La svolta Cartabia. Il problematico ingresso della società civile nei giudizi dinnanzi alla Corte costituzionale

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di Claudio Tani

La delibera dell’8 gennaio 2020 della Corte costituzionale recante “Modificazioni alle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale” contiene importantissime novità, che potrebbero influire decisamente, anche nel breve periodo, sull’evoluzione del giudizio di costituzionalità in via incidentale.

1)- L’art.1 aggiunge all’art. 4 il comma 7, attribuendo espressamente la facoltà di intervento per i “titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio”. Il nuovo comma è in linea con la costante giurisprudenza della Corte che ha sempre preteso la sussistenza di tale requisito, che si basa sulla configurabilità di una situazione “individualizzata”, riconoscibile solo quando l’esito del giudizio di costituzionalità sia destinato a incidere direttamente su una posizione giuridica “propria” della parte intervenuta.  Su tale premessa, a volte, è stata ammessa la costituzione nel giudizio incidentale di legittimità della parte non costituita nel giudizio a quo, ma comunque legittimata a resistere e nel contempo titolare di un interesse sostanziale posto alla base della controversia (sent. n.223/96) escludendo quindi opportunamente l’intervento di soggetti estranei al giudizio a quo, a nulla rilevando che gli stessi avessero in corso giudizi analoghi sospesi in attesa della pronuncia della Corte.

Ora la previsione espressa del requisito della titolarità di un interesse “qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio” imporrà una verifica, particolarmente attenta e per ogni singola fattispecie, anche per quanto riguarda l’ammissibilità dell’intervento della Presidenza del Consiglio dei ministri e del Presidente della Giunta regionale, non soltanto perché soggetti che non appartengono alla categoria delle parti (sent. n. 210/1983), ma soprattutto perché con la nuova norma introdotta dalla delibera in commento si potrà riaprire un ragionamento sulle ragioni che giustificano il riconoscimento della loro legittimazione già nel giudizio a quo.

Si tratta di una questione da tempo posta autorevolmente in dottrina (si veda per tutti A. Pizzorusso, Commentario alla Costituzione, Bologna, 1982, 278). Infatti l’Avvocatura dello Stato e le Avvocature delle Regioni, salvo rarissime eccezioni (si veda il caso che ha condotto per esempio alla nota sentenza n.1/14, però subito dopo smentito nel caso della sentenza n.35/17), continuano imperterrite a costituirsi difendendo la legge impugnata, anche in contrasto a volte con l’indirizzo politico del Governo in carica, con uno zelo veramente “degno di miglior causa”, presumibilmente “frutto della volontà dei singoli avvocati erariali di ben figurare professionalmente, anche a costo di provocare decisioni d’inammissibilità che dal punto di vista sociale rappresentano per lo più una pura perdita” ( A. Pizzorusso cit., 279).

Ebbene, il comma aggiunto all’art. 4 delle norme integrative in sede di applicazione potrebbe offrire  l’opportunità per riaprire concretamente, anche la questione, non del diritto processuale di costituirsi in giudizio della Presidenza del Consiglio dei ministri e dei Presidenti delle Regioni nei giudizi a quibus, ma della dimostrazione del loro interesse sostanziale (art. 100 c.p.c.) a resistere al fine di ottenere il riconoscimento di un bene della vita uguale e contrario a quello vantato dalle controparti nei giudizi a quibus.

Ciò vale ovviamente non nei casi ove sono in gioco diritti di credito in cui l’interesse sostanziale a resistere è sempre o quasi in re ipsa , ma nei casi in cui sono in gioco diritti fondamentali (come sicuramente accadrà se non saranno abrogate le impresentabili  norme sulla prescrizione penale della legge “Bonafede”), quando non si sa qual’ è l’interesse a resistere contro l’ordinanza di rinvio del giudice a quo perseguito dall’Avvocatura dello Stato, quale Amministrazione in concreto ne sia titolare e dove semmai l’interesse dello Stato dovrebbe esser proprio quello di eliminare dall’ordinamento norme che già un giudice ha ritenuto sospette di incostituzionalità e di vivere tranquillo se la Corte fugherà ogni sospetto.

Va da sé che dovrà essere posta grande attenzione all’ammissibilità dell’intervento della Presidenza del Consiglio dei ministri e dei Presidenti delle Regioni, perché anche da loro la Corte, nei giudizi in via incidentale, dovrà pretendere ogni volta la rigorosa prova dell’interesse “qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio”.

Benvenuta quindi l’integrazione all’art.4 introdotta dalla delibera dell’8 gennaio, nella misura in cui la conseguente giurisprudenza della Corte consentirà di superare ogni dubbio sulla legittimazione dell’intervento nei giudizi incidentali.

2) – La seconda novità della delibera del Presidente della Corte è senza alcun dubbio di ben più grande rilevanza “politica” ed è destinata ad incidere non solo sull’immagine, ma anche sul ruolo della Corte nel rapporto con la società.

Dopo l’art. 4 delle norme integrative è aggiunto l’art.4 ter che al primo comma stabilisce che “le formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità, possono presentare alla Corte costituzionale un’opinione scritta”.

Il successivo terzo comma stabilisce che “sono ammesse le opinioni che offrono elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso, anche in ragione della sua complessità”.

Alla fine è stabilito che i soggetti di cui sopra, le cui opinioni sono state ammesse, non assumono comunque la qualità di parte e quindi non possono partecipare all’udienza.

La Corte aspira così ad aprirsi al dialogo con la cosiddetta “società civile”, ma oltre agli effetti positivi, vi sono anche quelli problematici non trascurabili di tale apertura, per la potenziale esposizione a una responsabilità “politica” più accentuata.

E’ ben vero che lo Stato di diritto è un concetto solo apparentemente neutro e non può essere limitato ai soli aspetti formali (procedure), come è altrettanto vero che la composizione della Corte non è estranea all’influenza della politica, ma sinora, la Corte ha resistito con equilibrio istituzionale, culturale e “politico” ai tentativi di farla diventare una specie di “contropotere” al servizio della democrazia, o di “camera di compensazione “ di quello che la contrattazione politica non è riuscita a chiudere,  con la confusione dei ruoli che il successo di tali tentativi avrebbe comportato.

Tuttavia l’ingresso del “civismo”, della cosiddetta “cittadinanza attiva”, ovvero delle organizzazioni del “terzo settore” configurabili come i principali e privilegiati “Amici curiae”, sia pure in ragione della complessità dei casi, potrebbe porre più problemi di quanti tenda a risolverne, non potendo a priori escludere che la Corte venga esposta al rischio di offrire una sponda involontaria agli aspetti patologici della democrazia.

Si deve distinguere tra interessi collettivi e interessi diffusi, entrambi accomunati dalla difesa di situazioni sovraindividuali, ma le cui forme di aggregazione si differenziano, con effetti che non possono essere confusi e sovrapposti. 

Gli interessi collettivi, quantomeno, sono propri di un autonomo soggetto di diritto e, pur essendo in teoria “di ciascuno e di tutti” (S. Pugliatti, Diritto pubblico e diritto privato, in  Enc. Dir., Milano, XII, 1964, 696), il diritto di azione è riservato a un soggetto stabilmente organizzato e sono tutelabili soltanto attraverso la mediazione di tale soggetto, cioè di un ente esponenziale non occasionale (per esempio i sindacati). Questo ente in ogni momento, in relazione all’oggetto della lite dinnanzi al giudice a quo, agirà a tutela dell’intera categoria o di interessi comuni ai suoi membri.

L’interesse diffuso invece è magmatico, è pregiuridico, in origine “adespota” (secondo la definizione di R. Ferrara, Interessi collettivi e diffusi, in Dig. Pubb., VIII, Torino, 1993, 490) e nella realtà sociale, pur essendo oggi assolto da numerosissimi organismi, e forse proprio per questa frammentazione esasperata, è volta per volta riferibile a uno status indeterminato e spesso occasionale (tutti siamo consumatori, fruitori dell’ambiente, utenti di servizi pubblici).

L’interesse diffuso è quindi privo di soggettività propria e volta per volta è rimesso al potere di scelta della pubblica amministrazione al fine di acquisire connotazione normativa o paranormativa (così G. Berti, Il giudizio amministrativo e l’interesse diffuso, in Ius, 1982, 68).

Anche in ciò si risolve il concetto di sussidiarietà sociale (art. 118, IV comma Cost.) che si è affermato ed esteso proprio con l’estendersi della presenza del “terzo settore” quale espressione inizialmente dell’articolazione ragionevole, ma oggi dell’atomizzazione della cosiddetta società civile, conquistando una rilevanza economica e numerica decisive.

La rilevanza economica del terzo settore, senza prendere in considerazione i dati aggregati per grandi aree geografiche e culturali, restando in Italia, deve essere ben presente anche ai fini di valutare gli effetti di norme tendenti ad aprire una via d’ingresso formalmente collaterale, ma “politicamente” sostanziale nel giudizio incidentale di costituzionalità.

I dati ISTAT dicono che il terzo settore occupa una forza lavoro pari a circa l’8,5% della popolazione attiva, con un sostanziale equilibrio tra finanziamento pubblico (46,7%) e privato (44,6%). Il valore aggiunto era già pari a circa il 2% del PIL, quota che, se riferita al solo settore del welfare, cresce circa al 15% (G. Cerulli, Una matrice di contabilità sociale per il welfare mix: l’integrazione del settore non-profit, in Rivista di politica economica, 2006, marzo-aprile, 79-128).

Quindi, per immaginare gli effetti dell’apertura della Corte agli amici curiae, conta riflettere anche sui i numeri. Le istituzioni non-profit (vere o speculative), pur distribuite in modo disomogeneo (51,1% al Nord, 21,2% al Centro e 27,7% al Sud) già nel 2000 erano 221.412 (circa 40 ogni 10.000 ab.) e con la crisi e l’arretramento del welfare di Stato potrebbero aumentare. Per farsi un’idea, pensiamo anche all’esuberante varietà di scopi che caratterizza la galassia di questi “corpi intermedi” (inclusi nella generica locuzione sociologica di “formazioni sociali” dell’art.2 Cost) destinatari dell’apertura della Corte e che sono oggetto della disciplina organica del “Codice del terzo settore” (d.lgs.n.117/17), che vanno dalle associazioni di volontariato a quelle di promozione sociale, di protezione civile, sportive dilettantistiche, dei consumatori e degli utenti alle ONG, imprese sociali e società di mutuo soccorso.

Non si può valutare il carico che si riverserà sulla Corte per decidere, tra la moltitudine di opinioni, quali saranno quelle meritevoli di essere ammesse, allorché si sarà diffusa la conoscenza di questo nuovo mezzo di accesso e quando la pressione spontanea o organizzata crescerà. Non mancheranno gli avvocati che in buona fede o per protagonismo politico-professionale verranno in aiuto o saranno promotori. 

La domanda spontanea è quindi: perché dei soggetti portatori di interessi per i quali non è praticabile, o non è stata praticata la giuridicità dinnanzi al giudice competente per il merito dovrebbero avere voce nel giudizio incidentale di costituzionalità, anche se celati dietro il diafano velo del non riconoscimento della qualità di parte?

La Corte costituzionale non ha necessità alcuna di “modernizzazione” o di “rilegittimazione”. La metodologia delle scienze storico- sociali (da Weber a Gramsci) non è estranea alla cultura dei giudici costituzionali. A maggior ragione la “cultura dell’ascolto” non deve esporre la Corte all’assedio delle più disparate istanze sociali non filtrate dalla “politica”.

Solo incidentalmente. Anche l’ascolto degli “esperti” (art.14 bis aggiunto dall’art.3 della delibera) è una lama di rasoio. Può esser efficace per penetrare la materia, ma può anche degradare a campo di scontro tra opposti “ideologismi”.

Così non si garantirà l’interpretazione “evolutiva” delle norme. Al contrario aumenterà il rischio oggettivo di oscillazione, secondo la direzione presa da quel magma caotico, “atomizzato” e “depoliticizzato”, che si dice società civile, che per questa ragione, secondo il lessico gramsciano (A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1975, 662 e Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Roma, Editori Riuniti, 1977, 115) non è sempre riassorbibile nella società politica a causa della sua difficoltà a diventare società di massa in un dato momento storico e che può anche andare in direzione di arretramento. Proprio come oggi, quando, per dirla sempre secondo il lessico gramsciano, assistiamo al “riassorbimento “della società politica nella società civile, con gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti.

Non è nella natura dell’art.118 che la Corte costituzionale assuma un ruolo di responsabilità, neppure incidentale, per filtrare l’attivismo, più o meno controllato, dei cittadini, perché questo ruolo spetta ad altri, alla rappresentanza politica ai vari livelli dotati, pur se in crisi, di legittimazione democratica, ma non all’intervento della Corte costituzionale.

A prima vista sembrano questi i problemi che si apriranno con l’ingresso in campo degli amici curiae e forse non occorrerà neanche molto tempo per avere le prime risposte.

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