Ma cosa significa “rinunciare alla candidatura” (e all’elezione)? Ma è davvero possibile farlo anche adesso?

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di Giovanni Piccirilli *

Ci troviamo attualmente nel momento più delicato della campagna elettorale, quello nel quale la composizione dell’“offerta” è nota, e l’elettore deve orientarsi in vista della scelta da compiere il prossimo 4 marzo. Una parte non indifferente (e, anzi, forse addirittura determinante) dei votanti risulterebbe ancora indecisa e il nuovo sistema elettorale richiede un bilanciamento non necessariamente immediato tra scelta del candidato nel collegio uninominale e scelta della lista nella parte proporzionale, stante l’impossibilità di un voto “disgiunto”.

1. L’informazione sull’offerta elettorale perciò è cruciale, e non è un caso che, per la prima volta, il Ministero dell’interno abbia pubblicato sul proprio sito tutte le candidature presentate, sia per la Camera, sia per il Senato, in entrambe le parti maggioritaria e proporzionale, nonché per la circoscrizione Estero. Tra l’altro, la corretta informazione dell’elettore è garantita anche dalla disciplina sulla comunicazione politica definita dalla legge n. 28 del 2000 (cd. par condicio) che risulta particolarmente rigorosa, a tutela della libertà di voto, proprio in questa fase compresa tra la definizione delle candidature e il momento elettorale vero e proprio.

  1. Eppure, alcuni elementi di incertezza si addensano sulla competizione elettorale e sulla correttezza del dibattito politico: a seguito di notizie di stampa che denunciano la violazione di regole interne di alcuni partiti e movimenti politici (in prevalenza, ma non esclusivamente, riferite al MoVimento 5 stelle), stiamo assistendo a un rincorrersi di annunci sull’avvenuto “disconoscimento” di alcune candidature, imposto dall’alto e in certi casi addirittura accettato dagli stessi nomi in lista, sotto forma di una anomala “rinuncia” alla candidatura stessa e all’eventuale elezione successiva.

La casistica sta diventando ricca. Ci sono coloro che sono stati ricandidati e dei quali, un momento dopo, si è venuto a sapere il mancato rispetto alle regole (autoimposte) di restituzione di parte del trattamento economico ricevuto; altri che, per comportamenti privati, sono stati ritenuti indegni di rappresentare la propria parte politica (vedi il caso del candidato che beneficiava di un affitto super agevolato, e con presunti episodi di violenza privata a sfondo xenofobo); altri ancora che hanno pubblicamente sostenuto posizioni rigettate dai vertici della forza politica nelle cui liste si candidano. Più complesse sono le vicende dei candidati dei quali si è appreso successivamente essere affiliati a logge massoniche, ripudiati dal partito nelle cui liste erano stati inseriti, e che però non risulta abbiano accettato di “rinunciare” alla competizione elettorale (anzi…).

La questione è ben distinta dalle polemiche relative alla fase della composizione delle liste, pur non prive di episodi interessanti e variegati. Da quelli leggeri di fantacronaca rosa, ad altri più controversi, che sono passati per “minacce” di cancellazione dalle liste, successivamente rientrate con le abiure (e le conseguenti cancellazione dai social media) delle precedenti dichiarazioni contestate. Ed è altrettanto diversa dalla pur fisiologica linea dissenziente di un candidato che ipotizza “fughe in avanti” poi pubblicamente disconosciute dalla lista di appartenenza, con comunicati finalizzati a “prendere le distanze”.

La “rinuncia” alla candidatura, una volta che le liste sono depositate, appare un elemento dai contorni assai più indefiniti, benché avanzino velleità di formalizzazione, con tanto di predisposizione di un modulo da compilare e sottoscrivere e autenticare ai sensi del Testo Unico in materia di documentazione amministrativa, nonché con un sicuro “effetto annuncio” di chiaro impatto sulla comunicazione politica (e, dunque, sulla formazione della scelta da parte dei cittadini elettori).

  1. Ma, di preciso, che cosa significa tutto ciò? È possibile a questo stadio eliminarsi volontariamente dalla competizione elettorale, modificando la composizione delle liste e dunque cambiando i candidati sui quali i cittadini saranno chiamati a esprimersi e, intanto, si stanno informando a quel fine?

Una ipotesi di soluzione è stata accennata autorevolmente da Michele Ainis su Repubblica e sarebbe quella di seguire una procedura in qualche modo segnata dalla stessa legge elettorale (art. 22, comma 6-ter, del dPR 361 del 1957) e sulla quale insistono le Istruzioni per la presentazione e l’ammissione delle candidature elaborate dal Ministero dell’Interno. Secondo la soluzione prospettata, la rinuncia alla candidatura dovrebbe avvenire nelle medesime forme con cui la si è accettata, inclusa la simmetrica presentazione dell’atto di rinuncia alla cancelleria della Corte d’appello o del Tribunale del capoluogo di Regione, ossia dove si è presentato l’atto di accettazione della candidatura a cui si vorrebbe rinunciare. Al deposito di questa rinuncia, seguirebbe uno “slittamento verso l’alto di tutta la lista” (p. 91 delle citate Istruzioni), avvalendosi anche dei “supplenti” che sono necessariamente indicati in sede di presentazione. Sempre secondo la tesi prospettata, non vi sarebbe termine per operare tale rinuncia, se non la conclusione delle operazioni elettorali, perché nelle Istruzioni del Ministero (sempre p. 91) si specifica che essa “possa intervenire fino alla conclusione di tutti gli adempimenti dell’Ufficio”.

Una simile soluzione, a modesto avviso di chi scrive, non risulta convincente, sia sulla base di una ulteriore valutazione delle stesse fonti utilizzate dal prof. Ainis, sia sulla base di considerazioni di carattere sistematico. Il punto di dissenso è sul termine per l’esercizio della rinuncia alla candidatura ai sensi del citato art. 22, comma 6-ter, che sembrerebbe ipotizzabile esclusivamente quando il procedimento di deposito e controllo delle liste è ancora in corso, e non anche successivamente alla definizione di queste. Le fasi del procedimento elettorale disciplinate dal citato art. 22, infatti, si collocano all’interno di una serrata scansione temporale che si conclude, ai sensi del successivo art. 24, con la comunicazione ai delegati di lista delle “definitive determinazioni adottate”, cui seguono la trasmissione alla prefettura del comune capoluogo di Regione delle liste ammesse, con i relativi contrassegni, dando via alla fase di riproduzione delle schede elettorali e dei manifesti che comunicano agli elettori la composizione dell’offerta elettorale (nonché, ora, alla diffusione mediante il sito internet del Ministero).

Inoltre – e, all’apparenza, conclusivamente – le Istruzioni del Ministero dell’Interno specificano (a p. 92, quella esattamente successiva rispetto al passaggio citato da Ainis) che “un’eventuale rinuncia alla candidatura potrà essere prodotta […] entro la conclusione di tutti i lavori di controllo e prima della comunicazione ai delegati delle conseguenti delibere finali sulle liste da parte degli Uffici predetti”. Dunque, il termine per la presentazione delle rinunce si colloca non alla conclusione di “tutti” gli adempimenti dell’Ufficio elettorale circoscrizionale, ma solo di quelli relativi alla definizione delle liste. L’obbligo di indicare supplenti in sede di presentazione delle liste medesime non appare recare elementi utili a quanto interessa, avendo questi l’unica funzione di garantire una eventuale integrazione delle liste all’interno dell’accennato procedimento di presentazione e controllo delle stesse, facendo sì che, nel caso in cui una o più candidature venisse meno in quanto irregolare, la lista non decada per mancato raggiungimento del numero minimo di candidati. A maggior ragione, non si comprenderebbe come mai tale meccanismo non operi allora a seguito di decessi di candidati – eventualità tristemente nota, e non priva di precedenti – nel periodo compreso tra la presentazione delle liste e il momento del voto. Provando a alzare lo sguardo: se il diritto elettorale ha bisogno di qualche “stabilità” a tutela della libertà del voto (come ci ricorda la Commissione di Venezia nel suo Codice di buona condotta elettorale), l’offerta elettorale tra la presentazione delle liste e l’espressione del voto – sulla base degli stessi principi, che sono principi del “patrimonio elettorale europeo” e, ancor prima, della nostra Costituzione – deve invece essere del tutto “cristallizzata” (così, opportunamente, L. Trucco, Contenzioso elettorale e verifica dei poteri tra «vecchie» e «nuove» questioni, in Rassegna parlamentare, 2006, p. 809 s., spec. 818).

Dal punto di vista sistematico, riprendendo le considerazioni accennate in apertura, apparirebbe pericoloso flessibilizzare la composizione dell’offerta elettorale, dovendosi tutelare, da una parte, la stabilità degli elementi strumentali alla formazione della coscienza dell’elettore (e dunque alla sua libertà) e, dall’altra, la libertà del singolo candidato rispetto al partito di appartenenza. Più che di assenza/divieto di vincolo di mandato (che ancora deve iniziare), di cui all’art. 67 Cost., di questa interpretazione sembra trovarsi, in nuce, conferma nel pur contestato e in buona parte antistorico (e tuttavia vigente) art. 66 della Costituzione, che infatti affida alle Camere, e non alla giurisdizione (ordinaria o amministrativa), il contenzioso elettorale: tutto il contenzioso elettorale, anche quello sulle fasi preparatorie (che pure le Camere si rifiutano da sempre di operare). E questo perché – per quanto possa apparire strano – anche le candidature rientrano nella fase di verifica dei poteri, intesa in senso ampio di tutela della funzione del rappresentante (reale o potenziale) rispetto alle influenze esterne e, in primis, a quelle del suo partito.

In conclusione: una volta definite le opzioni per l’esercizio del diritto di voto il rapporto bilaterale (privatistico) tra il cittadino candidato e la lista che lo “ospita” viene soppiantato da un diverso rapporto “trilaterale” tra: i) il candidato che per mezzo della lista (che è tuttavia mero strumento per l’esercizio del diritto di voto) si sottopone al voto popolare, ii) il popolo, che è chiamato a esprimersi, e iii) le Camere, che sono chiamate a intervenire, se del caso, a tutela della correttezza delle operazioni di voto, in forza della riserva operata dall’art. 66 Cost.

  1. Insomma, a questo punto, chi c’è, c’è. I partiti hanno esercitato le loro scelte nella selezione dei candidati e i cittadini stanno valutando come esprimersi (anche) sulla base di questo. Il meccanismo elettorale farà il suo corso con le liste depositate e pubblicate. E gli uffici elettorali procederanno alla proclamazione degli eletti, secondo i risultati delle urne. Dunque, ancorché sgraditi, ritenuti indegni, o pentiti e volenterosi di “lasciare” (a parole), se collocati in posizione utile quei candidati saranno eletti al pari degli altri. In caso di candidatura (ed elezione) plurima, saranno comunque soggetti al meccanismo automatico di individuazione del collegio di elezione (85, comma 1, dello stesso dPR) facendo così conseguire l’elezione dei primi dei non eletti negli ulteriori collegi plurinominali.

Solo una volta entrati in Parlamento potranno, secondo la prassi, presentare le proprie dimissioni, in forma (allora sì) scritta, attivando tuttavia un duplice ed evidente paradosso. Per un primo profilo, è singolare il ricorso allo strumento delle dimissioni, che sarebbero “atto di volontaria rinunzia ad una funzione da parte del soggetto di essa investito” (così A. Placanica, Dimissioni (di parlamentari), in Bollettino di informazioni costituzionali e parlamentari, 1994, n. 1, p. 187), mentre qui di volontario sembra esserci ben poco nell’iniziativa, potendosi al limite parlare di adesione, se non di acquiescenza. In secondo luogo, perché l’esito positivo delle dimissioni non dipende dalla sola volontà dell’eletto (ancorché riluttante rispetto alla sua stessa elezione): esse necessitano del voto dell’Assemblea a tutela (guarda un po’…) della libertà del parlamentare, dell’assenza di un mandato imperativo, e insomma per evitare pressioni esterne, provenienti magari proprio dalla forza politica di appartenenza (!!!). Coerentemente con questa prassi, la manualistica parlamentare ci ricorda che, per prassi, in passato le dimissioni venivano sempre respinte, al fine di consentire una loro reiterazione che confermasse in via ultimativa la volontà di porre termine al mandato.

Insomma, nonostante le dichiarazioni di questi giorni, se il candidato sedicente rinunciante risultasse eletto e però avesse un ravvedimento sulla via dello scranno, nessuno potrebbe negargli la prosecuzione del mandato. Nemmeno la recente modifica del regolamento del Senato, che impedirebbe ai “rinunciatari ravveduti” di fondare un proprio gruppo (mancando questo fantasioso raggruppamento di un autonomo simbolo sulla scheda), ma non di aderire al gruppo misto o addirittura a uno degli altri gruppi, formati a partire da liste concorrenti a quelli della loro elezione.

  1. Tra l’altro, ammesso e non concesso che gli impegni annunciati vengano poi rispettati una volta fatto ingresso in Parlamento, va fatta una precisazione non secondaria: almeno in alcuni casi si tratta di candidati nei collegi uninominali, per i quali l’eventuale elezione e successiva rinuncia condurrebbe a una elezione suppletiva. E tuttavia, alla luce dello specifico sistema di espressione di voto introdotto con la nuova legge elettorale (che, com’è noto prevede il meccanismo del voto “fuso”, ossia l’impossibilità di voto disgiunto tra collegio uninominale e parte proporzionale), la consapevolezza di avere un candidato “rinunciatario” potrebbe certamente influenzare le scelte di voto, già costrette in qualche modo a bilanciare voto identitario e scelta diretta del candidato preferito.

Per un qualche divertissement può essere utile ricordare che l’eletto e subito dimesso risulterà comunque aver fatto parte dell’organo, ovviamente riceverà per il periodo del mandato (che potrebbe comunque durare qualche tempo, al fine dell’espletamento del menzionato procedimento) l’indennità e le provvidenze economiche ulteriori, e – a seconda delle tempistiche per il perfezionamento del procedimento di dimissione – un assegno di fine mandato (benché, nel caso, di assai modesta entità, atteso che questa sarebbe comunque commisurata alla durata del mandato stesso). Non spetterebbe invece, alla luce delle modifiche intervenute nelle ultime legislature, il trattamento previdenziale o vitalizio, posto che la breve durata del mandato non potrebbe raggiungere la durata minima sufficiente a conseguirlo. Avrà però diritto a quei fringe benefits ai quali accedono tutti gli ex membri dell’assemblea rappresentativa, indipendentemente dal periodo di permanenza in carica. Almeno fino a qualche anno fa, la possibilità di avvalersi delle Amministrazioni parlamentari per l’istruzione delle pratiche, della tenuta dei conti e ogni altra incombenza inerente la previdenza e assistenza degli ex parlamentari (nonché dei loro familiari), il contributo per spese funerarie, il beneficio delle diverse convenzioni stipulate con società esterne, e altre “piccole”, ma simbolicamente non irrilevanti, dotazioni.

In conclusione, ben lungi dal riguardare questioni economiche (pur non irrilevanti e simboliche) la questione degli annunci di rinuncia alla candidatura e all’elezione ricorda molto da vicino quella delle cd. “dimissioni in bianco” (una pratica propria del Partito comunista di vari decenni fa) fatte firmare ancor prima delle elezioni e, anzi, oggi si “aggrava” del fine specifico di trarre vantaggio nella competizione elettorale proprio mediante simili annunci. Questo tipo di atteggiamenti sottolinea una volta di più l’incredibile (e inaccettabile) tensione cui sono sottoposti il rapporto rappresentativo e lo stesso atto di conferimento del mandato da parte della Nazione a ciascuno dei suoi rappresentanti (e non a soggetti intermediari, ben poco identificabili e verificabili). Mai come nel periodo più recente l’assenza/divieto di vincolo di mandato è divenuta oggetto di polemica politica, smarrendo finanche la percezione di quanto invece sia strumento indispensabile affinché proprio quella possa svolgersi in un contesto qualificabile come minimamente democratico.

* Ricercatore di Diritto costituzionale, Dipartimento di Giurisprudenza – LUISS Guido Carli, gpiccirilli@luiss.it

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3 commenti su “Ma cosa significa “rinunciare alla candidatura” (e all’elezione)? Ma è davvero possibile farlo anche adesso?”

  1. I problemi discussi sono creati gratuitamente dalla legge con scopi ben precisi : la sostituzione del voto individuale con un voto di lista degli eletti permette il controllo degli eletti da un potere di fatto, cioè da chi dirige il partito. Le liste elettorali possono essere utili, ma sono uno strumento rischioso, da regolamentare con cura: http://www.lavoce.info/archives/48904/legge-elettorale-usi-abusi-delle-liste/. Nonostante le sentenze permissive della Consulta (1/2014 e 35/2017) le leggi 270/2005 Porcellum, 52/2015 Italicum e ora 165/2017 Rosatellum sono incostituzionali perché liste preordinate rigide, candidature bloccate e parlamentari nominati dai partiti invece di essere eletti dai cittadini violano gli articoli 1, 48 e 67 della Costituzione. Non basta dichiarare come fanno i giudici nella sentenza 1/2014 che liste ordinate bloccate sono utilizzate anche in Spagna e in Germania per metà dei deputati per giustificarle a condizione che siano corte o se valgono solo per una parte degli eletti.

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