Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: finalmente la legge

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di Ugo Adamo*

La legge approvata era attesa da decenni; finalmente l’Italia si uniforma ad altri Paesi (civili, nel senso di tutela di tali diritti) europei. Lo fa in ritardo e quindi segue tutta quella giurisprudenza (ed è ad essa conseguente) che negli anni è stata prodotta intorno al rapporto che intercorre tra libertà personale, scienza medica e sviluppo tecnologico, in particolar modo nelle fasi del fine vita (alla luce di qualche estemporanea, recente, affermazione politica, non è di certo secondario sottolineare che la materia riguarda chi è ancora in vita, sic!).

Negli anni, in mancanza di una legge, ai giudici è stato demandato un compito da essi “né richiesto né voluto”, ovverosia quello di rispondere (comunque) alle domande di giustizia che sempre più prepotentemente si ponevano (tutti ricordano i tristemente noti casi Welby, Englaro, Piludu, …) e ai quali di certo non si poteva denegare giustizia stante il principio del divieto del non liquet.

La mancanza di una legge ha altresì comportato finora che le decisioni giudiziali – in un sistema che non è di common law – determinate dai singoli casi, non siano state sempre uniformi, con la conseguenza di diseguaglianza che poteva generarsi, così come è stato, tra chi abitava in un luogo (circoscrizione giudiziaria) anziché in un altro, in quanto diverse potevano essere le decisioni dei singoli giudici.
I molti anni di lacuna legislativa sono stati dunque colmati dalle sentenze dei giudici di merito e di legittimità e dal rinvio alle fonti internazionali. Grazie a questo bagaglio giurisprudenziale e normativo ormai acquisito e dato per scontato, la legge appena approvata appare, nel complesso, conforme a Costituzione, in quanto (nella sua maggior parte) si è limitata a positivizzare tale ‘bagaglio’, ritenuto legittimo, anche nella parte in cui (si ricordi il caso “Englaro”) si prevede che è possibile “la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza”. Non permettere l’interruzione di un trattamento in corso determinerebbe come sua prima conseguenza (paradossale) quella di privare il soggetto interessato del proprio diritto fondamentale di rifiutare le cure (ex art. 32 Cost.) per il solo fatto di averne in un primo momento accordato il consenso.

Il testo di legge si apre con la prima ed organica disciplina sul consenso informato presente nel nostro ordinamento che si applica a tutti i trattamenti sanitari; vale a dire che una simile disciplina non è riferita (legalmente parlando) ad un unico trattamento come nel caso, ad esempio, della l. n. 40/2004 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita).
A valle di una giurisprudenza ultradecennale, ora si precisa in un testo di legge (art. 1, cc. 1-11) che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata”. Che diversamente non avrebbe potuto essere è facilmente rilevabile se si ricorda la sentenza n. 448 del 2008 della Corte costituzionale: “la circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo comma, della Costituzione”.

Strettamente correlata a quanto appena riportato è la previsione – che si accoglie con favore anche per la sua portata pedagogica benché ovvia – secondo cui “il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura” (art. 1, c. 8), essendo implicito che una relazione che possa essere definita di cura si debba basare sulla comunicazione chiara e completa tra i due soggetti della relazione medesima.
Almeno altre due previsioni risultano “lapalissiane”, anche se alla luce dei dibattiti degli ultimi anni ciò non pare del tutto scontato: in primo luogo, considerare la nutrizione e l’idratazione artificiali come veri e propri trattamenti sanitari (ai quali, quindi, si può liberamente rinunciare ex art. 32, c. 2, Cost.) e, in secondo luogo, esentare da responsabilità civili e penali il medico che dà corso alle volontà del paziente (previsione sicuramente non tautologica se si ricorda il caso Welby). Scrivere questo in un atto normativo generale ed astratto è davvero importante, in quanto pone un punto fermo al dibattito sulla materia in questione, per troppo tempo ancorato sulle posizioni del non possumus.

Con l’art. 4 fanno ingresso nel nostro ordinamento le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), anche se in qualche modo già conosciute grazie alla Convenzione di Oviedo e ad una interpretazione estensiva dell’istituto giuridico dell’amministrazione di sostegno. Con le Dat si riconosce la possibilità per qualsiasi soggetto di far valere le proprie determinazioni (il più possibile) vincolanti quando, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali – ed anche nell’ipotesi in cui non si indossino “le vesti del paziente” –, questi voglia liberamente decidere “ora per allora” su eventuali trattamenti sanitari che potrebbero riguardarlo e sui quali non fosse in condizione di prestare il consenso, manifestando la propria volontà mediante la redazione di un atto all’uopo previsto, appunto, per legge.

La Legislatura sta ormai per concludersi, per cui si deve salutare favorevolmente il consenso su un testo di legge che nel complesso si presenta come un ‘buon’ testo, soprattutto se si pensa che al Senato il disegno di legge giunto dalla Camera non poteva essere emendato solo per evitarne l’‘insabbiamento’. Buono, non significa, però, perfetto, e ciò anche per la constatazione che qualsiasi legge non è mai perfetta, quanto piuttosto perfettibile.
Non mancano quindi alcune criticità. Ci si riferisce in particolare al disposto dell’art. 4, c. 6, nel quale si prescrive che le DAT devono essere redatte “per atto pubblico o per scrittura privata autenticata”. Questa previsione pare davvero eccessiva – ricca di orpelli (come già osservava Stefano Rossi) –, anche se poi (ricordando che la regola fondamentale che si dovrebbe seguire per gli atti giuridici è quella della libertà di forma) si riconosce una certa ragionevolezza verso la fine del periodo del comma ora richiamato quando si ammette comunque la “scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all’annotazione in apposito registro, ove istituito”.

Un breve riferimento va fatto anche all’art. 1, c. 6, nella parte del testo in cui si consente al medico di disattendere le disposizioni anticipate di trattamento ove queste siano in contrasto con i “codici deontologici e la buona pratica medica; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”. Il rinvio al codice deontologico come se fosse un testo di legge pare quantomeno poco opportuno, stante il rischio di equipararlo ad una fonte primaria, con la conseguenza che l’espressione dell’autodeterminazione del paziente possa essere limitata da vincoli non determinati e chiaramente fissati in legge. Si legittimerebbe una sorta di obiezione di coscienza che non è, comunque, in alcun modo prevedibile dinanzi ad un mancato consenso ad un trattamento sanitario, non assicurato, in ipotesi, dalle DAT che sono una propaggine del consenso informato.
Il limite indicato nel rispetto della buona pratica medica – per cui deve essere negato il diritto di pretendere un qualsiasi trattamento, compreso quello inappropriato o sproporzionato, quello che non è valutato scientificamente valido (si ricordi il caso Stamina) ed ancora quello contrario alla legge (richiesta di pratica eutanasica) – è già riconosciuto dalla comune pratica giudiziale.

Alcune perplessità si pongono anche in tema di vincolatività e, quindi, con riguardo all’art. 4, c. 5, che concerne il contenuto e la portata, nonché i limiti (rectius i controlimiti) di operatività delle Dat. La norma legale non limita la possibilità di disattendere il contenuto delle Dat al suo essere diventato obsolescente («non corrispondent[e] alla condizione clinica attuale»), circostanza, quest’ultima, che avrebbe dovuto costituire l’unica e sola possibilità di mancata applicazione. Infatti, «fermo restando quanto previsto dal comma 6 dell’articolo 1, il medico è tenuto al rispetto delle Dat, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita». Se il concetto di «palesemente incongruo» rinvia alla questione di come si scrivono le Dat, non potendosi dare seguito a Disposizioni che dovessero risultare, anche con l’intervento del fiduciario, ‘non chiare’ (ad esempio perché il loro contenuto non riesce ad esprimere compiutamente la volontà del sottoscrittore), ciò che si deve intendere per «miglioramento delle condizioni di vita» rinvia non già alle mere condizioni cliniche che consentono la valutazione dello stato oggettivo della vita biologica, ma al vissuto e all’esperienza di esistenza, insomma alla vita biografica della persona, la cui titolarità non può in nessun modo essere consegnata totalmente, come una cosa, al sapere-potere medico, dovendo piuttosto rimanere nella disponibilità responsabile del soggetto che ne è consapevolmente interessato.
La morte è sempre più spesso diventata un processo, un percorso lungo, ospedalizzato, medicalizzato e per questo può divenire oggetto di scelte, in un’era in cui l’istituzionalizzazione dei sistemi di cura ha spostato il morente ‘dalla casa all’ospedale’, pur nella consapevolezza che la medicina non elimina la morte, ma ne prolunga il tempo dell’attesa.

La decisione espressa nelle Dat, che è libera da qualsiasi costrizione, avrà in primis delle ripercussioni sul soggetto che l’ha assunta. C’è da dire anche che le scelte contenute nelle Disposizioni hanno delle ricadute non solo ‘interne’, ma anche esterne-relazionali, nell’accezione psicologico-affettiva e giuridico-probatoria, ovverosia esse contribuiscono a diminuire il timore dei pazienti di perdere il controllo sul proprio corpo vissuto (il corpo che si è e non solo che si ha) e forniscono al medico una sicurezza rispetto a eventuali denunce future; ed in ultimo (ma non per ultimo, come si è soliti dire) sgrava la famiglia da quel senso ancestrale di colpa per ‘non aver fatto tutto il possibile’.
Il nostro Paese, dopo tanti anni di confronti e di scontri, dimostra tutto sommato la capacità di dare risposte di libertà e di dignità ad alcune delle inquietudini che si vivono nel tempo della pervasività della tecnica!

* Assegnista di ricerca di diritto costituzionale all’Università di Catanzaro

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