Passano le stagioni, cambiano i temi dell’agenda politica, ma fra i partiti resta l’idea fissa di modificare la Costituzione. Dopo il tentativo fallito nella precedente legislatura, e quelli ancora precedenti, e dopo qualche modifica (in genere peggiorativa) andata in porto, la maggioranza attuale punta sul rafforzamento della partecipazione popolare al procedimento legislativo e quindi sulla modifica dell’art. 71 della Costituzione (l’altra gamba del disegno riformatore in salsa gialloverde è la riduzione del numero dei parlamentari).
A questo scopo la maggioranza vuol introdurre una nuova forma di iniziativa popolare delle leggi che si può definire rinforzata e che viaggia su due binari. Il primo: se il Parlamento non approva la proposta popolare entro 18 mesi, il testo viene sottoposto a referendum; in caso di esito positivo la proposta diventa legge. Ciò significa che il referendum serve per deliberare l’approvazione della proposta di legge popolare, come dice il testo di riforma costituzionale attualmente in discussione al Senato. Il secondo binario: se il Parlamento approva la proposta popolare con modifiche sostanziali, i promotori possono chiedere che si svolga il referendum sul loro testo; se vincono diventa legge la proposta popolare; se perdono, viene promulgato il testo del Parlamento, che nel frattempo resta sospeso (nel senso che non viene promulgato benché le Camere l’abbiano approvato).
Come si vede, il meccanismo è a dir poco cervellotico, considerato oltretutto che contempla un giudizio di ammissibilità del referendum da parte della Corte costituzionale, la quale inoltre deve dichiarare se la legge parlamentare non può essere promulgata per contrasto con il nuovo art. 71 della Costituzione, dichiarazione preceduta dall’intervento di un “organo terzo” il cui compito è misurare l’entità delle modifiche apportate dal Parlamento in sede di approvazione della proposta popolare.
Certo, è assai apprezzabile l’intenzione di consentire alla linfa vitale delle proposte popolari di permeare davvero il processo legislativo, un’iniezione di energia che non può che far bene alla democrazia limitando il monopolio dei partiti sulla produzione normativa (sempre ammesso che i vituperati partiti non riemergano sotto le mentite spoglie del comitato promotore della proposta). Tuttavia, la bontà dell’operazione rischia di essere compromessa dai molti problemi interpretativi che solleva il marchingegno partorito dai riformatori gialloverdi. Per esempio, e per limitarsi ai principali: il potere dei promotori di rinunziare all’iniziativa comporta la possibilità di negoziare i contenuti della legge parlamentare? Il quorum previsto, un quarto degli aventi diritto al voto, è adeguato, visto che la volontà di una percentuale così ridotta del corpo elettorale porta a una legge che vincola tutti? Cosa accade delle proposte di legge precedenti all’iniziativa popolare e vertenti sullo stesso oggetto, che in corso d’opera vengano approvate definitivamente dal Parlamento? Disgraziatamente è necessario che le buone intenzioni di modificare il testo costituzionale assumano una forma adeguata, altrimenti si rischia di far danno.
C’è poi un altro aspetto che salta all’occhio: si tratta di una modifica circoscritta, riguarda solo una disposizione costituzionale, l’articolo 71 sull’iniziativa legislativa (in realtà viene modificato anche il quorum previsto dall’art. 75 per il referendum abrogativo delle leggi, ma su questo non mi soffermo qui). Evidente è il tentativo di non ripetere l’esperienza delle vaste riforme bocciate dai referendum del 2006 e del 2016, che mettevano in imbarazzo quegli elettori che ne condividevano solo alcuni contenuti.
Tuttavia, non tutte le riforme circoscritte sono per ciò solo innocue; dipende dall’oggetto; per quanto localizzate, alcune modifiche potrebbero toccare gangli vitali del congegno costituzionale fino a comprometterne il buon funzionamento. È il caso di questa modifica dell’art. 71 della Costituzione che avrebbe un impatto importante sul ruolo del Parlamento, che, ormai da anni, appare in una condizione alquanto precaria, indebolito a causa del ruolo egemone del Governo (basta pensare all’uso debordante della decretazione d’urgenza, al ricorso sistematico alla questione di fiducia spesso abbinata ai maxiemendamenti, alla penosa pagina della discussione, si fa per dire, dell’ultima legge di bilancio ecc.). Senza dire dei poteri parlamentari che nel corso degli anni sono transitati verso il livello sovranazionale e, in misura ben più modesta, verso i poteri locali.
L’ulteriore indebolimento sarebbe una conseguenza del secondo binario che contrappone proposta popolare e legge la cui promulgazione viene sospesa; volontà popolare e volontà parlamentare. Non si rischia così di ferire la funzione legislativa parlamentare? Non si rischia di cucire attorno al Parlamento l’abito del vieto conservatore? Perché dovrebbe prevalere il principio popolare su quello rappresentativo? Il Parlamento potrebbe in seguito modificare la legge popolare?
Dubbi e rischi di non poco conto che una riforma costituzionale non dovrebbe proprio comportare. Molto meglio sarebbe allora rimuovere il secondo binario; limitarsi al primo che consente di rafforzare significativamente la partecipazione popolare al procedimento legislativo senza colpire il Parlamento.