La crisi di governo apertasi formalmente con le dimissioni del Presidente del Consiglio Conte lo scorso 20 agosto potrebbe risolversi a breve. In base a un accordo politico tra M5S e PD, faticosamente raggiunto negli ultimi giorni, lo stesso Conte ancora una volta ha ricevuto dal Capo dello Stato l’incarico di formare un nuovo Governo. Sembrerebbe ormai un’abitudine: è, infatti, la terza volta in meno di un anno e mezzo che Mattarella gli conferisce l’incarico. La prima fu il 23 maggio 2018, quando il tentativo si bloccò a causa del rifiuto opposto dal Capo dello Stato di nominare ministro dell’economia e delle finanze il professore Savona; la seconda volta il successivo 31 maggio e, in questo caso, si giunse alla formazione del primo Governo Conte.
Quest’ultima nomina, accettata – come avviene di consueto – con riserva, potrebbe condurre alla formazione di un Governo Conte-bis o un Governo Conte 2; le formule, non considerate equivalenti, denoterebbero rispettivamente continuità o discontinuità rispetto all’Esecutivo precedente. Com’è ovvio, al di là delle etichette (che servono, per lo più, a veicolare operazioni di marketing politico), a rilevare saranno i provvedimenti che il nuovo Governo adotterà, relativamente ai quali si potrà effettivamente concludere se vi sia stata o meno rottura rispetto all’esperienza precedente.
Non siamo però ancora al traguardo e non è detto che ci si arrivi.
Il procedimento di formazione del Governo, si usa dire, è disciplinato non soltanto da disposizioni costituzionali ma anche da norme non scritte: consuetudini, convenzioni, norme di correttezza costituzionale ecc. In realtà, molte di queste regole – la cui giuridicità, peraltro, è stata messa in discussione da diversi studiosi – sembrano essere saltate da qualche anno a questa parte. Tra le prassi che resistono vi è quella delle “piccole consultazioni” che il Presidente del Consiglio incaricato svolge dopo aver accettato l’incarico conferitogli dal Capo dello Stato. Queste ulteriori consultazioni non assumono il carattere di ufficialità di quelle svolte dal Presidente della Repubblica all’indomani dell’apertura della crisi di governo, anche se esse hanno la medesima funzione di consentire la verifica della possibilità di formare un nuovo Esecutivo. Nel caso in cui tali consultazioni avessero esito negativo, l’incaricato tornerebbe dal Capo dello Stato e, sciogliendo la riserva, rinuncerebbe (e, come si è ricordato, per il Presidente Conte non sarebbe la prima volta…).
Si è discusso, tra le altre cose, anche della volontà manifestata da autorevoli esponenti del M5S di sottoporre a una votazione on line, sulla piattaforma Rousseau, la decisione di formare il Governo con il PD. Una consultazione dall’esito incerto, considerato che fino a poche settimane fa i due partiti erano su posizioni radicalmente opposte. Il brusco mutamento di rotta rischia di non ottenere il favore dei militanti del movimento, il che potrebbe determinare l’interruzione di tutto il procedimento in corso. Al di là della questione politica, si è posto un problema di rilevanza costituzionale. Si è detto che, considerato che, dopo le prime consultazioni, Mattarella aveva precisato che avrebbe conferito l’incarico di formare un Governo politico solo di fronte a una chiara maggioranza, non vi sarebbe spazio adesso “per un’interrogazione a soggetti estranei al dialogo istituzionale”. Soltanto prima di portare la proposta al Capo dello Stato – scrivono Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani – la base del M5S avrebbe potuto essere consultata, non dopo, poiché adesso si dovrebbe presupporre l’esistenza di “una maggioranza coesa, almeno sul programma presentato”, nonché la “ragionevole aspettativa di contare già sull’appoggio di parlamentari che… sostengano l’azione di governo”.
La questione è controversa. Non è facile risolverla, anche in considerazione del contesto inedito e dell’assenza di precedenti (nel caso della formazione del primo Governo Conte la consultazione on line sul “contratto di governo” avvenne, infatti, prima del conferimento dell’incarico al Presidente del Consiglio, e non dopo).
Si possono sviluppare, tuttavia, almeno quattro considerazioni.
La prima. Correttezza costituzionale a parte (su cui pure ci sarebbe tanto da dire), le consultazioni svolte dal Presidente del Consiglio incaricato hanno, come si è detto, un carattere informale: egli può ascoltare chi vuole, soggetti pubblici e privati. Inoltre, la riserva con cui accetta l’incarico presuppone un’ineliminabile condizione d’incertezza sugli esiti del procedimento. In altri termini, l’esistenza di una “maggioranza coesa” non è necessariamente presupposta, ma è quanto effettivamente il Presidente incaricato ha il compito di verificare. Ed è proprio per questo che egli accetta con riserva. Del resto, l’attribuzione dell’incarico da parte del Capo dello Stato alla persona che gli appaia nelle condizioni di poter formare un nuovo Governo si fonda sempre su un calcolo delle probabilità che rientra nell’apprezzamento esclusivo dello stesso Presidente della Repubblica. Nessun problema sembra porre, da questo punto di vista, la votazione sulla piattaforma Rousseau, che introduce una variabile come un’altra (di cui ovviamente il Capo dello Stato dovrà tenere conto) e può essere inserita – come consultazione informale – anche in questa fase del procedimento di formazione dell’Esecutivo.
La seconda. Se non ci sono limiti giuridici a una consultazione del genere, è anche vero che possono riscontrarsi ragioni di opportunità per le quali il Presidente della Repubblica può negare l’incarico (soluzione verso cui, come si è visto, Mattarella, in questo caso, non si è orientato); non già per l’anomalia della votazione on line in sé, non spettando al Capo dello Stato il compito di valutare la democraticità delle procedure decisionali interne ai partiti, ma per l’eventuale incompatibilità dei tempi richiesti dall’espletamento della stessa consultazione con quelli ritenuti necessari per la formazione del Governo. In ogni caso si tratta, ancora una volta, di valutazioni rientranti nella discrezionalità del Presidente della Repubblica.
La terza. Diverso sarebbe se il soggetto indicato dalle forze politiche di maggioranza si presentasse dal Capo dello Stato dichiarando che per lui l’ultima parola spetta a un’associazione, a un gruppo di interessi, a una società privata. Si tratta ovviamente di un caso di scuola (ma, come una volta ha ammonito Roberto Bin, i casi di scuola nel nostro Paese tendono a verificarsi…), utile, tuttavia, a definire il limite estremo della discrezionalità di cui gode il Capo dello Stato nel procedimento di formazione del Governo. In un’ipotesi del genere, infatti, egli non potrebbe conferire l’incarico di Presidente del Consiglio a una persona che ammettesse esplicitamente di non essere nelle condizioni di potere rispettare il giuramento di fedeltà alla Repubblica, di osservanza leale della Costituzione e delle leggi e di esercizio delle funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione, cui sono tenuti tutti i componenti del Governo. Si tratta, tuttavia, di un’ipotesi remota, considerato che la riserva con cui si accetta l’incarico di formare un nuovo Esecutivo, in genere, non è motivata.
La quarta. Nella discussione sulla legittimità di una consultazione come quella alla quale il M5S vorrebbe sottoporre la decisione ultima sulla formazione del nuovo Governo, sono state riprese, in questi giorni, le questioni poste dalle concezioni della democrazia e del mandato parlamentare propugnate dal movimento, nonché il tema dell’effettiva democraticità e della trasparenza delle procedure decisionali dallo stesso adottate. Non v’è dubbio che, da questo punto di vista, le carenze siano notevoli (si pensi soltanto alla sanzione che il Garante privacy ha comminato, lo scorso aprile, all’Associazione Rousseau).
È anche vero, tuttavia, che il problema della democraticità dei partiti riguarda, in misura e modalità diverse, pressoché tutte le attuali forze politiche. La piattaforma Rousseau è solo uno dei tanti aspetti di un quadro altamente compromesso, nel quale appare assente, anche all’interno dei soggetti collettivi chiamati a svolgere un insostituibile ruolo di mediazione, una cultura delle regole e dei limiti giuridici al potere politico. Un deficit culturale che si riflette sul piano istituzionale, nel quale i partiti operano, e, dunque, sulle difficoltà che oggi vive il sistema delle garanzie costituzionali, sulla sempre maggiore evanescenza del sistema dei contrappesi e del principio di separazione dei poteri, sull’assenza di una normativa sul conflitto d’interessi. Insomma, si potrebbe concludere, con una battuta, che il problema oggi non è tanto Rousseau ma Montesquieu…
Buonasera, mi complimento per l’interessante iniziativa, almeno per me che non sono né giurista né tantomeno costituzionalista, ma credo fermamente da privato cittadino nello stato di diritto e nella separazione dei poteri. Gradirei un vostro contributo sulla questione della legittimità della richiesta, da più parti avanzata in questi giorni, di sciogliere le camere ed indire nuove elezioni pur in presenza di una possibile maggioranza numerica in parlamento. Cioè, la mancanza di una maggioranza parlamentare è l’UNICO criterio del capo dello Stato per sciogliere il Parlamento o possono esistere anche altre condizioni (conflitti fra poteri dello Stato, non rappresentatività del Parlamento, ecc.) che ne rendano costituzionalmente accettabile lo scioglimento PUR se in presenza di una maggioranza numerica valida? Grazie in anticipo per l’attenzione e ancora complimenti!!
Nella prassi costituzionale italiani i Presidenti della Repubblica hanno sciolto anticipatamente le Camere se e solo se esse – attraverso le consultazioni – si rivelavano incapaci di assicurare una maggioranza in grado di sostenere un Governo. Nel 1994, però, Scalfaro sciolse le Camere di fronte allo sgretolamento dei partiti a seguito di Tangentopoli e alla approvazione della nuova legge elettorale, di stampo prevalentemente maggioritario, che aveva fatto seguito al referendum abrogativo contrario al sistema proporzionale. Si tenga conto che i presidenti delle Camere, che devono essere consultati dal Capo dello Stato, non possono opporsi allo scioglimento, che può però essere decretato solo con la controfirma del Presidente del Consiglio. RB
Non capisco perché 18 mesi fa si sono celebrate su questo forum le votazioni all’interno della SPD tedesca per ratificare l’accordo di coalizione con la CDU/CSU come modello del contratto (“non alleanza”) di governo giallo-verde sottoposto all’approvazione della base del M5S, mentre ora la ratifica dell’accordo di governo con il PD sulla piattaforma Rousseau è un affronto alla democrazia rappresentativa (riscoperta). Non capisco perché il voto degli iscritti del M5S sarebbe più criticabile che le primarie improvvisate (del 2013, se non sbaglio) per scegliere il candidato premier del PD o le votazioni meno trasparenti nella direzione del PD per definire la linea secondo la quale i deputati e senatori di questo partito dovrebbero poi votare in aula. Ma c’è peggio: ci sono pure partiti dove decide uno solo e basta, e i parlamentari si devono adeguare, e si adeguano effettivamente perché non possono assumere il rischio di non essere inseriti nella posizione giusta sulle liste elettorali delle successive elezioni. Temo che l’intera analisi sia pessima, superficiale e tendenziosa. Per non limitarmi a criticare, aggiungo solo che il punto cruciale è la garanzia dell’indipendenza effettiva dei parlamentari e non le modalità di decisione molto varie all’interno dei partiti. Questa libertà democratica davvero fondamentale (nella democrazia rappresentativa ora riscoperta) è da tempo violata e le mie insistenti critiche (dal 2014) sono ignorate se non censurate dalla dottrina di palazzo.
La scorsa settimana ho letto l’interessante articolo del prof. Damiano Cantone (uni.ts) sulla Neue Zürcher Zeitung (edizione online del 9 settembre). Per parlare della strana democrazia italiana l’autore non mette Rousseau contro Montesquieu (come fanno tanti che non hanno letto né l’uno né l’atro), ma confronta Rousseau (l’auto-dichiarato discepolo di Locke, non quello più conosciuto della piattaforma) a Machiavelli, che forse sta condizionando ancora oggi in Italia il modo di pensare la politica più di quanto possa sembrare.