di Camilla Buzzacchi
Pubblichiamo il testo dell’Audizione del 4 marzo 2024 alla I Commissione Affari costituzionali della Camera dei Deputati, in relazione al disegno di legge C. 1665 Governo, approvato dal Senato (c.d. ” ddl Calderoli”), “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”, ringraziando l’A. di avercelo proposto.
Il mio intervento intende proporre alcune osservazioni su ciascuna delle disposizioni del testo in corso di approvazione. Tuttavia, posso già anticipare che il testo presenta molteplici aspetti critici e di questi i più allarmanti sono sostanzialmente due, a mio giudizio: il primo è costituito dalle regole del versante finanziario, che sono contraddittorie e poco equilibrate; il secondo è collegato alla nostra forma di governo, dal momento che si altera l’equilibrio tra le istituzioni dello Stato. La considerazione che accomuna entrambi i profili è che le ricadute di un modello mal impostato sono destinate a ripercuotersi sui diritti e sull’eguaglianza dei cittadini, per cui appare più che opportuno un ripensamento.
Si può cominciare dalla prima disposizione, nella quale viene esposto il quadro di principi che l’attuazione dell’art. 116.3 Cost. deve sicuramente rispettare: il co. 2 offre un elenco di valori – l’unità nazionale, la rimozione delle discriminazioni e delle disparità di accesso ai servizi essenziali sul territorio – e una definizione dei LEP – quali “soglia costituzionalmente necessaria e costituiscono il nucleo invalicabile per rendere effettivi tali diritti su tutto il territorio nazionale e per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, per assicurare uno svolgimento leale e trasparente dei rapporti finanziari fra lo Stato e le autonomie territoriali e per favorire un’equa ed efficiente allocazione delle risorse e il pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti ai diritti civili e sociali” – che indubbiamente appaiono coerenti nel quadro più ampio dei fini e delle direttive che discendono dall’intera Costituzione. In particolare, si esprime l’impegno a ricorrere a rapporti finanziari che garantiscano i diritti in sintonia con il principio di eguaglianza. Queste dichiarazioni condivisibili non trovano, tuttavia, logico sviluppo nelle successive disposizioni.
Passando all’art. 2, esso disciplina la procedura che conduce all’approvazione dell’intesa: il limite di tale procedura è che i complessi passaggi che prevede – il cui svolgimento è disciplinato in ben 8 commi, assai articolati – tradiscono l’indicazione dell’art. 116.3 Cost., nella misura in cui non considerano centrale il ruolo del Parlamento. Le fasi iniziali sono appannaggio del Governo, in interlocuzione con la Regione: solo dopo che il Consiglio dei ministri ha deliberato la bozza di intesa e che la Conferenza unificata ha espresso il proprio parere, il provvedimento viene trasmesso alle Camere per ottenere un atto di indirizzo entro novanta giorni. Ma considerato che il Governo può comunque procedere anche in assenza dell’atto di indirizzo, e che può discostarsene con un’apposita relazione che fornisce le motivazioni, il ruolo dell’organo rappresentativo appare del tutto secondario. Dopo la delibera in sede regionale, è il Governo che redige il disegno di legge da presentare al Parlamento: un asciutto co. 8 chiude il percorso, prevedendo che tale proposta, “cui è allegata l’intesa”, sia trasmessa alle Camere per la deliberazione. Nulla di più si dice circa il contributo fornito dalle Camere e, a fronte di un testo così essenziale, dovrebbe valere pienamente la procedura ex art. 72 Cost.: ovvero un Parlamento che esercita le proprie prerogative, dibattendo in merito ai contenuti dell’intesa “allegata” e presentando emendamenti. Ma è ingenuo ragionare in tal modo, perché è presumibile che il ruolo predominante svolto dal Governo nella costruzione dell’intesa non possa trovare una battuta d’arresto o un intervento di modifica nella fase di approvazione parlamentare: non è difficile dedurre, visto lo scarno passaggio riguardante il lavoro parlamentare, che gli spazi per l’esercizio delle prerogative parlamentari non ci siano, e che ci si aspetti un passaggio parlamentare che non incide sull’intesa. Tale declinazione della procedura mal si concilia con il dettato costituzionale, che richiede una maggioranza assoluta: ci si domanda come si possa immaginare che una maggioranza qualificata sia associata a un ruolo del Parlamento di pura ratifica di una volontà di altri soggetti istituzionali, il Governo e la Regione.
Tale impostazione è del resto – direi con infelice coerenza – mantenuta con riferimento alla successiva disposizione, l’art. 3 che è relativo non solo alla determinazione dei LEP, ma anche al monitoraggio e alla procedura a cui ricorrere se la Regione “differenziata” non fosse in grado di garantire adeguatamente le prestazioni. Se appare condivisibile l’utilizzo della fonte primaria del decreto legislativo, tuttavia il ruolo delle commissioni parlamentari, chiamate a produrre pareri per materia e per i profili finanziari, è assolutamente marginale. Infatti tanto per i decreti della prima definizione dei LEP, quanto per quelli di aggiornamento tecnico e finanziario, il Governo è legittimato a procedere secondo la propria linea in nel caso di termini scaduti, e anche nel caso di un parere non allineato con la sua proposta. Difficile non evidenziare quanto tale soluzione sia discutibile: anche rispetto a questo passaggio di attuazione del regionalismo differenziato il ruolo del Parlamento è chiaramente accessorio.
La disposizione provvede, inoltre, a elencare le materie rispetto alle quali i LEP devono essere determinati entro ventiquattro mesi: si tratta di quattordici materie se stiamo ai punti dell’elenco, ma in realtà ben di più, se si considera che le c.d. “materie” sono ambiti complessi. A mero titolo di esempio, basti pensare a settori come la tutela e sicurezza del lavoro, l’istruzione e l’ordinamento della comunicazione: è importante che l’entrata a regime delle intese sia espressamente subordinata alla definizione dei LEP, e l’arco temporale previsto per concludere appare una vera sfida se si ha presente la quantità di funzioni di cui occorre occuparsi. Di tali LEP si disciplina poi il monitoraggio e si contempla l’aggiornamento, ma proprio con riferimento a tali operazioni si coglie la contraddizione rispetto ai principi dell’art. 1: se emergono criticità nella garanzia dei LEP, la disciplina prevede il potere sostitutivo dello Stato, ma soprattutto è curiosa la previsione che il periodico aggiornamento avvenga “nei limiti delle risorse finanziarie disponibili”. Tale espressione introduce un vincolo di subordinazione delle prestazioni alle risorse, che va in netta contraddizione con una chiara giurisprudenza costituzionale in materia di LEP – per tutte, valga la sent. n. 275 del 2016, per la quale «è la garanzia dei diritti incomprimibili a incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione» – che sancisce il criterio esattamente opposto.
Passando alla successiva disposizione, l’art. 4, essa presenta aspetti di ambiguità. Il primo riguarda la nozione di “residuo fiscale”, ovvero quel presupposto finanziario che ha dominato il dibattito di avvio delle richieste di maggiore autonomia; il secondo è una vera e propria contraddizione rispetto al successivo art. 9, e quindi me ne occuperò parlando di quella norma.
Circa la prima incongruenza, va evidenziato che l’operazione del trasferimento delle funzioni alle Regioni viene subordinata alla consistenza delle “risorse rese disponibili nella legge di bilancio”, ma soprattutto si mette in conto che possano sorgere nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Tale ipotesi lascia perplessi se si ha presente l’ingannevole dibattito intorno al c.d. “residuo fiscale”, che è categoria giuridicamente irrilevante – la sent. n. 83/2016 della Corte costituzionale è stata chiara al riguardo – che ha indirizzato in una prospettiva eccentrica l’attuazione del regionalismo differenziato: le Regioni che pretendevano di appropriarsi del residuo fiscale dichiaravano, evidentemente, di avere la necessaria solidità finanziaria per assumere nuove potestà. La posizione del giudice delle leggi è netta sul punto: “il residuo fiscale non può essere considerato un criterio specificativo dei precetti contenuti nell’art. 119 Cost., sia perché sono controverse le modalità appropriate di calcolo del differenziale tra risorse fiscalmente acquisite e loro reimpiego negli ambiti territoriali di provenienza, sia perché l’assoluto equilibrio tra prelievo fiscale ed impiego di quest’ultimo sul territorio di provenienza non è un principio espresso dalla disposizione costituzionale invocata”.
Pare allora pacifico, sul piano giuridico, che il ricorso al “residuo fiscale” non possa essere la ragione alla base della differenziazione, e nemmeno il criterio di conformazione del sistema di finanziamento. La stessa disposizione in esame disconosce, nella sostanza, l’affidabilità proprio di quel criterio, al cui fallimento si rimedia andando a reperire nuove risorse statali, chiamate ad operare una generalizzata redistribuzione: da un lato ci sono le Regioni che sono convinte – come ho dimostrato “erroneamente” – di doversi appropriare del presunto “residuo fiscale”; dall’altro questa legge di principio prefigura un possibile peggioramento dei conti pubblici, e per aggiustare questi ultimi dispone che si debba intervenire con misure correttive. Personalmente vedo in questa disposizione la chiara manifestazione di quanto l’operazione di spostamento delle funzioni possa essere avventata e possa mettere in dubbio il principio di eguale accesso a servizi e prestazioni.
Lo scenario di insufficienza delle risorse è, del resto, ulteriormente sviluppato nel successivo art. 8, dove esplicitamente si mette in conto un andamento inadeguato del gettito effettivo dei tributi compartecipati: per sanare un’evoluzione di questo tipo la soluzione indicata è di ricorrere a “conseguenti regolazioni finanziarie …sempre nei limiti delle risorse disponibili”. Inevitabilmente la domanda che prospetto è: ma non vi era la certezza che il residuo fiscale fosse una base finanziaria assolutamente solida per avanzare la richiesta di maggiore autonomia? La sua rivendicazione non discendeva da calcoli che assicuravano margini di performance migliore, da parte delle Regioni candidate alle intese, rispetto a quella dello Stato? A quanto pare, viene invece già preventivato un gettito che potrebbe non dare sufficienti garanzie.
È il successivo art. 5 che identifica le risorse utilizzabili: la principale criticità della disposizione consiste nella previsione della commissione paritetica, organo che smaschera l’obiettivo di conformare l’autonomismo differenziato al modello dell’autonomismo speciale. Sarebbe bene sgombrare il campo dal dubbio che il disegno perseguito dalle Regioni che già si sono incamminate lungo la strada della “differenziazione” sia quello di una replica dell’autonomia speciale. Quest’ultima è ormai da tempo regolata, sul piano delle previsioni finanziarie, da specifici accordi negoziati tra le singole amministrazioni e il Governo: secondo una logica che è pertanto estranea all’art. 119 Cost. Una soluzione di questo tipo renderebbe del tutto incostituzionali le intese, per le quali l’art. 116.3 Cost. è assolutamente chiaro nel pretendere che il modello di riferimento sia quello della finanza delle Regioni ordinarie. Nessuna fuga verso la specialità, dunque: la via della “differenziazione” deve rimanere ancorata, soprattutto per quello che riguarda i mezzi finanziari, alla cornice delineata per qualità “ordinaria” dell’autonomia. L’istituzione di una commissione paritetica, che storicamente per le autonomie speciali ha provveduto a negoziazioni bilaterali con lo Stato centrale, attesta qualche opacità del modello finanziario in via di costruzione.
Ma interessa soprattutto evidenziare la fonte finanziaria su cui erigere il regionalismo differenziato: in modo piuttosto essenziale, l’ultimo comma di questa disposizione enuncia il criterio di finanziamento delle materie da trasferire, ovvero “compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale” e il quadro normativo a cui ci si richiama è l’art. 119, co. 4 Cost. e la legge di contabilità n. 196/2009. Vengono scelte le compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale, che sono effettivamente in linea con quanto contemplato dall’art. 119, senza tuttavia esaurire le fonti di entrata utilizzabili. La mancata menzione di tributi propri segnala una nozione meno solida di autonomia, dal momento che è soprattutto in relazione ai tributi propri che emerge il profilo di responsabilità, che è componente necessaria della vera autonomia.
L’art. 7 si pronuncia in merito alla durata delle intese, a cui si impone di non superare un arco temporale di dieci anni: arrivando a prevedere una cessazione dell’autonomia, a cui provvede una deliberazione delle Camere, che si vedono così assegnare un potere che la Costituzione non prevede. Tale potere è declinato – quasi copiato – a partire dal potere di approvazione delle leggi che recepiscono le intese. Si tratta di una sorta di arbitraria “integrazione” del dettato costituzionale, ma soprattutto mi sembra una previsione in chiave poco autonomistica e poco realistica.
Poco autonomistica, perché in fondo rimette il destino delle Regioni con intese alla volontà dello Stato, che unilateralmente potrebbe “smontare” l’estensione di autonomia, senza particolari garanzie procedurali: vi è da chiedersi se tra enti che, secondo l’art. 5 e il titolo V Cost., vengono considerati equiordinati, e dunque dichiarati di pari dignità, sia immaginabile un intervento unilaterale dello Stato, che porti ad annullare l’intero processo che, come si è visto, è frutto di un complesso cammino costituito da tanti passaggi a cui contribuiscono vari organi.
Ma la previsione manca anche di realismo: mi chiedo se sia immaginabile che il trasferimento di funzioni quali l’istruzione ed il governo del territorio – per fare solo due esempi, ma vale per tutte le materie – dopo dieci anni venga meno, e che in maniera semplicistica si prospetti l’ipotesi di ritornare all’assetto precedente. Effettuare un nuovo trasferimento di risorse materiali, umane e finanziarie non è un’operazione che si possa compiere ogni dieci anni: se si pensa ai faticosi e lunghi processi di trasformazione amministrativa che hanno interessato la Repubblica in più di settant’anni, il quesito che pongo è se sia credibile una previsione di questa portata. E se la prospettiva più verosimile è quella di un cammino che invece, una volta intrapreso, sarà irreversibile, trovo la norma inutile perché promette quanto non potrà aver luogo, lasciando solo la sensazione che le Regioni con intese rimarranno in una condizione di “tutela”, che sottintende poca fiducia nella loro responsabilità. Ma soprattutto trovo la proposta legislativa pericolosa ed azzardata, nella misura in cui pone le premesse per un processo i cui esiti potrebbero essere precari, poco vantaggiosi, addirittura da abbandonare.
Arrivano poi le clausole finanziarie.
Nell’art. 9 l’affermazione che “dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” contraddice l’art. 4, dove si prevedono interventi finanziari di aggiustamento, come si è evidenziato. Lascia perplessi che da un lato si prevedano provvedimenti finanziari di correzione del funzionamento delle intese, e d’altro canto si escludano “maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Mentre la nuova formulazione dell’“invarianza finanziaria” – che nel ddl n. 615 dello scorso anno era declinata diversamente – appare ora coerente con l’impianto dell’art. 119 Cost., dal momento che si prescrive che le intese non debbano pregiudicare l’entità e la proporzionalità delle risorse da destinare a ciascuna delle altre Regioni. Ma sulla neutralità delle intese sul sistema di finanza pubblica è legittimo nutrire seri dubbi.
Lo conferma l’art. 10, che correttamente richiama l’art. 119 Cost. nella misura in cui vincola il processo di differenziazione alla solidarietà sociale perseguita attraverso la perequazione: la disposizione inserisce nelle lettere da a) a d) un complesso di misure strumentali a finalità perequative – tra l’altro si esplicita il concorso anche delle Regioni con intese agli obiettivi di finanza pubblica, secondo la logica del coordinamento – e raccomanda obiettivi quali la promozione dello sviluppo economico, la coesione, la rimozione degli squilibri economici e sociali, l’eliminazione del deficit infrastrutturale tra le diverse aree del territorio nazionale. Veramente ci si chiede come possa essere immaginabile che impegni di tale portata, imposti dalla Carta costituzionale, possano essere assunti senza che lo Stato si apra a operazioni finanziarie che comportano maggiori oneri.
Il giudizio complessivo è di una disciplina confusa e contraddittoria, che proprio perché non richiesta dalla Costituzione – e dunque non qualificabile come normativa costituzionalmente necessaria – offre un quadro di regole ampiamente superflue, ma anche di dubbia legittimità. Con un percorso di passaggi anomali rispetto ai meccanismi procedurali previsti nella Carta si va a inserire una discutibile alterazione nel sistema delle autonomie, camuffando per un nuovo modello di regionalismo quello che, invece, non pare altro che la semplice replica del regime speciale. Ma il raggiungimento di quel livello a sé stante di competenze – e soprattutto di disponibilità finanziarie – passa attraverso un percorso che si sottrae alla meccanismo previsto per i territori ad autonomia alta.
Circa gli aspetti finanziari, ovvero la parte più nevralgica, la disciplina nulla aggiunge – e non potrebbe farlo! – alla cornice costituzionale: il riferimento non può che essere l’art. 119 Cost., con la scelta a favore di una delle fonti di finanziamento messe a disposizione da quella norma, e specificamente i tributi compartecipati. Opzione non esageratamente originale, e soprattutto ambigua perché associata alla previsione di significativi interventi dello Stato centrale se il gettito non si dimostrasse sufficiente.
La legge appare non necessaria, dato che proprio l’ultima disposizione recupera gli atti di iniziativa delle Regioni già presentati al Governo nella passata legislatura, dimostrando così che il procedimento delle intese ben può prescindere da questo testo normativo.
La normativa, infine, inserisce nel sistema un preoccupante squilibrio nei rapporti tra Parlamento e Governo, che in alcun modo è desumibile dall’art. 116.3: e che non è accettabile se siamo convinti che l’organo che tutela l’interesse nazionale è quello elettivo e di rappresentanza politica, che si accinge ad approvare un testo di rottura degli equilibri costituzionali.