I primi 100 giorni e le novità nelle prassi di governo

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di Giovanni Di Cosimo

La grande novità istituzionale del governo gialloverde è che non lo guida il Presidente del Consiglio. O meglio, formalmente sì, sostanzialmente no. L’esperienza dei primi cento giorni conferma l’impressione iniziale che si basava sulla originale modalità di formazione del Governo tutta incentrata sull’accordo fra i due partiti (il ‘contratto’), piuttosto che sulla persona dell’incaricato.

Queste settimane estive hanno mostrato chiaramente che la linea politica viene dettata dai due vicepresidenti, capi dei rispettivi partiti (qui non interessa se conta più l’uno o l’altro). I drammatici eventi di agosto sono stati affrontati in base alle direttive e alle decisioni di uno o entrambi (qui non interessa il merito di quanto è stato deciso). Quando il Presidente del Consiglio è intervenuto ha avallato la linea dettata dai dioscuri (qui non interessa se condividesse o meno). Nelle situazioni in cui il richiamo al ‘contratto’ non è stato risolutivo, i due hanno guadagnato ampi margini di manovra (qui non interessa se sia realistica l’idea che l’azione governativa sia interamente predeterminata dal ‘contratto’).

Lo stesso Presidente del Consiglio ha implicitamente confermato in un’intervista rilasciata a Lucia Annunziata che non intende dirigere la politica generale del Governo, come, diciamolo per inciso, invece vorrebbe la Costituzione repubblicana. Nell’intervista, dal titolo “Cento giorni da avvocato del popolo”, dice infatti che non è interessato a mettersi in prima fila e il ruolo che ha ricavato per sé è quello del giurista che studia i dossier e ne segue l’attuazione. Compito sicuramente importante, considerata anche una certa inconsapevolezza degli aspetti giuridico-amministrativi mostrata talvolta dai dioscuri (qui non interessa se annunci clamorosi e dichiarazioni roboanti risolvano i problemi). E tuttavia, si tratta di un compito che dovrebbe essere assolto dai funzionari della Presidenza del Consiglio, oppure da consulenti. Casualmente l’attuale inquilino di Palazzo Chigi è un giurista, ma il suo incarico è politico non tecnico (qui non interessa se proprio le competenze giuridiche dovrebbero fargli apprezzare il valore dell’art. 95 della Costituzione che attribuisce al Presidente la guida del Governo).

Insomma, la prassi si è allontanata dal testo costituzionale, come è capitato altre volte in passato per altri aspetti. La Costituzione stabilisce che la politica generale del Governo sia diretta dal Presidente ma di fatto dirigono i vicepresidenti. Ciò comporta almeno tre conseguenze importanti.

Intanto, sulla struttura del Governo. Nella prassi è cambiato l’assetto dell’Esecutivo che ora si presenta come una diarchia. Dopo la diarchia fra Mussolini con il Re, è la volta di quella dei vicepresidenti. È così di fatto, non di diritto, il Presidente potrebbe sempre recuperare la pienezza del ruolo che la Costituzione gli assegna (o, almeno, ma solo in punto di fatto, pretendere un triunvirato), ma dovrebbe acquisire un reale peso politico.

In secondo luogo conseguenze sulla forma di governo. In astratto questa situazione avrebbe potuto indebolire il Governo, sprovvisto di una chiara e univoca guida. Invece, finora, è vero il contrario. L’Esecutivo è il protagonista assoluto della scena politico-istituzionale. La sua forza deriva soprattutto dalla circostanza che i dioscuri comandano sui rispettivi partiti. Dopo tanto parlare di crisi dei partiti, siamo entrati in una fase di assoluta centralità dei partiti di governo e, prima ancora, dei loro leader (qui non interessano le ragioni del largo consenso che i sondaggi attribuiscono alle due formazioni politiche). Il Parlamento, invece, non è finora quasi pervenuto. E non solo perché uno dei partiti teorizza che la democrazia rappresentativa sia ormai superata (qui non interessa se sia un’idea più irrealistica o più dannosa). Ma anche, appunto, perché il Governo monopolizza la scena e la maggioranza, disciplinatamente, glielo consente (qui non interessano le ragioni della sostanziale irrilevanza della minoranza).

In terzo luogo conseguenze sulla coerenza dell’azione governativa. Ad oggi i dioscuri operano in perfetta sintonia (qui non interessa se sarebbe meglio un coordinamento preventivo, piuttosto che aggiustamenti di rotta successivi). Bisogna riconoscere che per il momento l’assetto a due teste funziona, per quanto il Governo sia atteso alla prova vera, quella della manovra di bilancio. Tuttavia, ogni vicepresidente mira inevitabilmente a realizzare il suo programma elettorale e quindi l’azione governativa oscilla da un lato all’altro.

 

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2 commenti su “I primi 100 giorni e le novità nelle prassi di governo”

  1. Analisi molto interessante di una democrazia in transizione: 1) da parlamentare a diarchia assoluta della maggioranza 2) da antipartitica a esclusivamente partitica 3) da esecutivi sequenzialmente abbattuti dal Parlamento a esecutivi che decidono al posto del Parlamento (ricordiamo che fra elezioni e reimpasti il 50% del tempo – 35 anni – l’attivitá amministrativa é rimasta sospesa in attesa di avere un nuovo governo) 4) da democrazia rappresentativa parlamentare a «democrazia diretta» che peró nel fratempo non si é né vista né intravista (sebbene questo fosse il desiderio degli elettori). — Uno stato di confusione certamente generato da fattori di contesto globale, ma anche dall’incapacitá dei precedenti governi di incidere positivamente sulla Qualitá della Vita dei Cittadini. Uno stato di confusa nebbia che non si dirata e non mostra né cambianti verso una democrazia piú efficiente ed efficace, né in direzione di una maggiore partecipazione diffusa (semmai accelera l’accentramento dei poteri), non dá segno di modificare gli indicatori della Qualitá della Vita e per giunta sembra quasi eseguire ciecamente gli ordini di poteri potenti e corporativi estranei alle funzioni dello Stato.

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  2. Giustissimo. Se posso aggiungerei questo: L’evento politico più sorprendente è che dopo la stagione iper-maggioritaria (2005-2006) e l’adozione al novantesimo minuto della quarta legge elettorale in 20 anni (senza contare le due soluzioni giurisprudenziali), ora proporzionale a cooptazione, i due partiti comunemente considerati più populisti, da numerosi punti di vista su posizioni opposte, ma accomunati dalla contestazione di un certo establishment (oltre i precedenti governanti non solo i poteri forti ma anche il consenso scientifico), siano riusciti ad allearsi per formare un governo – che potrebbe anche durare un’intera legislatura. Un secondo punto forse ancora più incredibile è che il leader di un movimento che fino quattro anni faceva fatica a superare le soglie nazionali di sbarramento è riuscito prima a raccogliere il 17% dei voti, poi ad allearsi con un suo naturale avversario per dominare l’agenda del governo e beneficiare ora di consensi pari al 32%, e comunque più del 60% come coalizione di governo. Il terzo punto innovativo è che il vice-primo ministro dominante sta rovesciando le alleanze internazionali del paese mettendosi contro i partner tradizionali (e forse pure naturali) in Europa, e nel mondo, in un gioco di poker di cui le carte saranno scoperte a metà 2019. Infine un quarto punto clamoroso, ma questo in linea con la politica italiana della maggior parte degli ultimi decenni, è che la politica della maggioranza, intesa come annunci più che come atti e fatti, persegue apertamente obiettivi insostenibili, contraddittori, erratici, imprecisi, divergenti da quelli degli altri paesi dell’euro-zona, dannosi per le finanze pubbliche a breve e a lungo termine, pericolosi per l’intera zona, ma oggetto del dibattito pubblico quotidiano come se si trattasse di argomenti seri, razionali, utili e in qualche modo realizzabili. Tutto in apparenza perfettamente democratico. C’era qualcuno (anzi due) che quasi 100 fa è partito con caratteristiche (estremista, populista), comportamenti (provocatori, ricattatori) e successi (consenso nazionale) altrettanto sorprendenti. Ha (hanno entrambi) fatto storia.

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