Ancora in margine alla sentenza della Cassazione: libertà di espressione e dovere di informarsi

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di Fabio Ferrari

I commenti negativi sulla sentenza della Cassazione in tema di stupro continuano a sprecarsi: quanto siano perlopiù affermazioni prive di alcun senso giuridico – e prima ancora logico-razionale, visto che le motivazioni non sono ancora state pubblicate – è già stato ampiamente chiarito (Bin).

C’è effettivamente da rimanere stupiti innanzi al livello del cosiddetto dibattito sul tema, ma appena si tenta di entrare tecnicamente nel merito ci si scontra immediatamente con la mitologia del ‘diritto al libero pensiero’, vedendo così scomodato addirittura un vero e proprio pilastro della Costituzione (e del costituzionalismo occidentale in generale), ossia il principio espresso dall’art. 21 Cost.

Qui, però, l’art. 21 c’entra poco, ed è forse necessario provare a fare un minimo di chiarezza.

Nessuna teoria democratica nega il ruolo fondamentale dell’opinione pubblica, e della stampa che la alimenta, ai fini della tenuta ‘concreta’ dell’intero sistema: il fatto che i cittadini – tutti i cittadini, intellettuali e non – discutano, riflettano, si confrontino quotidianamente sulla cronaca istituzionale e sociale è il sale di ogni regime che pretenda di essere basato sulla volontà popolare e sui diritti fondamentali. Nell’Ottocento – epoca in cui i giudici non erano visti esattamente di buon occhio, perlomeno quando pretendevano di esercitare qualcosa di simile all’attuale sindacato costituzionale – si teorizzava addirittura che il vero contro-potere fosse incarnato, appunto, dalla stampa e dall’opinione pubblica: per Hegel il giornale quotidiano era la preghiera mattutina del laico; Jefferson riteneva preferibile – ai limiti del controsenso – avere giornali senza Stato, piuttosto che Stato senza giornali; un po’ meno entusiasta sul punto era Tocqueville, ma il succo del discorso, per lui e molti altri, non cambiava.

In linea di principio, dunque, non può che essere benvenuta l’attenzione suscitata nell’opinione pubblica da sentenze come quella in oggetto.

Ma c’è un ‘ma’: un enorme ‘ma’. Uno dei presupposti sui cui si basa ogni democrazia è la conoscenza, ossia la consapevolezza di ciò di cui si sta parlando: è importante guardare ancora all’Ottocento, perché è in quel secolo che i primi vagiti di democrazia iniziano a risuonare, ed è in quel secolo che lo Stato liberale – genitore più o meno rinnegato dello Stato costituzionale, ma pur sempre genitore – si perfeziona. Ebbene, i dibattiti parlamentari dei padri fondatori restituiscono nitidamente il loro acume culturale; senza voler sovrastimare l’elogio dei tempi passati, essi tendenzialmente sapevano di cosa stavano parlando. Leggi elettorali, teorie politiche, sistema costituzionale: gli archivi (per chi volesse approfondire Italia, Francia, USA) evidenziano come le Camere fossero popolate da persone perlopiù competenti, le quali avevano chiara la portata dei problemi fondamentali trattati (almeno nella fase ‘costituente’). Ciò, peraltro, valeva anche per i loro elettori, e non per nostalgie apologetiche di chi scrive, ma per motivi ‘tecnici’: l’elettorato era garantito a percentuali irrisorie della popolazione, debitamente scelte su criteri di censo – i famosi notabili – e, inevitabilmente e conseguentemente, di cultura generale. Era una rappresentanza ‘assediata’ dalle violente rivendicazioni delle piazze popolate dai poveri e dai meno abbienti: elitaria, piena di contraddizioni e brutalmente autoreferenziale; ma per quanto qui interessa, popolata da gente (almeno un minimo) competente.

Quando, nella seconda metà dell’Ottocento, iniziò seriamente a sbocciare il movimento operaio, sotto questo profilo le cose non cambiarono: si trattava senz’altro di persone meno acculturate rispetto alla borghesia e all’aristocrazia, ma pure in questo caso gli adepti avevano consapevolezza almeno delle questioni che li riguardavano; i partiti di ‘sinistra’ nacquero in primis – appunto – dalle e nelle fabbriche, cioè in mezzo a quegli operai che per primi vivevano sulla propria pelle le condizioni di vita e di lavoro non esattamente idilliache contro cui si coalizzarono. Certo, alle spalle c’era il respiro teorico di un Marx o di un Engels, ma ciò non toglie che i temi portati dalla ‘cronaca’ erano, perlomeno pro quota e in gran parte, nella disponibilità culturale dei contendenti.

Non sono precisazioni da poco.

Oggi, le questioni ‘pubbliche’ sottoposte all’attenzione di ogni singolo cittadino sono innumerevoli, e abbracciano una complessità che trascende le specifiche competenze di ciascuno; nonostante ciò, la retorica (nel senso più alto del termine) dei diritti fondamentali (compreso il diritto al libero pensiero) tende a dare per scontato, per assodato, quel sapere che dovrebbe porsi a presupposto del riflettere, e ancor più del giudicare. Tende, forse, a dare per acquisito pure quel minimo di complementarietà logica che dovrebbe esistere tra diritti e doveri.

La Costituzione, al contrario e sebbene si preferisca non ricordarlo, è molto più tignosa sul punto; l’art. 21 Cost. è infatti ‘affiancato’ da altri precetti che in un certo senso lo strutturano; norme altrettanto importanti ma scomode, e per questo spesso condannate all’oblio: gli artt. 33 e 34 in tema di istruzione, per esempio, e ancor più il ‘famigerato’ art. 54, il quale impone ai cittadini di osservare (e, dunque, conoscere) le leggi e la Costituzione. Si tratta, almeno in quest’ultimo caso, di norme la cui inottemperanza non cagiona sanzione, purtroppo. Ma questo non le rende meno rilevanti per la tenuta del sistema.

Il diritto alla libera manifestazione del pensiero è, appunto, un diritto, non un dovere: non è obbligatorio esprimere necessariamente la propria opinione; il fatto che sia giuridicamente consentito farlo – e ci mancherebbe pure altro – non significa che sia sempre opportuno comportarsi di conseguenza. Forse, bisognerebbe iniziare ad affiancare alla (giusta) retorica dei diritti la retorica dell’ascolto, e della riflessione debitamente informata: in una parola, dei doveri.

Un’ultima considerazione.

È davvero sorprendente che parte dei commenti ‘gratuiti’ sulla sentenza provengano da tecnici, in particolare da alcuni giornalisti e avvocati; proprio da quei soggetti, cioè, che più di altri dovrebbero aiutare il cittadino comune a comprendere la questione.

L’avvocato, secondo il codice deontologico, è tenuto a comportarsi con «probità, dignità, decoro…» sempre e comunque, anche fuori dall’esercizio della sua professione (art. 9). Il giornalista, dal canto suo, è tenuto a rispettare la «verità sostanziale dei fatti», come prescritto dalla legge e confermato dal recente «testo unico dei doveri del giornalista» (artt. 1 e 2).

Detto sottovoce, e con il massimo rispetto per le competenze e il lavoro altrui: sarebbe davvero troppo sperare in un sussulto dei rispettivi Ordini? Non tutte le norme, per fortuna, sono prive di sanzione.

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