maggiori. Nessun governo “premierale” che riuscisse a portare a termine la legislatura. Un disastro, tant’è che in nessuna delle nuove costituzioni approvate e riformate per il mondo negli ultimi 20 anni si è tentato di riproporre un sistema simile.
Si obietta. Il premierato elettivo è già il modello che regge i comuni e le regioni italiane. Obiezione impropria. In nessuna parte del mondo – ha osservato Roberto Bin – è un metodo prescelto per governare uno Stato. Perché, dunque, copiarlo per la Repubblica italiana? La ragione per i fautori della formula “Sindaco d’Italia” è da ricercare nelle presunte qualità magiche della clausola “insieme staranno oppure insieme cadranno” (simul stabunt vel simul cadent) che tiene compatta la maggioranza con il ricatto dello scioglimento anticipato. Ma davvero questa formula consentirà al premier eletto di governare con una compagine governativa compatta? Non stimolerà, viceversa, la concorrenza tra potenziali leader a coagulare attorno a sé nuove confraternite? Chi terrà le forze politiche compatte e “fedeli” alla femme du peuple?
Secondo pensiero. Le forme di governo coerentemente presidenziali possono piacere o non piacere. Coloro ai quali non piacciono sottolineano che esse si sono storicamente dimostrate difficilmente esportabili al di fuori delle loro patrie di origine e che oggi non godono nemmeno lì di buona salute. E che, in ogni caso, se si vuole che funzionino, devono essere una cosa seria.
Presidenzialismo significa attribuzione di forti poteri di governo al Capo dello Stato. Ripeto: al Capo dello Stato. Questa attribuzione di potere può essere massima, è il caso della repubblica presidenziale statunitense. Oppure minore, o comunque non ‘permanente’, è il caso della repubblica semipresidenziale francese. E, tuttavia, nel caso in cui sia massima, come nel presidenzialismo statunitense, è necessario che vengano preservati due capisaldi del costituzionalismo moderno: il principio democratico e il principio garantista.
Traduco. “Doppia legittimità democratica” del Presidente e del Parlamento, frutto di due elezioni distinte. Rigida separazione tra potere presidenziale e potere parlamentare. Il che non accade compiutamente nel semipresidenzialismo francese – forma di governo in parte presidenziale in parte parlamentare – ove comunque vige la regola della distinta derivazione e legittimazione popolare di Presidente e Parlamento.
Terzo pensiero. Il meloniano premierato elettivo è lontano anni luce dal fornire le garanzie delle pur problematiche esperienze statunitensi e francese. Il meloniano premierato elettivo è una forma degenerata di presidenzialismo. È un governo del capo. Un Capo senza Costituzione, frutto di una cultura che non conosce la differenza tra governare e comandare.
Nelle democrazie parlamentari, quando c’è una crisi politica, si torna in Parlamento, magari facendo ricorso all’istituto della sfiducia costruttiva. Mentre, ripeto, nella democrazia presidenziale americana il popolo elegge separatamente il Capo dello Stato/Capo dell’esecutivo e il Parlamento. Il primo non può essere sfiduciato, il secondo non può essere sciolto anticipatamente.
Quarto pensiero. La ‘terza via’ meloniana ignora come funziona l’orologio della democrazia. La sua brama di comando, Signora Meloni, è senza forma e senza limiti.
Ignora le virtù di pesi e contrappesi diretti a evitare che il potere politico sia concentrato in una sola persona, in una persona che decide per tutti. Un rischio mortale. Rischio che le forme non degenerate di governo parlamentare, presidenziale, semipresidenziale hanno ben presente nel momento in cui si guardano bene dall’esautorare il ruolo del Parlamento.
A garanzia delle opposizioni, il sale della democrazia. A garanzia del pluralismo, il sale della libertà politica. A garanzia della sovranità popolare, fonte permanente di legittimazione del potere, come è limpidamente scritto nel fondamentalissimo articolo 1 della Carta degli italiani. L’Italia è una Repubblica democratica, la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione.
Quinto pensiero. Il suo, Signora Meloni, è un presidenzialismo sconcertantemente immaturo, quanto mai lontano dal risolvere il problema della governabilità, da Lei solo retoricamente invocato.
L’infantilismo del suo progetto è reo confesso. Le sue norme antiribaltone non anti-ribaltano un bel niente. Ipotizzano che il Capo di un Governo morente non possa mai essere sostituito, se non da un parente, da uno di famiglia. A fronte del fallimento di un governo, delle sue politiche, il suo disegno di legge prevede – leggo testualmente – l’assunzione della carica di Premier nelle mani di «un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto» e al quale spetterebbe da quel momento il compito di operare in sua vece «per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia». Accanimento terapeutico, altro che governabilità.
Sesto pensiero. Il significato delle sue pseudo-disposizioni – che voglia Dio mai saremo chiamati ad applicare – è palese. Rancore e paura. L’opposizione è niente, il gioco dei ribaltoni all’interno della maggioranza è tutto.
Nelle scommesse alle corse dei cavalli si chiama accoppiata. Punto su Meloni vincente e Salvini secondo, ma per incassare la vincita va bene anche Salvini vincente e Meloni seconda. Niente governi tecnici, per carità. Ma il trasformismo no, va bene. Sbrighiamo tutto tra noi. Non siamo, d’altronde, quelli di «Dio, patria e, soprattutto, famiglia»?
La madre di tutte le riforme nasce vecchia, basta leggere un qualsivoglia enciclopedia: «Trasformismo. Prassi di governo fondata sulla ricerca di una maggioranza mediante accordi e concessioni a gruppi politici eterogenei allo scopo di impedire il formarsi di una vera opposizione come quella inaugurata da Agostino Depretis negli anni successivi al 1880».
Sono stato ingeneroso. la Signora Meloni, più che di Agostino Depretis, è una fan della Legge 18 novembre 1923, n. 2444., quella Legge Acerbo che attribuiva due terzi dei seggi alla lista vincente. La Signora Meloni si accontenta, è scritto nel riformato articolo 92, del 55 per cento dei seggi. Ma almeno quella sciagurata legge voluta da Mussolini prevedeva che il premio di maggioranza fosse attribuito alla lista che avesse superato il 25 per cento dei voti.
Su questo punto – sul raggiungimento di una soglia di voti del primo arrivato alle elezioni – il disegno di legge che costituzionalizza il premio di maggioranza ambiguamente tace. Nella speranza di sfuggire alle censure della Corte costituzionale sulla palese incompatibilità del disegno di legge con i supremi principi di eguaglianza del voto, di pluralismo politico, di tutela delle minoranze. Furbizie infantili, di corto respiro.
Settimo pensiero. Sostiene il Presidente del Consiglio, ormai smentito anche da esponenti della sua maggioranza, che tutti questi pensieri sono frutto di un processo alle intenzioni. Ad esempio, non sarebbe vero che vengono toccati poteri e funzioni del massimo garante dell’unità nazionale, del Presidente della Repubblica. No, Signora Meloni, il suo premierato infantile fa di peggio.
Il Presidente della Repubblica è messo in cantina e non tra i vini pregiati. Un passacarte. «Conferisce al Presidente del Consiglio dei ministri eletto l’incarico di formare il Governo», recita il terzo comma dell’art. 92. Ma, si obietterà, Giorgia Meloni è una signora di mondo, declinerà il verbo conferire nell’elegante significato che ne danno i dizionari della lingua italiana: «Conferire con qualcuno, intrattenersi a parlare, avere un colloquio su cose importanti».
Il cerimoniale è salvo. Forse. La Repubblica no. Al suo posto non una terza repubblica ma una repubblica con la p minuscola, nelle mani del Capo di turno di una maggioranza elettorale, quasi certamente una minoranza del Paese. Chi vince alle corse dei cavalli prende tutto: le cariche di Capo dello Stato, di giudice della Corte costituzionale, di componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Roba da “Grande Fratello”.
Conclusioni. Bastano questi argomenti, questi sette pensieri, per vincere la battaglia parlamentare e, soprattutto, la battaglia nel Paese?
Basterebbero se l’infantilismo del premierato elettivo fosse semplicemente opera della mente del Presidente del Consiglio. Sappiamo che non è così. La Signora Meloni è semplicemente un agente, l’ultimo, di una infantilizzazione della politica, di una esasperata personalizzazione del potere che è stata negli ultimi decenni legittimata e alimentata anche a sinistra. Al contrario, di quanto era accaduto nel secondo dopoguerra, quando lo sviluppo del processo di democratizzazione – estensione del suffragio universale e partecipazione alla vita politica tramite i partiti di massa – aveva progressivamente contribuito ad una adultizzazione del popolo.
Qualcosa è andato storto. Più di qualcosa. Il processo di infantilizzazione non risparmia nessuna società occidentale. E, in una sorta di circolo vizioso, alimenta sotterraneamente la domanda popolare di agitatori di folle in grado di blandirle e rassicurarle con la promessa di renderle spettatrici dello spettacolo della società dell’informazione e della società digitalizzata.
A noi donne e uomini di buona volontà tocca oggi superare, mettere politicamente in forma, il momento plebiscitario, dargli uno sbocco progressivo. Se non vogliamo che lo facciano altri, nuovi agitatori di folle interessati alla loro acclamazione. In questo senso, come annunciavo all’inizio, queste mie considerazioni finali sono più una raccomandazione che delle conclusioni. Una raccomandazione a non sottovalutare l’argomento emotivo, presente in larga parte della popolazione, che l’“acclamazione plebiscitaria” del capo incarni compiutamente il principio democratico della sovranità popolare.
«Non c’è motivo per scoraggiarsi – osservava a suo tempo con compiacimento Friedrich Nietzsche – la manipolabilità degli uomini è diventata molto grande in questa democratica Europa … Chi è in grado di comandare trova coloro che devono obbedire». Non sarà, aggiungo io, come in passato, un capo militare o un duce, ma non per questo sarà meno inquietante.
La responsabilità che abbiamo è grande. L’associazionismo civico e politico, i sindacati, hanno ancora le antenne giuste per entrare in connessione emotiva con i sentimenti e con le paure che alimentano la morbosa domanda di personalizzazione e semplificazione del rapporto tra governati e governanti. Rimuoviamo rapidamente la ruggine che ricopre queste preziose antenne. Non c’è Res publica fondata sul lavoro, sull’eguaglianza e sulla giustizia, senza Res publica democratica. Senza il potere costituente del popolo.
Sono perfettamente d’accordo, come un po’ tutti, immagino.
Escluso il titolo. Dopo il “primo premierato” a premio di maggioranza, sicuro la sera delle elezioni, perché indicato sulla scheda elettorale, dove non si potevano però esprimere preferenze per i candidati alla Camera, siamo passati prima al “premierato Sindaco d’Italia”, sempre portato da una maggioranza artefatta da Italicum, con liste bloccate, cioè deputati nominati (concetto usato da Augusto Barbera per la sua critica del Porcellum, prima che assolvesse l’Italicum dello stesso vizio e fosse quindi nominato giudice costituzionale). Ora siamo ad un terzo premierato che invece di infantile chiamerei “da scuola alberghiera”.