Sugli obiettivi della riforma costituzionale proposta: imprimatur diretto e egemonia del Governo

Print Friendly, PDF & Email

di Marco Ladu

Ogni tentativo di riforma costituzionale nel nostro Paese deve essere affrontato, a mio avviso, partendo dal presupposto che gli interessi delle forze politiche di maggioranza – oggi tesi, tra le altre cose, a modificare l’assetto della forma di governo vigente – spesso e volentieri non coincidono affatto con i desiderata dei costituzionalisti. Questi ultimi, infatti, per una fisiologica inclinazione intrinseca all’esercizio del proprio mestiere, cedono al fascino della dissertazione scientifica, speculando e astraendo le più disparate questioni giuridiche, talvolta però trascurando o relegando ad un secondo piano (che reputano debba interessarli fino ad un certo punto) la drammatica semplificazione che caratterizza il terreno della politica nonché la circostanza che proprio la politica, lato sensu considerata, è capace di maneggiare lo strumento della revisione costituzionale in un’ottica meramente strumentale.

Credo, infatti, che la proposta di revisione costituzionale promossa dal Governo Meloni in carica abbia ben poco a che fare con l’esigenza di migliorare e correggere o, perché no, persino superare alcune criticità legate al “rendimento” della forma di governo italiana.

Prima di motivare questa mia affermazione, tuttavia, ricordo in estrema sintesi che la proposta in questione mira oggi all’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri in concomitanza (e persino, possiamo immaginare, con un un’unica scheda) con l’elezione dei due rami del Parlamento, Camera e Senato, inserendo in Costituzione la garanzia del 55% dei seggi, in ciascuna Camera, alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio. Inoltre, il disegno di legge costituzionale punta sì a mantenere la fiducia iniziale, che il Parlamento deve concedere al Governo guidato dal Presidente eletto, ma ancorandola al programma politico che l’Esecutivo intende realizzare. Se la fiducia iniziale dovesse essere negata, infatti, il Presidente della Repubblica potrà concedere al Presidente del Consiglio eletto una seconda chance che, se a sua volta non produrrà gli esisti auspicati, porterà allo scioglimento anticipato delle Camere e, quindi, a nuove elezioni.

Ora, sono molteplici le obiezioni di ordine costituzionale, e quindi legate alla correttezza giuridico-formale dell’impostazione della proposta di riforma, che si possono muovere. Qui mi limito a sottolineare quattro punti, a cavallo tra il tecnico e, perché no, il politico.

Punto primo: la riforma vuole essere “puntuale” e limitata a pochissime previsioni anzitutto per evitare l’errore commesso nel 2006 da Berlusconi e nel 2016 da Matteo Renzi, i quali avevano infatti messo in campo “grandi riforme” ritenute troppo pervasive e bocciate dal corpo elettorale; perciò, la Presidente Giorgia Meloni vuole apparire “sobria” ed “essenziale”, così da assecondare l’opinione di molti studiosi e rassicurando il corpo elettorale. Banale senz’altro, ma a mio avviso sempre utile, ricordare che non è la quantità a fare la differenza, bensì la qualità di quel che si propone e che anche piccole modifiche alla Carta fondamentale sono in grado di produrre effetti persino deleteri.

Punto secondo: vi sarebbe molto da dire sull’inserimento in Costituzione, de facto, del premio di maggioranza, che è già stato sanzionato dalla Corte costituzionale italiana nel 2014, in relazione al c.d. Porcellum, e nel 2017, in relazione al c.d. Italicum renziano. Qui è evidente che, ella logica dell’attuale Governo, poco importa tentare di recuperare l’interesse dei cittadini-elettori alla vita politica, per riavvicinarli alle istituzioni democratiche, perché, quel che conta, è avere una maggioranza stabile in Parlamento (problema affrontato, proprio in questa sede, da Roberto Bin). Ed è su tale maggioranza, sicura e rigidamente ancorata all’arco della legislatura, che le forze politiche vittoriose vogliono contare per agire indisturbate ed evitare di ritornare alle urne (il che si traduce nel dover fare i conti con l’imprevedibilità del corpo elettorale).

Punto terzo: sempre in relazione al sistema elettorale, fa quasi sorridere il “contentino” che il Governo intende dare alla Corte costituzionale, inserendo nel testo il rispetto dei principi di “governabilità” e “rappresentatività” del sistema elettorale. Una previsione questa che da sola non significa nulla perché è quel che si direbbe “aria fritta” (e, si sa, tra il dire e il fare…).

Punto quarto: non è dato sapere perché il Presidente del Consiglio eletto (che, astutamente, non si vuole chiamare Primo Ministro) debba ottenere la fiducia delle Camere se pienamente legittimato dalla votazione popolare; bene il voto sul programma, forse per formalizzare gli impegni assunti con il corpo elettorale, ma non condivido il fatto che si debba proseguire sulla via del voto di fiducia conferito dal Parlamento. Al pari, non è dato sapere come mai la riforma Meloni rinunci a ritoccare il bicameralismo paritario.

E, proseguendo sul tema, non mi è chiaro come mai la Presidente Meloni, con al seguito il Governo da lei guidato, non intenda “ritoccare” l’istituto della mozione di sfiducia, come in una precedente proposta del 2018 da lei stessa sottoscritta, introducendo il meccanismo di quella costruttiva.

Ancora, ed è qui che si innesta un punto che mi preme particolarmente, con l’attuale proposta di riforma Giorgia Meloni rinuncia a uno dei suoi cavalli di battaglia: l’elezione diretta del Presidente della Repubblica.

A mio avviso, una possibile risposta a tutto ciò può essere formulata sul postulato della drammatica semplificazione della politica alla quale ho fatto inizialmente riferimento. Difatti, quando il partito di Fratelli d’Italia si trovava all’opposizione (il riferimento è quantomeno alla scorsa XVIII legislatura), man mano vedeva accrescere il suo consenso, la preoccupazione di Giorgia Meloni non poteva che essere rivolta ad un ipotetico “ingombro” del Capo dello Stato, da tempo espressione della maggioranza di centrosinistra. Se si considerano le Presidenze Napolitano e Mattarella, infatti, la destra non ha mai nascosto il “fastidio” per l’interventismo presidenziale e non ha mancato di denunciare la faziosità di molte scelte compiute dal Quirinale, specie in occasione della gestione delle crisi di Governo, asserendo un vero e proprio disallineamento tra volontà del corpo elettorale e designazione del Capo dello Stato (in soldoni: se il popolo vota a destra perché il Presidente della Repubblica continua ad essere quello individuato dal centrosinistra?). Con questo spirito, il partito guidato da Giorgia Meloni si è sottratto dal Governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi e tanto incoraggiato dal Presidente Mattarella, in attesa di incassare il successo elettorale che si intravedeva dai sondaggi.

Dopo l’esito delle elezioni politiche del 25 settembre 2022, mi pare di poterlo ipotizzare, si assiste ad un cambio di rotta nel “sentire” di Giorgia Meloni e della stessa coalizione della destra (di centro-destra è rimasto veramente ben poco). Il tema è quello della legittimazione dell’azione politica della maggioranza e del suo Esecutivo. Giorgia Meloni, infatti, dubito fortemente che si senta oggi poco legittimata dal corpo elettorale, anzi, direi tutt’altro! A partire dal conferimento dell’incarico di formare il nuovo Governo, che la Meloni ha accettato senza riserva, nei mesi successivi ha intrapreso la propria azione politica nel fragoroso silenzio del Presidente Mattarella.

Credo, dunque, che il susseguirsi degli eventi abbia dimostrato che l’elezione diretta del Capo dello Stato non è più una priorità per Giorgia Meloni e le forze ad essa alleate. Che sia soltanto astutamente rinviato? Che si intenda procedere per gradi modificando qui e là il Dettato costituzionale, ma non in un colpo solo?

Quel che mi spaventa, alla luce di quanto ricordato, è l’ostinazione nel voler a tutti i costi proporre una riforma costituzionale. Sembra quasi che un partito politico privo di una radicale proposta di revisione della forma di governo italiana non abbia un’agenda (così viene definita) e un programma politico validi. Senza di essa manca qualcosa. Ed è così che anche il Governo Meloni propone la sua “formula” alla ricerca esclusiva di una legittimazione diretta del Presidente del Consiglio della quale non vi è affatto bisogno. Può forse dirsi che Giorgia Meloni non sia stata voluta dagli elettori? Il nostro sistema elettorale ha fatto di tutto, e ci è riuscito, per agganciare all’esito delle elezioni anche l’individuazione indiretta del vertice del Governo. Nonostante non vi siano stati dubbi sull’incarico conferito a Giorgia Meloni si cerca comunque un imprimatur diretto del Popolo per poter finalmente sostenere che il Governo agisce sotto l’egida di un Presidente del Consiglio “scelto dagli italiani”.

Se si guarda bene, almeno negli ultimi quarant’anni, di riforme costituzionali ne sono state avanzate parecchie, con soluzioni talvolta ibride e contaminate da variegate interpretazioni del funzionamento della forma di governo francese e di quella tedesca. In questo lungo arco di tempo, però, in assenza di un’esplicita modificazione costituzionale, il Governo – ed è ahimè cosa nota (sic!) – ha visto crescere a dismisura i suoi poteri e si è riposizionato nell’assetto degli organi costituzionali. Il Governo, va detto e ribadito, oggi è incontrastato su tutto: detiene la quasi totalità delle proposte di iniziativa legislativa del nostro Stato; si impone nella legislazione con l’abuso dei decreti-legge e ponendo la questione di fiducia in sede di conversione degli stessi; riesce, in barba alle procedure parlamentari e sopprimendo qualsiasi ragionevole termine, a escludere una Camera (ad anni alterni) dall’approvazione delle leggi di bilancio; abusa della questione di fiducia, spesso posta su un unico maxi-emendamento. Insomma, non si capisce perché, allo stato attuale delle cose, si continui a pensare che nel nostro Paese il Governo sia “debole” e si voglia a tutti costi cercare di “stabilizzare”, una volta per tutte, un organo che è al di sopra di tutti gli altri a partire dal Parlamento, che conta ben poco. Personalmente, non penso sia il caso di concorrere a determinare l’elezione diretta del Presidente del Consiglio in questo contesto istituzionale né che sia opportuno assecondare l’idea di una necessaria stabilizzazione di un Governo così forte. A questo punto, direi piuttosto: in presenza di una tale egemonia del Governo, è un bene che non siano molti a restare in carica a lungo!

Ritengo che quel che serve, in via prioritaria, è riprendere la funzione del Parlamento e la sua centralità, limitando al contempo gli abusi e i poteri pressocché sconfinati del Governo. Fatto questo, ci si potrà chiedere se abbia senso introdurre un Senato effettivamente rappresentativo delle Regioni, se abbia un senso differenziare l’autonomia regionale (senza sopprimere i diritti dei cittadini e senza creare uno squilibro nell’accesso ai servizi a livello territoriale) e se abbia senso modificare tanto altro ancora, anche a partire dalle prerogative del Capo dello Stato e del Presidente del Consiglio dei Ministri. Fino a quando, però, il Governo non tornerà al suo posto, ritengo molto pericoloso assecondare l’idea che il Presidente del Consiglio oggi debba essere eletto dal Popolo perché questa dinamica richiama alla mente una certa ricerca di legittimazione dell’uomo solo al comando, circondato solo da pochi fedelissimi, che tutto può rispetto al suo partito, rispetto al Parlamento e, purtroppo, anche rispetto alle istituzioni di garanzia. Il nostro Paese, vista la sua storia, deve fare molta attenzione a cedere al fascino del “capo”.

Please follow and like us:
Pin Share
Condividi!

2 commenti su “Sugli obiettivi della riforma costituzionale proposta: imprimatur diretto e egemonia del Governo”

  1. Condividendo appieno il giudizio di merito dell’autore mi piace sottolineare un aspetto del metodo, du approccio dell’analisi:

    Nella consapevolezza della complessità di tutti i sistemi costituzionali, dove come nel corpo umano le funzionalità sono interconnesse e l’intervento su una incide su tante altre, penso anch’io che serva soprattutto semplicità, chiarezza, distinzione fra l’essenziale e il contorno:

    “[I costituzionalisti], infatti, per una fisiologica inclinazione intrinseca all’esercizio del proprio mestiere, cedono al fascino della dissertazione scientifica, speculando e astraendo le più disparate questioni giuridiche, talvolta però trascurando o relegando ad un secondo piano (che reputano debba interessarli fino ad un certo punto) la drammatica semplificazione che caratterizza il terreno della politica.”

    La semplificazione politica è inevitabile, e non è necessariamente negativa; presuppone però, a monte, un’analisi seria che individua e evidenzia quello che (in quelle circostanze) veramente conta.

    Marco Ladu insiste sulle gravi incoerenze non solo del “progetto di revisione Meloni” ma anche degli argomenti per sostenerlo.

    È tutto molto facile: il paese (il dibattito pubblico, politico) da tempo ha perso la rotta; da 30 anni tutti i progetti di riforma sono fondati su fumo, su slogan semplicistici fuorvianti, interessati; demagogici e populisti, non per migliorare il funzionamento delle istituzioni, ma per consolidare il potere politico (cioè quel poco che per fortuna di fatto ne rimane [cf i vari vincoli esterni, giuridici e fattuali]) nelle mani di chi ce l’ha o pensa di averlo. Più che di potere (legiferare e governare) si tratta di piazzare i propri uomini e donne.

    Che miseria! Che tristezza!

    Rispondi
  2. La ringrazio molto per queste sue considerazioni, che a mia volta condivido pienamente.

    Nello scritto, con l’espressione “semplificazione della politica”, ho inteso evidenziare come oggi i partiti affrontino i temi, dai più minuti ai più complessi, in modo superficiale e sbrigativo (un esempio: serve un nome per un incarico? Si fa presto una telefonata, senza guardare oltre la propria cerchia… e così via!).

    Sono d’accordo con lei quando dice che la semplificazione politica è inevitabile, ma in quel caso io preferisco parlare (e mi rendo conto del vezzo sull’uso dei termini) di “sintesi della complessità”. La politica dovrebbe dialogare, dibattere, e – SOPRATTUTTO – scontrarsi nella sede istituzionale (in primis, in Parlamento) e anche al di fuori (in primis, all’interno dei partiti politici) e giungere ad una sintesi che tenga conto di interessi e bisogni che per loro natura sono contrastanti! Tutto questo non accade: come lei ha ribadito attraverso i propri uomini e le proprie donne è tutto molto più semplice (e anche qui torna il tema della semplificazione).

    C’è molto da riflettere, credo a partire dal “metodo democratico” che dovrebbe investire i partiti politici così come dalla questione, per me non secondaria, del loro finanziamento.

    Per riportare ordine servono regole, senza eccessi e con interventi mirati a “correggere” dinamiche che mostrano oggi tutta la loro nocività.

    Rispondi

Lascia un commento

Utilizziamo cookie (tecnici, statistici e di profilazione) per consentire e migliorare l’esperienza di navigazione. Proseguendo con la navigazione acconsenti al loro uso in conformità alla nostra cookie policy.  Sei libero di disabilitare i cookie statistici e di profilazione (non quelli tecnici). Abilitandone l’uso, ci aiuti a offrirti una migliore esperienza di navigazione. Cookie policy

Alcuni contenuti non sono disponibili per via delle due preferenze sui cookie!

Questo accade perché la funzionalità/contenuto “%SERVICE_NAME%” impiega cookie che hai scelto di disabilitare. Per porter visualizzare questo contenuto è necessario che tu modifichi le tue preferenze sui cookie: clicca qui per modificare le tue preferenze sui cookie.