di Camilla Buzzacchi
Approvata la legge n. 86 del 2024 recante Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, il ministro che ne ha sostenuto l’iniziativa ed il percorso nonché il Governo, che dichiara il disegno di differenziazione di tutta coerenza con il quadro politico, territoriale, economico e finanziario del Paese, mostrano la soddisfazione di chi è arrivato all’obiettivo.
Peraltro, tale percezione sembra dimostrata dall’immediata presentazione di richiesta di competenze “non Lep” che la Regione Veneto – senza perdere tempo – ha avanzato il 1 luglio. In realtà non limitandosi alle 9 materie non Lep – organizzazione della giustizia di pace, rapporti internazionali e con l’Unione della Regione, commercio con l’estero, professioni, protezione civile, previdenza complementare e integrativa, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale, e per finire enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale – ma recuperando, per un avvio di verifiche, anche le materie “Lep” alle quali con la bozza di intesa del 2018 già si era candidata. E dunque attribuzioni di grandissimo rilievo sul terreno delle politiche del lavoro, dell’istruzione, della salute, nonché della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema: materie che indubbiamente determineranno dilatazione della spesa regionale. Le istituzioni della Serenissima devono essersi fatte i conti necessari in vista dello sforzo fiscale che sosterrà un tale complesso di funzioni/competenze, se con tale sicurezza già si sbilanciano nella direzione dell’acquisto di politiche onerose. Tanto quelle che prevedono prestazioni – le materie “Lep” – quanto quelle che non sono soggette all’individuazione di costi e fabbisogni standard, ma che difficilmente si può sostenere che non incideranno in maniera significativa sulla spesa regionale.
In questo passaggio dell’integrazione europea, connotato dalla riscrittura della c.d. “governance economica europea”, e dunque delle regole fiscali dell’area euro, forse sfugge a qualcuno che la Repubblica sta andando incontro a una traiettoria di aggiustamento delle politiche finanziarie da concordare con le istituzioni europee, peraltro in corso di formazione e insediamento, che prevederà una precisa ridefinizione della spesa. Ridefinizione che non riguarderà solo lo Stato centrale, ma chiederà il concorso del sistema denominato di “finanza pubblica allargata”: a cui concorre l’amministrazione centrale ma anche l’ultimo Comune d’Italia.
Se questo è chiaro alle istituzioni romane come a quelle dei territori, vi è da chiedersi come sia pensabile – ed opportuna – la fuga in avanti di amministratori regionali, che sembrano continuare a ragionare in termini di “sovranismo” fiscale e finanziario. Come se il piano fiscale che a fine estate il Mef concorderà con la Commissione non dovrà individuare volumi di spesa – e conseguenti flussi di entrata – che non possono non tener conto di funzioni di primaria incidenza che, a breve, passerebbero ad alcune Regioni senza che ancora si sappia quale spesa esse assorbiranno, e dunque quali compartecipazioni al gettito erariale riferito al territorio dovranno impiegare. Se, in conformità alla legge n. 86/2024, queste saranno le risorse che finanzieranno le nuove prerogative regionali
Che piacciano o no le regole della nuova governance economica europea, il punto su cui è inutile discutere è che il faro verrà acceso sulla spesa. Quella dello Stato, che deve però essere determinata con piena consapevolezza della quantità di risorse che si sposteranno sui territori “differenziati”: e che potranno ulteriormente essere da preventivare, se le competenze di nuova acquisizione, sulla base delle leggi che recepiranno le intese, daranno luogo a difficoltà nei contesti regionali e, dunque, a nuovi finanziamenti da parte dello Stato.
Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna non hanno ancora fornito dati e analisi che dimostrano la sostenibilità finanziaria delle competenze che chiedono; né che escludano situazioni di difficoltà, a fronte delle quali come potrà lo Stato rifiutarsi di rifinanziare servizi e prestazioni per i cittadini delle Regioni “differenziate”?
La stessa legge Calderoli dimostra ampia consapevolezza di uno scenario di incertezza, perché prevede una durata decennale delle intese e perché introduce un monitoraggio, che sarà forzatamente seguito da rimedi, se le Regioni ad autonomia “potenziata” non riusciranno a reggere finanziariamente l’impatto delle nuove politiche. E, si ribadisce, nessun dato oggettivo, che rassicuri rispetto a tale esito infausto, è stato ad oggi portato all’evidenza.
Potrebbe essere saggio attendere l’autunno per vedere il cammino di revisione della spesa che attende la Repubblica italiana: la Corte dei conti ha richiamato con forza l’attenzione su questo sviluppo a breve nella recentissima approvazione del giudizio di parifica del rendiconto consuntivo dello Stato. E solo a seguito della definizione degli impegni che il Governo assumerà con la Commissione si potrà poi capire quanto l’ebbrezza della differenziazione sia compatibile con il rientro del debito e con la riduzione della spesa dello Stato, che copriranno un arco temporale da qui alla fine del decennio. Rientro del debito e riduzione della spesa che sembrano qualcosa che riguardi solo lo Stato, ma inevitabilmente sono una prospettiva che ricade su tutto l’ordinamento. Così come l’intesa di una Regione che si candida a utilizzare l’art. 116.3 Cost. sembra qualcosa che riguarda solo la Regione, ma inevitabilmente è un orizzonte che riguarda tutto l’ordinamento repubblicano.
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