Contratto di governo, intese con le regioni e altri modi per emarginare il Parlamento

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di Glauco Nori

Sembra che sia un momento buono per il contratto e per quello che gli assomiglia. Almeno a parole, regolerebbe anche l’azione del governo attuale. Nemmeno chi lo fa valere può pensare che rientri nella sfera dell’art.1321 c.c.; alla figura del contratto tutto lascia presumere che si sia fatto ricorso per mettere fuori discussione le obbligazioni che ne deriverebbero, da eseguire in ogni caso.

Stando a quello che si è sentito, il consenso ricevuto dagli elettori sul proprio programma avrebbe attribuito ad ogni partito qualche cosa che andrebbe al di là dell’autonomia privata sulla quale il contratto è fondato. Ogni elettore si è espresso su uno solo dei programmi proposti in concorrenza; col c.d. contratto sono stati messi insieme programmi diversi sulla cui fusione parziale gli elettori non si sono espressi. Per coordinarli, sono stati solo ridotti di numero senza verificare, stando sempre a quanto si sa, che fossero realizzabili contemporaneamente. Non ci sono elementi, nemmeno presuntivi, da cui ricavare che i due programmi, messi insieme, avrebbero ricevuto la stessa somma di voti. È come se ogni parte politica avesse detto agli elettori: datemi i voti, poi deciderò in quale misura e come realizzare il programma che avete votato, anche insieme con uno di quelli che non ha ricevuto il vostro consenso, non importa se non compatibile. Con il voto le parti del contratto sarebbero state investite di una specie di autonomia, esercitabile sul piano politico, che consentirebbe di realizzare anche qualcosa di diverso da quello che gli elettori hanno voluto.

Qualcuno ha fatto rilevare che lo stesso si verifica in tutti i governi di coalizione, fondati sempre su programmi diversi. Che le due situazioni siano sovrapponibili non è così sicuro come si vorrebbe far credere.

Tutti i programmi elettorali sono incompatibili tra di loro, in misura diversa. I partiti, quando hanno concorso nello stesso governo, hanno verificato quali fossero le proposte rispettive compatibili con adattamenti, concordando di realizzarle, anche se non integralmente, secondo le opportunità del momento.

Da questo governo alcune parti dei programmi rispettivi sono state messe insieme integralmente, senza modifiche, e inserite nel c.d. contratto per farne derivare vere e proprie obbligazioni a carico di ciascuna delle formazioni politiche, tenute ad adempiere senza condizioni. L’obiettivo comune, almeno quello dichiarato, sarebbe la ripresa dell’economia, battendo strade nuove. Ogni partito si è dimostrato convinto, almeno a parole, che una parte del suo programma sia utile per quel risultato. Il ricorso alla figura del contratto è segno della diffidenza reciproca; si è voluto sottolineare che, su quanto concordato, non si sarebbe potuto più discutere. Le conseguenze si sono viste in occasione della legge di bilancio: c’è stata una distribuzione paritetica delle risorse in modo che nessuno apparisse come prevalente. Per la stessa ragione, e non solo per la ristrettezza dei tempi, si è evitata la discussione in sede parlamentare perché inutile, dati i vincoli contrattuali.

La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il conflitto di attribuzione che è stato proposto. Non era difficile prevederlo e in effetti, da chi era al di fuori della diatriba, era stato previsto. Far cadere la legge di bilancio avrebbe creato difficoltà che la Corte costituzionale non se l’è sentita di provocare. C’era un precedente, la sentenza sulla c.d. manovra Amato che è ancora ricordata per avere imposto un prelievo tributario sui depositi bancari. La Corte, in pratica, ha detto la stessa cosa: per questa volta passi, ma guardatevi dal ripeterlo. E non è un caso che il prof. Amato sia oggi uno dei Giudici costituzionali.

Sarebbe stato interessante sapere cosa pensi la Corte costituzione della trasposizione nell’attività di governo della figura del contratto, inteso come fonte di vere e proprie obbligazioni. Non è sicuramente quella attuale la situazione più adatta per affrontare il problema, ma prima o poi sarebbe il caso di proporselo. Al c.d. contratto i partiti, o chi li sostituirà, potrebbero essere tentati di ricorrere quando, con programmi incompatibili, ciascuno vorrà garantirsi che sia eseguita la parte che più gli interessa.

Quello che andrebbe chiarito non è se si tratti di un contratto solo di immagine, ma se si possano creare vincoli preventivi, non rinegoziabili successivamente, per un’attività di governo che per natura dovrebbe essere adattabile alle contingenze. Sembrerebbe, sempre che si possa dare credito ad alcune dichiarazioni, che, in caso di inadempienza, si andrebbe alla crisi di governo e non all’aggiornamento del programma; anche se ci si dovesse arrivare, sempre stando alle dichiarazioni, i sacrifici politici dovrebbero essere corrispondenti.

Che poi di fatto le cose vadano diversamente non sembra sufficiente a rendere legittimi quei vincoli, almeno per come risultano intesi. La crisi dei partiti tradizionali aggrava i pericoli. Con i loro difetti, almeno consentivano all’interno una qualche discussione. Oggi si sente solo adoperare “io”; “noi” è passato di moda, ed un “io” seguito dal tempo all’indicativo, mai dal condizionale.

L’idea, in fondo, non è del tutto nuova perché qualche cosa che gli assomiglia si trova nella Costituzione e non è un caso che se ne stia tentando l’attuazione proprio ora. È in discussione, e piuttosto vivace, la questione delle maggiori autonomie regionali. Ci vuole una legge sulla base di una “intesa” tra lo Stato e la Regione interessata. Non si parla di contratto: chi ha scritto il terzo comma dell’art. 116 non è arrivato a tanto. Secondo la tesi, che sembrerebbe prevalente, le Camere avrebbero la sola possibilità di dire sì o no all’intesa, non di modificarla. C’è naturalmente chi lo contesta.

“Sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata” non impedisce nessuna delle due interpretazioni. L’intesa non modificabile tutela la Regione alla quale non potrebbe essere imposta una autonomia diversa da quella sulla quale ha consentito. Si tratta della modifica di un disegno costituzionale valido per tutte le Regioni e sarebbe coerente consentirne la modifica solo col consenso del soggetto interessato, in quanto interprete delle esigenze del suo territorio. Il Parlamento, da parte sua, avrebbe il potere di impedire una modifica non condivisa assicurando il mantenimento del disegno costituzionale. In pratica nessuno prevarrebbe perché ci vorrebbe il consenso di tutti.

È stato obiettato che la non modificabilità dell’intesa limiterebbe la potestà legislativa del Parlamento, oltre tutto, attraverso un atto di natura, se non amministrativa, sicuramente non legislativa. L’argomento non sembra risolutivo perché il Parlamento con una legge ordinaria, anche se con maggioranza garantita, inciderebbe unilateralmente sull’autonomia attribuita alle Regioni dalla Costituzione senza verificare se siano d’accordo.

Nella non modificabilità dell’intesa qualcuno potrebbe vedere una certa assonanza con quello che è capitato alla legge di bilancio. Chi considera il c.d. contratto non derogabile, per coerenza dovrebbe dire la stessa cosa per l’intesa. Le garanzie non sarebbero ridotte: se l’intesa portasse alla violazione di uno dei principi o dei diritti tutelati dalla Costituzione, sarebbe soggetta a verifica attraverso l’impugnazione della legge davanti alla Corte costituzionale.

Quello che si può dire è che, con l’intesa non modificata, questioni di costituzionalità non potrebbero sorgere, mentre potrebbero in caso contrario, sostenendo che la Costituzione non lo consentirebbe. E non è difficile immaginare quali problemi andrebbero affrontati se fosse dichiarata incostituzionale la legge di modifica dell’intesa dopo che per qualche tempo ha prodotto i suoi effetti.

Intervenire in via, per così dire, convenzionale sembra che per alcuni sia consentito anche in qualche altra area di rilievo costituzionale.

Per procedere in materia di reati ministeriali il terzo comma dell’art.9 della legge costituzionale n. 1 del 1989 richiede la maggioranza assoluta dei componenti della Camera competente. La maggioranza richiesta sta a confermare la natura strettamente parlamentare della funzione. Malgrado questa natura, si è ritenuto di poter condizionare l’esercizio del voto dei parlamentari all’esito di un referendum fatto tra gli elettori attraverso una piattaforma di un soggetto privato. Che poi non tutti siano disposti ad adeguarsi non cambia i termini della questione: in base ad un accordo, anche se tacito, tra dirigenti di un partito e gli iscritti chiamati ad un referendum, i voti di questi ultimi conformerebbero i voti parlamentari, anche se non tutti.

Pure questo, in fondo, potrebbe essere chiamato contratto, con la particolarità che servirebbe per realizzare il vincolo di mandato, escluso dall’art. 67 Cost., perché sull’obiettivo non dovrebbero esserci dubbi: si vuole che i parlamentari si attengano alla volontà degli elettori su una precisa questione. Qualche difficoltà ulteriore potrebbe sorgere se, come si sta prospettando, fosse sanzionato chi non si attenesse al risultato del referendum.

Sorge il dubbio che, per rimediare alle lungaggini del procedimento legislativo, ci si avvii a dare più valore alla volontà del Governo a scapito delle Camere, come qualcuno non a caso ha già prospettato.

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