La Costituzione e il diritto al cibo. Ritorno all’anno Domini 1215

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di Andrea Venanzoni

In un tweet del 17 aprile 2020 la Ministra per le politiche agricole alimentari e forestali, Teresa Bellanova, ha annunciato “la prossima legge per cui varrà la pena emozionarsi? Il diritto del cibo in Costituzione. Perché in Italia ci sono tante persone che non possono permettersi il cibo e di questo si deve far carico lo Stato”.

1. Il diritto al cibo e la Magna Charta Libertatum. Per vero, la Ministra aveva anticipato già questa sua posizione in alcune dichiarazioni rilasciate al quotidiano Avvenire nei primi giorni di aprile, quando a causa del lockdown e della chiusura forzata di attività commerciali, aziende, uffici privati una vasta parte della popolazione italiana ha sperimentato un impoverimento, o forse meglio a dirsi un immiserimento, che ha minacciato seriamente anche la possibilità di procurarsi primari beni di sussistenza.

E ancora più per vero, la proposta mi sembra già emersa nel tentativo di riforma costituzionale Renzi-Boschi che nella modifica dell’articolo 117 Cost. avrebbe importato il riconoscimento, esplicito, della sicurezza alimentare (che è comunque cosa diversa, a rigore, rispetto al diritto al cibo tout court).

Posso notare che in uno dei primi ricorsi avanti la giustizia amministrativa contro i provvedimenti di lockdown, vicenda poi arrivata in Consiglio di Stato (Cons. di Stato, sez. III, 30 marzo 2020, decreto cautelare n. 2825) per l’annullamento di un provvedimento sanzionatorio che aveva imposto una quarantena forzata ad una persona rea di aver violato una disposizione della Regione Calabria sul distanziamento sociale, era venuto in oggetto proprio il diritto al sostentamento alimentare.

Il TAR prima e il Consiglio di Stato poi non avevano ritenuto che la pretesa cautelare meritasse accoglimento sulla base del presupposto che un bene primario come il cibo viene comunque garantito da una serie di provvedimenti normativi tesi a lenire gli effetti del lockdown.

C’è quindi bisogno davvero di una costituzionalizzazione del diritto al cibo? Sinceramente non mi sembra.

Nel mondo occidentale il diritto al cibo viene riconosciuto, grosso modo, a partire dalla Magna Charta Libertatum del 1215, laddove si prevedeva che una sanzione non potesse comunque mettere in discussione il sostentamento primario della persona.

Il diritto al cibo si afferma, nel corso del tempo, nell’ambiente giuridico sovra-nazionale, laddove si procede a sintesi non solo tra diverse sensibilità giuridiche ma anche tra realtà geo-istituzionali e culturali del tutto diverse, e spesso contraddistinte da patenti asimmetrie di sviluppo.

E’ un diritto infatti che è stato riconosciuto fin dall’adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nel 1948, all’articolo 25, ed è stato poi sancito nelle costituzioni di oltre 20 paesi, principalmente Paesi, non a caso, in via di sviluppo. Sono invece circa 145 i Paesi ad aver ratificato il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali del 1966, che obbliga gli Stati firmatari a legiferare sul diritto a un’alimentazione adeguata.

Che esista un problema mondiale di alimentazione è dato non revocabile in dubbio, ma l’Italia del 2020 non è il Sudafrica in cui, vorrei dire per assai ovvie ragioni, i diritti economici, sociali e culturali, incluso il diritto al cibo, sono stati costituzionalmente garantiti dopo una esperienza storico-politica eufemisticamente definibile come non felicissima.

Questa garanzia ha portato a una nota vicenda – Governo della Repubblica Sudafricana contro Irene Grootboom e altri — in cui il tribunale ha sentenziato che il governo aveva violato la Costituzione mancando di prendere misure ragionevoli per provvedere a persone in condizioni di disperato bisogno.  In realtà il caso riguardava il diritto all’abitazione, ma la logica seguita dal giudicante è certamente applicabile anche al cibo che gode di pari riconoscimento costituzionale.

L’Italia del 2020 non è nemmeno, va detto, l’India del 2001, ove la Corte Suprema, su spinta di un ricorso proposto dalle ONG, ha riconosciuto che i poteri pubblici indiani si erano resi corresponsabili della denutrizione di vaste fasce della popolazione. L’Italia del 2020 non è nemmeno la Palestina che si è vista riconoscere nel 2004 dalla Corte internazionale di giustizia il, tra gli altri, diritto al cibo violato nel caso di specie da parte di Israele a mezzo della costruzione dell’ormai famigerato muro confinario.

2. Costituzioni e liste della spesa. Intendiamoci, la proposta ha una sua dignità politica ma mi sembra confinata nell’ambito del dibattito pubblico ed eventualmente mass-mediatico, come forma di riconoscimento di un dato essenziale da rinvigorire con politiche pubbliche che però sta proprio al Governo attuare, senza doversi addentrare nei meandri, parlamentarmente accidentati, della revisione costituzionale, che finirebbe anzi per esprimere funzione di alibi per slittamenti temporali e mancati interventi concreti, in attesa di una ipotetica revisione.

Il diritto al cibo esiste. E’ già presente. Sta alle istituzioni farsene garanti e realizzatori con i loro atti legislativi.

In alcuni casi, la superfetazione di diritti da inserirsi tra le pieghe della Carta costituzionale equivale, come riconosceva già Norberto Bobbio (L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990), ripreso e riletto di recente da Alfonso Celotto (L’età dei (non) diritti, Roma, Giubilei Regnani, 2017), a una elencazione di enunciati di principio variamente destinati alla ineffettività, soprattutto in epoche di patente crisi dei diritti sociali e in cui diritti che già godono del massimo riconoscimento costituzionale, penso al diritto al lavoro, non se la passano propriamente benissimo.

Come ha rilevato Stefano Rodotà, in una conferenza poi divenuta un libretto del 2014, significativamente titolato ‘Il diritto al cibo’, “il problema della fame nel mondo non è una questione di risorse, ma di diritti fondamentali dell’uomo”. L’impostazione di Rodotà riconosce la caratterizzazione mondiale, sovranazionale del tema. La sua scaturigine da un cardine di dignità della persona. Infatti, prosegue, “l’adeguatezza significa andare oltre l’impostazione minimalistica, anche se essenziale, della semplice ‘libertà dalla fame’, il cibo non nutre solo il corpo, ma la stessa dignità della persona – solo rispettando la dignità della persona e la diversità della persona è possibile trasferire nel diritto al cibo l’attitudine a rendere il cibo come un vero obiettivo di valore costituzionale”.

Obiettivo costituzionale d’altronde non necessariamente significa opera di revisione ai fini di un riconoscimento ex professo, quasi che oggi non vi sia traccia di un diritto che fonda, vorrei dire, qualunque patto politico-costituzionale. Davvero una Carta costituzionale che si basa su pilastri assiologici quali l’eguaglianza sostanziale, la dignità della persona, lo spirito solidaristico potrebbe, per il mero fatto di non farne espressa menzione, tenere fuori dalla propria latitudine il diritto al cibo nelle sue varie sfumature (libertà dalla fame, adeguatezza, qualità)? Una Costituzione che non riconosca il pane non sarebbe in certa misura nemmeno una Costituzione, perché non sarebbe in grado di fondarsi su un ordine reale della dignità della persona. Cosa che ai nostri Costituenti parve talmente chiara da far puntellare varie disposizioni con il riconoscimento di una esistenza libera e dignitosa, dall’articolo 2 all’articolo 36 Cost., senza dover specificare che nella dignità e nella libertà è ricompreso il pane.

Come si potrebbe vivere liberi e dignitosi senza cibo? A rigore, non si potrebbe proprio vivere.

Tanto ciò vero che la CEDU e la Carta Sociale europea riconoscono espressamente il diritto al cibo adeguato, anche con riferimenti agli ultimi del mondo globalizzato, i migranti a cui l’art. 13 al 2° comma della direttiva 2003/9/CE riconosce che “gli Stati membri adottano disposizioni relative alle condizioni materiali di accoglienza che garantiscano una qualità di vita adeguata per la salute ed il sostentamento dei richiedenti asilo. Gli Stati membri provvedono a che la qualità di vita sia adeguata alla specifica situazione delle persone portatrici di particolari esigenze”.

Senza contare che le fonti sovra-nazionali ed euro-unitarie in forza dell’articolo 117 c. 1 Cost. godono di una via di accesso nel nostro ordinamento mediante il riconoscimento della loro primazia, a patto che non contrastino con il nucleo duro della Costituzione, cosa che per il diritto al cibo nemmeno sarebbe ipotizzabile.

Quindi, piuttosto che impegnare risorse intellettuali e di tempo nella redazione del diritto al cibo da costituzionalizzare, si impieghi questo sforzo nella realizzazione, fattuale, di politiche che quel diritto attuino e garantiscano nella vita di tutti i giorni.

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1 commento su “La Costituzione e il diritto al cibo. Ritorno all’anno Domini 1215”

  1. Egregio dottore, ha scritto sagge parole.
    Mi occupo di cani che hanno patito la fame e l’abbandono e capisco che il bisogno PRIMARIO di avere il cibo ” che garantisce la vita di tutti i gg” come ha scritto
    fà la differenza sostanziale sul loro carattere, per sempre.
    Quando hanno da mangiare possono vivere insieme, anche numerosi senza farsi del male (continuando per anni e forse per tutta la loro vita ad aver timore degli uomini) . Presumo che anche tra gli uomini può succedere la stessa cosa: se i bisogni elementari vengono soddisfatti si potrebbe “sopravvivere” tranquillamente, in caso contrario possono verificarsi molti accadimenti spiacevoli
    Tante buone cose e scriva sempre notizie UMANE
    Un’anziana signora qualunque Bolognese

    Rispondi

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