La coalizione? Uno specchietto per allodole

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di Antonio D’Andrea

Nel contesto parlamentare italiano, lontano da qualsiasi tradizione bipartitica e neppure predisposto a una stabile virata bipolare pur dopo il superamento della più che quarantennale legislazione elettorale proporzionale, ho sempre considerato la “vocazione maggioritaria”, sbandierata da una o più forze politiche in coalizione tra loro, un puro espediente elettoralistico. Come è noto, la “questione del Governo” ha tutt’al più riguardato, dal 1996 sino al voto del 2013, due coalizioni alternative più o meno variegate, ma tendenzialmente rissose al loro interno. L’attuale diciassettesima legislatura fa caso a sé, posto che le maggioranze, che si sono succedute nel sostenere prima il Governo Letta, poi quello Renzi ed infine l’Esecutivo Gentiloni, si possono considerare tutte nate in Parlamento a seguito di intese post elettorali tra gruppi e partiti molti dei quali non erano presenti al momento del voto politico.

La “vocazione maggioritaria”, dunque, rappresenta una specie di trucco diretto a presentare all’attenzione del corpo elettorale formazioni politiche, singole o aggregate, tutt’altro che definite nella loro identità (il che è persino naturale per le coalizioni) ma almeno con una leadership ben definita (nel 1996 Prodi batte Berlusconi, nel 2001 Berlusconi prevale su Rutelli, nel 2006 Prodi rivince su Berlusconi, nel 2008 Berlusconi sconfigge Veltroni e nel 2013 il confronto tra Bersani e lo stesso Berlusconi non si risolve con un esito favorevole a nessuno dei due per l’inatteso successo del M5S che, anche per le caratteristiche del sistema elettorale, impedisce l’emersione di una maggioranza di governo di centrosinistra al Senato).

Si potrebbe dire che la scomparsa dei partiti strutturati – quelli della c.d. Prima Repubblica – è stata e viene per quanto possibile ammortizzata da forme di leaderismo in grado di tenere insieme quel che resta di residuale dei partiti, divenuti purtroppo “ditte” o “conventicole” di apparati autoreferenziali protesi alla continua ricerca di un vero e proprio radicamento sociale che, nonostante il ricorso al web e a strumenti comunicativi inediti, al momento non sembra raggiunto a giudicare dal forte e crescente astensionismo. In sostanza, il partito o più facilmente la coalizione attraverso il leader cerca prima del voto di “catturare” consenso e seggi parlamentari per costruire, incassato il successo elettorale, una maggioranza di governo destinata in ogni caso a ricomprendere svariate forze politiche.

Non sfuggono perciò a questa complicazione strutturale dell’Esecutivo le preventive coalizioni della c.d. Seconda Repubblica, prima stimolate dalla sola logica sottesa al mattarellum e successivamente, approvato il porcellum, dalla stessa normativa che resta l’ultima concretamente applicata per le elezioni generali (solo nel 2014 ampiamente amputata dal giudice costituzionale). E tuttavia, in un caso e nell’altro, l’individuazione di un capo della coalizione, che se vittoriosa avrebbe dato vita al Governo, voleva significare per le forze politiche che ne facevano parte “stare insieme”, almeno nel breve-medio periodo della legislatura, oltre la prova elettorale. Il che accadeva risolvendo tra loro la questione non banale della leadership dell’organo esecutivo e senza alterare equilibri costituzionali che restavano incentrati sul ruolo formale del Capo dello Stato e sulle necessarie fiducie parlamentari.

In verità poi, nel corso della legislatura la coalizione di governo o si sfaldava (così è stato per il centrosinistra nella tredicesima e nella quindicesima legislatura dopo la caduta rispettivamente del primo e del secondo Governo Prodi, e per il centrodestra nella sedicesima legislatura dopo le dimissioni del quarto Governo Berlusconi che ha aperto la strada delle “larghe intese” con l’Esecutivo Monti) o finiva per vivere l’originaria intesa elettorale come un “cappio” che bisognava allentare ogni volta che fosse necessario (così è stato per il centrodestra nella quattordicesima legislatura che non a caso ha visto il succedersi del secondo e del terzo Governo Berlusconi e di numerosi, continui rimpasti ministeriali). La strumentalità dell’accordo elettorale vincente veniva sostanzialmente evidenziata piano piano, ma inesorabilmente dalla dinamica parlamentare. Sarà forse per questa ragione che nell’attuale imperscrutabile contesto politico-parlamentare, che sembra aver perduto, come ricordato, la caratterizzazione bipolare (la cui riviviscenza era il vero obiettivo del combinato disposto tra l’italicum e la grande riforma costituzionale renziana, respinta dal voto popolare del 4 dicembre 2016), la recente legge elettorale n.165 del 2017, approvata per l’elezione della Camera e del Senato, nel rendere possibile, ancora una volta, le intese coalizionali tra forze politiche (viceversa escluse dall’italicum che si sarebbe dovuto applicare alla sola Camera dei deputati e mai utilizzato), rinuncia del tutto a richiedere l’individuazione di un capo coalizione nel mentre prevede l’obbligo di indicazione del capo per ciascuna forza politica ancorché in coalizione con altre. In tal caso, neppure la colazione sembra poter aspirare ad avere una “vocazione maggioritaria”!

È la prova provata che la coalizione finisce per essere concepita dal legislatore “pasticcione” e improvvido come un semplice “specchietto per le allodole” che potrebbe essere utile esclusivamente per provare a sottrarre consensi ad altri laddove nei collegi uninominali – che peraltro costituiscono il 34% dei seggi disponibili – si riesca a esprimere un candidato di coalizione, il quale potrebbe avere maggiore speranza di successo rispetto a chi è sostenuto da una singola forza politica (come inevitabilmente accadrà per i candidati del M5S).
Il punto è che la coalizione in quanto tale, a parte i candidati comuni alle forze politiche alleate nei collegi uninominali di Camera e Senato, è dichiaratamente e diversamente dal passato del tutto priva di una leadership unificante e di specifiche e immediate convenienze (niente premi in palio e nessuno sbarramento differenziato per liste singole e in coalizione) cosicché anche gli eletti nella competizione maggioritaria è presumibile che rafforzeranno solo ed esclusivamente il partito di provenienza o quello che diverrà il partito di riferimento (quantunque il voto registrato nell’uninominale si estenda pro quota a tutte le forze della coalizione impegnate nella competizione proporzionale).

Una volta appurato che, dopo il voto, in vista della formazione di una maggioranza di governo, ciascuna coalizione di partenza potrebbe essere rimaneggiata, perdendo un pezzo e acquisendone un altro, resta da chiedersi perché ci si debba affannare così tanto nel riuscire a costruire, prima del voto, le coalizioni più larghe possibili poiché, in definitiva, conterà solo il peso parlamentare di ciascuna forza politica. Ogni soggetto politico, piuttosto, si misuri con gli altri senza rinunciare a verificare il suo specifico impatto con il corpo elettorale tanto nei collegi uninominali quanto in quelli plurinominali e, ove superasse il previsto uniforme sbarramento del 3%, valuti se e come impegnare il suo genuino peso parlamentare, tanto più che non viene ammessa alcuna forma di voto disgiunto, ragionando di intese e possibili programmi comuni solo a quel punto.

Piccoli decisivi passi di “igiene civica” potrebbero aiutare l’asfittico sistema politico nostrano a rilegittimarsi; solo la rinuncia a furbizie e tatticismi potrebbero servire a evitare e a non provocare esiti indesiderati.

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1 commento su “La coalizione? Uno specchietto per allodole”

  1. Dopo aver preso visione e della Costituzione e delle varie proposte per formare quei gruppi “coalizzati”, ho notato che le coalizioni sono alla fine associazioni a delinquere poltiche, dove si calpestano diritti dei cittadini pur di rimanere a scaldare poltrone e prendere soldi che loro non spettano perché eletti con inganno alla popolazione. Pertanto direi di guardare ed applicare gli articoli costituzionali che non è vero che prevedono le coalizioni, ma semmai il contrario (artt. 48 e 49 della Costituzione). Chi aderisce a coalizione è da denunciare per tradimento ed associazione a delinquere premeditata a fini politici e quel gruppo va cancellato da ogni elezione perché di intento criminale.
    Tacere su questo rende complici!!!
    Per fare meglio capire: stiamo mantenendo a costi altissimi un sacco di parassiti che stanno là dentro solo per soldi ed ainteressi personali. Tutti quelli se ne sbattono del “bene per l’Italia e per gli italiani” e lo dimostrano i vari giochetti. Consiglio di vedere su Wikipedia “Coalizione politica” e all’ultima parte dove parlano dell’Italia. Là è pure riportato come nel 1953 tentarono la prima truffa… oggi fatta divenire cosa normale per abitudine imposta!

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