Ma davvero la riforma del Titolo V
toglie poteri alle Regioni?

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imageSembra un punto su cui, caso raro, tutti sono d’accordo, quelli del SI e quelli del NO. La riforma comporterà una notevole compressione dei poteri regionali.

di Roberto Bin

Questo è denunciato come un arretramento dai livelli di autonomia acquisiti grazie alla (pur criticatissima) riforma costituzionale del 2001, oppure è indicato come un rimedio alle fughe in avanti che quelle incauta riforma aveva prodotto. Quale ne sia la valutazione, il fatto appare accertato: meno poteri alle Regioni.
Ma il fatto invece non sussiste. Quello che viene indicato come un effetto auto-evidente della riforma è il frutto di un equivoco, causato dalla confusione tra le competenze “sulla carta” e le competenze effettive.

L’equivoco nasce dalla eliminazione della competenza “concorrente”. Nella Costituzione del 1948, questa era l’unica competenza legislativa regionale garantita dalla carta, e quindi rivendicabile davanti alla Corte costituzionale. Essa era esercitabile dalle regioni nelle materie elencate, ma con l’obbligo di rispettare i “principi fondamentali” fissati dalla legge dello Stato. Cosa fossero questi principi non era affatto chiaro e la Corte costituzionale ha dovuto spiegarlo di volta in volta nei mille conflitti insorti. Alla fine è arrivata ad una conclusione, principio è qualsiasi norma dettata dallo Stato che possa essere giustificata dall’esigenza di una disciplina unitaria: “non si può affatto escludere che, in considerazione della rilevanza che in alcuni casi può assumere l’interesse nazionale, lo Stato possa legittimamente adottare una disciplina legislativa di dettaglio pur nell’ambito di materie attribuite in via generale alla competenza regionale” (sent. 177/1988).

Nella riforma del 2001 si è deciso di mantenere questo tipo di competenza “concorrente”: indicandola però non più come livello di competenza regionale, ma come livello di competenza legislativa statale, posta accanto a quella esclusiva, ossia alle materie in cui lo Stato può dettare l’intera disciplina. Di conseguenza all’inizio è sorto un contenzioso intenso su queste materie, sempre per il problema di riconoscere ciò che è principio fondamentale da ciò che è dettaglio. Poi, a poco a poco, il contenzioso è scemato. Come mai?
La risposta è semplice, perché la Corte costituzionale ha riportato pezzo a pezzo queste competenze in capo allo Stato: e alla fine le regioni hanno capito che era inutile cercare di difendere la propria competenza o di usarla per emanare leggi anche solo minimamente innovative.
La Corte costituzionale ha avuto spesso ragione di emanare sentenze sistematicamente favorevoli allo Stato. Nell’elenco delle materie di competenza concorrente vi sono materie di cui non si capisce il contenuto (per es. alimentazione, ordinamento sportivo, professioni), altre che sembra paradossale affidare alla legge regionale, lasciando allo Stato solo di fissare con legge i “principi” (per es. commercio con l’estero; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia), altre ancora che incrociano competenze esclusive dello Stato (cui è riservato di fissare i livelli essenziali delle prestazioni legate alla tutela della salute; di disciplinare l’armonizzazione dei bilanci pubblici; di assicurare la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali).

La Corte ci ha aggiunto di suo: ha valorizzato l’aspetto “dinamico” delle materie “esclusive” dello Stato (soprattutto la tutela della concorrenza, i livelli essenziali, l’ordinamento civile, la tutela dell’ambiente) per giustificare qualsiasi sovrapposizione tra queste e le competenze regionali; e ci ha aggiunto il potere dello Stato di “chiamare in sussidiarietà” qualsiasi materia possa manifestare l’esigenza di una disciplina unitaria. Per le stesse vie si sono svuotate anche le competenze “tipiche” che le regioni avevano avute assegnate dalla Costituzione del 1948. Il “governo del territorio”, che comprende – ha detto subito la Corte – anche la tradizionale materie “urbanistica”, consente allo Stato di intervenire con una disciplina completa e non derogabile della SCIA, giudicandola un “livello essenziale” delle prestazioni della PA. Per lo stesso motivo anche la “tutela della salute” può subire qualsiasi intervento legislativo dello Stato. La regione non può disciplinare il rimborso chilometrico dei propri dipendenti che usano il proprio autoveicolo per motivi di lavoro perché questo tocca i rapporti di lavoro e quindi rientra nell’“ordinamento civile”. Lo Stato può riservare alle proprie strutture funzioni in materia di ricerca scientifica, di comunicazioni televisive, di energie rinnovabili, di edilizia residenziale o di turismo (che è materia tipicamente regionale) perché ciò è giustificato da esigenze unitarie.
Si potrebbe continuare all’infinito, ma è importante ricordare anche un altro meccanismo messo in moto dalla Corte costituzionale. Quando ci sia sovrapposizione tra materie di competenza regionale e competenze statali (il che, comprensibilmente, avviene quasi sempre) bisogna applicare il “criterio della prevalenza”, che assegna tutta la disciplina al livello che è competente per la materia più importante: e questo livello è sempre lo Stato. La conseguenza è che l’intera materia viene così “espropriata” e gli spazi legislativi in cui la legge regionale può esprimersi vengono ridotti a quasi niente.

È dunque facile capire perché lo scaffale delle materie concorrenti ospiti solo contenitori ormai vuoti. Di conseguenza il loro parziale trasferimento alle competenze esclusive dello Stato non crea alcuna effettiva compressione delle funzioni regionali: tutto è già successo da tempo. La riprova è che in molte delle materie “concorrenti” le regioni non hanno mai emanato leggi. In materia di “alimentazione”, in cui le regioni avevano un’assegnazione di funzioni amministrative già prima del 2001, non ci sono leggi regionali, se non per piccoli dettagli quali la disciplina della raccolta dei funghi e dei tartufi: tutto il resto è fatto con atti ammnistrativi che danno attuazione alle leggi dello Stato. Altrettanto può dirsi della sicurezza del lavoro, in cui le poche leggi (Puglia, Campania, Friuli-Venezia Giulia, per es.) sono anch’essa di attuazione della legislazione statale e si limitano agli aspetti organizzativi: compito che nella stragrande maggioranza delle regioni è assolto invece da semplici atti amministrativi. In materia di “professioni” le regioni hanno cercato di istituire albi professionali per i maestri di sci e le guide turistiche, chiaramente diretti a proteggere i residenti dall’invasione di “colleghi” dell’Est europeo, ma subito la Corte ha opposto il limite della “tutela della concorrenza”. Nelle materie chiave “tutela della salute” e “governo del territorio”, la legislazione regionale è abbondante, ma è rivolta essenzialmente alla disciplina organizzativa. Sono materie “regionali” da tempo e da tempo gli spazi di autonomia sono stati rigidamente delimitati dalla legislazione dello Stato: “livelli essenziali”, “coordinamento della finanza pubblica”, ecc.

La riforma vorrebbe che molte di queste materie siano trasferite dall’elenco delle materie “concorrenti”, cancellato, a quello delle materie “esclusive” dello Stato. Ma con due precisazioni:
1. Anzitutto per la gran maggioranza di esse la competenza “esclusiva” dello Stato è limitata alle “disposizioni generali e comuni”: per cui il legislatore statale subisce un vincolo, potendo legiferare solo entro quei limiti;
2. In secondo luogo alle regioni è riservata – e questa una novità che di solito non si menziona – la disciplina legislativa relativa in materia di pianificazione del territorio regionale e mobilità al suo interno; della dotazione infrastrutturale; di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali; di promozione del diritto allo studio, anche universitario; di promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici, ecc.
Il che significa che se lo Stato può ancora dettare le norme generali, potremmo dire “di principio”, alle regioni è comunque riservato espressamente l’ambito della programmazione e dell’organizzazione. Cambia dunque qualcosa?
Se guardiamo alla “materia” su cui la regione può legiferare non sembra che cambi molto. Ciò che cambia è però sul piano delle garanzie della sua autonomia. Sotto questo profilo l’introduzione del Senato delle autonomie gioca un ruolo cruciale. Il punto va spiegato.

Sinora le regioni disponevano solo di due strumenti: impugnare davanti alla Corte costituzionale le leggi statali “invasive” delle loro competenze, oppure provare a disciplinare la materia con proprie leggi innovative, che però incappano sistematicamente nell’impugnazione da parte del Governo, debitamente istruito dalle occhiute e gelose burocrazie ministeriali. C’era ancora uno strumento: cercare accordi con il Governo, in sede di Conferenza Stato-regioni per definire assieme alcune linee comuni. Spesso sono le stesse regioni a chiedere al Governo di istituire tavoli di incontro per raggiungere accordi programmatici o una disciplina comune di materie che sono e restano di competenza regionale. Di recente si è per esempio raggiunto un accordo sulla messa in sicurezza dei trasporti ferroviari regionali, è normale che si definiscano insieme i LEA (livelli essenziali delle prestazioni) nella sanità, si sta definendo il testo del regolamento edilizio tipo, perché avere norme tecniche per l’edilizia che cambiano da una regione (e spesso da un comune) all’altra non fa bene a chi opera nel settore. Il problema è che questi accordi agiscono sul piano amministrativo e non vincolano il legislatore. La Corte costituzionale lo ha sempre detto e ripetuto, gli accordi tra esecutivi non possono vincolare il legislatore, il Parlamento, che è sovrano: per cui qualsiasi norma nascosta in qualsiasi legge o leggina può smentire gli accordi raggiunti in Conferenza; neppure il Governo può farci nulla. Come non può farci nulla (ammettendo che lo volesse fare, il che è molto difficile) se il parlamento decide di approvare leggi che ignorano totalmente le attribuzioni delle regioni e le regole dell’autonomia. Con la riforma, invece, spetterà al Senato fare da cane da guardia che controlla ciò che approva la Camera, segnalando tutte le disposizioni che ledono le competenze delle regioni e dei comuni.
Questa funzione diventerà particolarmente importante nell’esercizio delle “nuove” competenze esclusive dello Stato, quelle che sono assegnate per le sole “disposizioni generali e comuni”. Di per sé questa espressione non significa nulla, ma finalmente se ne discuterà preventivamente in sede politica – il Parlamento – e non davanti ad un giudice, quando la legge sta già producendo i suoi effetti.

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