Premierato? Una risposta sbagliata a un problema mal posto

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di Roberto Bin

Il problema è chiaro a tutti: la storica instabilità dei Governi nazionali. Le statistiche sono impietose e le conseguenze del fenomeno sono evidenti: Governi costretti ad occuparsi più della ricerca del consenso elettorale verso i singoli partiti uniti nella coalizione di maggioranza (mentre è quasi fisiologico che altrettanto capiti ai partiti di opposizione), piuttosto che impegnarsi seriamente su obiettivi e strategie di lunga gittata, cioè a tutto ciò che richiederebbe un serio “governo” del Paese purificato dalla contingenza.

Se il problema è chiaro, e molto serio per giunta, per immaginare le soluzioni possibili si dovrebbe prima individuarne le cause. C’è forse qualcosa in Costituzione che favorisce la debolezza del Governo, o forse addirittura ne ostacola la stabilità? Direi proprio di no: la stabilità del Governo è anzi favorita dalla disciplina della fiducia e dalla regola del voto palese. I dati storici ci dicono che l’esito di questa disciplina è ottimo: nessun Governo è caduto a seguito di una mozione di sfiducia: anzi, l’ultimo caso di una mozione di sfiducia approvata da un Parlamento italiano risale addirittura al Governo Di Rudinì, nel 1892; mentre i due Governi Prodi caddero per una “questione” di fiducia posta dallo stesso Prodi per sfidare in campo aperto la sua maggioranza; e lo stesso Governo Draghi si è dimesso a seguito di una questione di fiducia posta dal Governo stesso: questione che ha peraltro ricevuto un voto largamente positivo dal Senato, ma che rivelava lo sfaldamento “politico” della maggioranza. Non lo strumento costituzionale, dunque, ma il gioco politico è la causa della crisi: del Governo Draghi come di tutti i precedenti, la cui fine è stata segnata dalle dimissioni “volontarie” del capo del Governo.

Se questo è vero, ne deriva che qualsiasi tentativo di agire sull’aggravamento della procedura di formulazione della mozione di sfiducia non avrebbe alcuna prospettiva di rafforzare il Governo in carica: sarebbe un cacciavite senza viti; le viti stanno in un altro cassetto, quello della politica.

Giusto è allora puntare l’attenzione sulla prospettiva politica, cercare cioè strumenti che rafforzino e stabilizzino le maggioranze. Il primo strumento a cui pensare è ovviamente la legge elettorale. Ma anche questa ovvietà va un po’ smitizzata. Anche l’attuale legge elettorale, unanimemente considerata pessima, ha però prodotto nelle ultime elezioni politiche del 2022 una maggioranza precisa e delimitata, frutto della scelta degli elettori. Non è forse vero che l’attuale Governo ripete ogni giorno che la sua origine sta nel voto degli elettori e che forte di tale investitura intende governare per l’intera legislatura? Quali potrebbero essere le (potenziali) cause della fragilità della maggioranza attuale e del suo Governo? La risposta è persino banale: le frizioni, i contrasti, la concorrenza tra i partiti e gli esponenti che la formano. Anche di questo problema l’origine non sta nella Costituzione e forse neppure nella legge elettorale: forse un fattore che lo alimenta è il divieto di mandato imperativo, questo sì scritto in Costituzione (art. 67) ma interpretato con una tassatività che forse non appartiene al testo; sicuramente l’interpretazione “morbida”, per non dire compiacente, delle norme dei regolamenti parlamentari sulla disciplina dei gruppi parlamentari e della loro formazione ha svolto una funzione nefasta, favorendo lo scollamento tra l’appartenenza politica dichiarata agli elettori e la migrazione degli eletti verso scelte diverse (si consulti l’Osservatorio che cura Salvatore Curreri si questo giornale), che frantumano il quadro politico e moltiplicano i galli che pretendono un ruolo nel pollaio, la “visibilità” del proprio piumaggio (vedi ora la vicenda narrata da Melpignano).

Ma se questa è la causa della malattia da combattere, poco si può fare con una riforma costituzionale. Bisognerebbe agire sulla disciplina delle coalizioni e, ancora prima, sulla disciplina dei partiti, cioè sulla attuazione della Costituzione, del suo art. 49. È davvero sorprendente che si sia perso di vista il vero tenore di questa norma, che riguarda i partiti come strumento di un diritto costituzionale dei cittadini alla partecipazione politica: aver lasciato i partiti senza una disciplina attuativa significa aver menomato i diritti politici degli italiani.

Il desiderio di “premierato” nasce da un’invidia freudiana per l’efficienza e la stabilità riconosciuta ad altri sistemi politici. Premesso che, come è noto, il “premierato” inteso come elezione diretta del premier non esiste in nessuna parte del mondo conosciuto, l’invidia si appunta, alternativamente, sul sistema britannico (in cui il concetto e il termine di “premier” ha origine), sul semi-presidenzialismo francese o sul “cancellierato” tedesco – tutti sistemi in cui la stabilità dell’esecutivo è stata ottenuta in passato grazie a condizioni che non c’entrano con l’elezione diretta del premier, che in nessuno di essi è prevista. Ma è anche un’invidia mal riposta, dato che tutti questi sistemi hanno nel frattempo rivelato un’inattesa instabilità: conclamata nel Regno Unito, dove gli esecutivi che si sono alternati dopo le elezioni del 2019 mostrano una fragilità sconosciuta un tempo; quasi strutturale in Francia, dove i governi si succedono con una certa frequenza, rivelando la difficile “governabilità” di un paese che pur eleggendo direttamente il Presidente della Repubblica, richiede la fiducia parlamentare del “suo” Governo; e ormai anche in Germania, dove il sistema partitico tradizionale tripolare è da un po’ di tempo “saltato”.

La lezione dovrebbe essere chiara. Se la crisi di governabilità nasce dalla crisi dei partiti, bisognerebbe agire nel verso di stabilizzare un quadro partitico efficiente, a cui poi ancorare un sistema elettorale che funzioni bene. Purtroppo la strada intrapresa in Italia da decenni va nella direzione esattamente opposta. I partiti sono stati smantellati con una rincorsa inarrestabile tra destra e sinistra, come se fosse il comune obiettivo da abbattere. I partiti sono stati da sempre un obiettivo da abbattere per il pensiero liberal-conservatore (basti ricordate, in Italia, i contributi di Giuseppe Maranini), ma che in anni più recenti ha attratto anche il “codismo” del centro-sinistra: «gente fermamente decisa a stare sempre dietro al movimento come una coda» li definiva Lenin, e l’immagine ben si addatta alla rincorsa che ha fiaccato la sinistra inseguendo, appunto, gli slogan della destra (il c.d. federalismo, da cui è nata l’infelice riforma costituzionale del 2001; il voto degli italiani all’estero, un vero obbrobrio costituzionale; l’abolizione di ampi tratti dello Statuto dei lavoratori…). Non si può dimenticare che è stato il Governo Letta ha togliere il sussidio pubblico ai partiti, facendo dell’Italia l’unico Stato europeo che non finanzia i partiti con danaro pubblico. Abbiamo tolto il finanziamento necessario a far funzionare uno strumento che la Costituzione ha voluto indicare come lo strumento di esercizio di un diritto costituzionale dei cittadini. E che è stato lo strumento del successo del sistema politico-costituzionale tedesco, che in tanti invidiamo (sul tema però mi limito a rinviare a cose che ho già pubblicato di recente).

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2 commenti su “Premierato? Una risposta sbagliata a un problema mal posto”

  1. Condivido l’impostazione data da R. Bin alla questione, limitandomi a ripetere qui ciò che ho già avuto modo di rilevare in un paio di commenti al disegno Meloni apparsi su Consulta OnLine e su Dir. pubbl. eur. Rass. on line, vale a dire che la stabilità ha ben poco a che fare con i meccanismi costituzionali, quelli di oggi come pure quelli di domani; ed a darne conferma è il dato di tutta evidenza per cui è sufficiente che un partito della maggioranza si sfili da quest’ultima che il Governo si trovi costretto a rassegnare le dimissioni. D’altro canto, se il rimedio alla cronica instabilità fosse l’elezione diretta del Premier, ne dovremmo concludere che nessuno ci ha mai pensato prima e che tutti i Paesi al mondo sono instabili… Il vero è che si fa, ancora una volta, della Costituzione un bersaglio da abbattere, addossandole responsabilità che sono esclusivamente della politica, di coloro che la mettono in atto e del c.d. (eufemisticamente detto) “sistema” dei partiti. E’ un gioco fin troppo scoperto che, però, ha facile presa su larghi strati del corpo sociale ed – ahimè – anche su alcuni accreditati studiosi. L’unica, vera riforma di cui abbiamo un disperato bisogno è, dunque, l’autoriforma della politica che, tuttavia, può (e deve), una buona volta, essere incoraggiata e sostenuta da una misurata ma incisiva disciplina legislativa in attuazione dell’art. 49, come giustamente sottolineato anche da R. Bin. La nota legge del cappone, secondo cui è ingenuo pensare che quest’ultimo prenda l’iniziativa di essere messo in pentola per il cenone di Natale, induce tuttavia a pensare che non si farà.
    Un’ultima notazione. Mi pare urgente interrogarsi circa le cause che hanno determinato un pauroso degrado culturale della rappresentanza politica, come mi è venuto di dire in altra occasione, un degrado che è cresciuto con gli anni. Oggi non abbiamo più un ceto politico costituito da De Gasperi, Nenni, Togliatti, Almirante o i discussi Andreotti, Craxi, per fare solo i primi nomi che vengono in mente. Il paragone con il livello culturale dei protagonisti della vita politica di oggi è francamente penoso e sconfortante. Ancora una volta, mi pare che sia fuor di dubbio che la causa principale di ciò si rinvenga nell’acclarata carenza dei partiti quali luoghi di formazione del personale politico e di elaborazione di progetti adeguati di sviluppo della società. La domanda cruciale è allora questa: c’è rimedio (e, se sì, quale) a questo stato di cose?
    Antonio Ruggeri

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  2. Penso che cercare la soluzione ai problemi (quali esattamente?) della democrazia italiana in una riforma orchestrata dei partiti sia un errore, un’illusione.

    I partiti sono organizzazioni per massimizzare il successo elettorale; dipendono profondamente dalla L elettorale, a prescindere da altre regole di trasparenza e/o di finanziamento pubblico e/o privato.

    Sarebbe prioritario dotare il paese di una normativa elettorale democraticamente conforme: apertura delle candidature; libertà degli eletti; equa rappresentanza, non necessariamente dei partiti; peso appropriato delle scelte più preferite dagli elettori.

    Un altro problema grande come un montagna è il Senato ormai superfluo perché completamente omogeneizzato con la Camera. Non basterebbe un Senato con potere solo consultivo in tutte le materie e veto sospensivo breve per le Leggi, lungo per Revisioni, senatori qualificati* con mandati lunghi, eletti in piccole tranche annuali dai deputati, un po’ come i membri eletti della House of Lords, come il Senead irlandese ma eletto diversamente o il Conseil d’État lussemburghese, ma eletto in modo trasparente e rigoroso.

    Perché guardiamo sempre ai modelli sbagliati? L’Italia non è la Germania da sempre e davvero federale, tantomeno la Svizzera o gli Stati Uniti. Il Sénat francese è più interessante, sicuramente per i poteri, meno perché inutilmente complicato per la composizione-elezione.

    Risolvendo questi problemi fondamentali gli altri appariranno sotto un luce diversa e sarebbero più da facile a risolvere davvero.

    Il punto più importante e più dolente tutto questo è purtroppo quello del personale politico, difficile a cambiare perché nessuno è disposto a farsi da parte di buon grado (quindi andrebbero cacciati) e non esiste un metodo sicuro per sostituirli con persone più valide. Non sono le istituzioni, ma la cultura e la mentalità delle persone, il livello del discorso pubblico che determinano la qualità dei rappresentanti eletti.

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