Nascita e morte di un partito televisivo

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di Roberto Bin

«Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»: è così che l’art. 49 introduce in Costituzione i partiti politici, qualcosa che non appartiene alle vere e proprie “istituzioni costituzionali” (parlamento, governo, presidente della Repubblica ecc.), ma serve a collegare queste ai cittadini e al loro diritto di occuparsi di politica, ossia della gestione della cosa pubblica. «Ma questo era il vecchio partito del ‘900 », ci dice Renzi, «che oggi non funziona, serve una cosa nuova, allegra e divertente».

Sembra la descrizione di un prossimo varietà televisivo. Il nuovo partito, del resto, nasce in televisione, in una rubrica, Porta a porta, che da tempo funge da succedaneo della Gazzetta Ufficiale, che tutti i politici cercano di usare per annunciare progetti e programmi e scambiarsi sfide e insulti. Ne abbiamo visti tanti di partiti nati in televisione (o sul predellino di un’automobile) e anche di partiti morti in televisione (anche se, come certi animali, i partiti preferiscono morire lontano dagli occhi della folla).

I vecchi partiti si sono dissolti – io credo – non per morte naturale, per vecchiaia, ma a causa di un’infezione: il virus è l’idea che la politica non deve costare (perciò si riducono il numero e le prebende dei parlamentari), che uno vale uno, che non ci devono essere professionisti della politica, che le competenze non servono e quelle che servono bisogna cercarle nella propria esperienza professionale, che ciò che la politica deve fare lo può capire chiunque se vive a contatto con la gente. Ragionamenti che possono suonare bene, ma sono smentiti dall’esperienza, dato che tutti i leader politici attuali, fieramente critici dei partiti, hanno passato la vita senza altra occupazione che la politica: in ciò Renzi va a braccetto con Salvini e Di Maio, per limitarci ai “capi” dei partiti maggiori. Ma vivere di politica non basta. Per governare un paese grande e complicato non basta neppure l’esperienza della propria azienda, del proprio impiego, della propria cattedra. Bisogna elaborare progetti, idee, immagini del mondo: e bisogna studiare e imparare. Ma tutto ciò costa e, soprattutto, non è affatto divertente.

Ragionamenti profondamente sbagliati hanno indotto il legislatore italiano (sin dagli anni del Governo Letta, per strizzare l’occhio al M5S) a cancellare il finanziamento pubblico diretto ai partiti, che invece c’è in tutta Europa (eccettuata la Svizzera). Con le casse vuote, i partiti hanno dovuto chiudere le sedi e le sezioni, le scuole di partito, i circoli, le riviste, i giornali, le case editrici… Questi erano centri di elaborazione di idee, analisi, progetti, luogo di dibattito e di selezione tra i programmi politici e di scelta di quelli da promuovere. Eliminati queste strutture, chi ne ha preso il posto? Niente e nessuno. O al massimo qualche circolo o associazione culturale, legata a questo o quel personaggio o corrente, luoghi del tutto opachi quanto a collocazione, organizzazione e ruolo svolto, destinati a durare pochi mesi e poi sparire per sempre.

Nostalgia per il passato, per una “forma-partito” che non esiste più? No, rammarico per il fatto che i cittadini italiani – me compreso – abbiano perso un loro diritto fondamentale, quello di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Che questo diritto possa essere esercitando seguendo passivamente un dibattito (o un monologo) televisivo, cliccando “mi piace” in coda ai social o votando sulla piattaforma Rousseau o nel sondaggio Sky (che indubbiamente è molto più rappresentativo della piattaforma) è evidentemente impossibile. Quello basato sui partiti è un diritto «scippato agli italiani», per usare un’espressione cara ai vari leader che dello scippo sono responsabili.

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2 commenti su “Nascita e morte di un partito televisivo”

  1. Grazie. Da parte dell’ultimo delle migliaia di italiani che resistono e cercano ancora di capire, informarsi, farsi un’opinione e dare contributi. Ci ricorda questa parola quasi dimenticata, partecipazione. Partecipare, partecipare, partecipare. Resistere, resistere, resistere

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  2. Giusto, i partiti non sono vere e proprie istituzioni costituzionali, sono solo la forma della partecipazione di alcuni gruppi di individui più attivi e della coordinazione dei capi di questi gruppi al gioco istituzionale.

    Se sono forma, questa forma deve essere definita nel rispetto del metodo democratico, cioè di alcuni principi tutti riconducibili alla libertà e all’eguaglianza di tutti.

    Quindi ha ragione Renzi se dice che i partiti del 900 sono (per fortuna) finiti, sono morti per colpa propria di non aver saputo stare alle nuove regole dell’apertura, del dibattito pubblico (fino al 1990 le trasmissioni politiche in TV erano monologhi unidirezionali al servizio del potere), della inclusione e del coinvolgimento. Questa nuova idea di fare politica forse non a caso coincide con l’affermazione dello strapotere dei media, vecchi e nuovi. L’Italia non ha saputo comprendere (o piuttosto ha cinicamente ignorato, per presunta convenienza a breve) l’importanza di questa leva omettendo di regolarla adeguatamente. Invece di legiferare 25 anni fa sul conflitto di interessi il paese ha preferito perdersi in altri dibattiti più di facciata che di sostanza. Nel frattempo l’uomo più capace e più potente che già controllava i media privati ha preso possesso anche di quelli pubblici (i suoi uomini dirigevano la RAI, da Segrate partivano gli ordini per i contenuti del telegiornale). Nessuno si è ribellato. Nessun’istituzione ha saputo fermare e tanto meno raddrizzare la situazione compromessa. Al contrario, pur di campare i più (degli esperti) si sono allineati al nuovo corso e discorso del governo voluto dal popolo (quello della libertà), etc non insisto. Tutti i grandi capi l’uno dopo l’altro soprattutto Grillo (il popolo della piazza, dei vaffa e di Rousseau, tutto finto anti-media per stare sui media), Renzi (il popolo giovane e femminile, la rottamazione, le grandi riforme truccate, i selfie e la televisione) e Salvini (il popolo di Pontida, del Nord e dell’Italia vera, profonda, i pieni poteri e i social) si sono adeguati a questo modello non creato da loro. Il fatto di conoscere il potere dei media era un vantaggio che ognuno di loro ha sfruttato a suo modo.

    Il povero Letta non ha colpe. La nuova regolamentazione del finanziamento dei partiti è un epifenomeno secondario, utile perché sancisce le deviazioni precedenti, nocivo solo perché forse non basta.

    A vedere quelli al timone della Repubblica e davanti alle telecamere pubbliche e private il problema sembra essere quello che non abbiano studiato, che non abbiano le basi per comprendere quello che sta succedendo (da 25 anni). Ma con quale titolo l’accademia si può erigere a giudice dopo che per un quarto di secolo ha sostanzialmente servito, assecondato e consigliato coloro che di volta in volta sono stati al potere, che nominano e decidono a chi vanno appalti, contratti, rendite e stipendi pubblici, contribuendo IN MODO DECISIVO alla situazione di degrado in cui il paese, il dibattito pubblico, le leggi e le istituzioni si trovano.

    Noi NON abbiamo perso il diritto di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Basta parlare, associarsi, agire. Il problema è che i canali di farsi sentire sono monopolizzati dai signori che stabiliscono le liste bloccate, che hanno l’esclusiva in tv, che occupano i posti pubblici più remunerati e fanno di tutto per tener fuori dal loro giardino protetto, anche dalle riviste di diritto costituzionale, coloro che minacciano le loro posizioni. Con tutta questa ipocrisia c’è poca speranza che il paese da solo possa uscire dalla situazione in cui si trova.

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