Il permesso di essere liberi

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di Omar Chessa

Per chi, come il sottoscritto, vive in un isola con tante belle spiagge ed è abituato a fruirne, è motivo di soddisfazione la recente ordinanza n. 23 del Presidente della Regione sarda, la quale finalmente ha disposto che dal 18 maggio «è consentito l’accesso alle spiagge libere e agli arenili». La medesima formulazione è recepita nell’ordinanza del sindaco del mio comune, Sassari.

Rimaneva però il dubbio se insieme all’accesso fossero consentire pure attività come la balneazione e la sosta finalizzata alla tintarella: gli uffici regionali, interpellati una prima volta, precisarono  che “accesso” significa solo accesso e nient’altro, per poi mutare avviso e proporne un’interpretazione più ampia e liberale. Diversa fu invece la risposta dell’amministrazione della mia città, Sassari, che per accesso ha inteso da subito la «completa fruibilità delle spiagge».

La questione della fruibilità totale o parziale delle spiagge è solo la manifestazione particolare di un problema più generale, che nasce dall’abitudine ormai diffusa di inserire negli atti normativi formule come “è consentito”. È un fenomeno che segnala il rovesciamento di alcune categorie giuridiche tradizionali e, forse, pure un indebito mutamento di prospettiva nella mentalità di chi governa. Il principio che sta alla base degli ordinamenti liberali, e forse di ogni ordinamento giuridico possibile, è che la libertà sia la regola generale e il divieto un’eccezione particolare: cioè, si è liberi di fare tutto ciò che non è espressamente proibito. A questa “norma generale esclusiva” si conformano le tecniche di normazione e di interpretazione. Ad esempio, il brocardo latino ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit (“Dove la legge ha voluto ha detto, dove non ha voluto ha taciuto”) ha senso proprio presumendo che prima viene la libertà e poi il vincolo giuridico, il quale vige per l’appunto solo alla condizione che la lex dixit (perché se la lex tacuit, allora non ha voluto alcuna restrizione e quindi vale la regola della libertà). Anche la scrittura degli atti normativi, e non solo la loro interpretazione, risponde di solito alla medesima logica di fondo e postula quindi che laddove non vigono divieti c’è la libertà, la quale è un po’ come l’acqua che tende a occupare tutto lo spazio possibile, se non arginata.

Si potrebbe obiettare: “e le norme c.d. permissive, allora?”. L’obiezione è calzante, ma non distruttiva. È vero che la comune esperienza attesta l’esistenza di norme espresse che permettono questo o quel comportamento e che quindi hanno un effetto “liberante”, quasi smentendo l’idea che in origine ci sia una sorta di libertà generale dell’individuo. Però, un esame attento rivela che questa tipologia di norme ha sempre carattere accessorio rispetto alle norme che vietano, nel senso che vengono impiegate per introdurre eccezioni particolari a divieti generali, cioè per circoscriverne e dettagliarne la portata. Ad esempio, non avrebbe senso una norma espressa che mi autorizzasse a indossare un maglione rosso: è una scelta che rientra fisiologicamente nella mia libertà residuale (o naturale), cioè ricade nell’ambito di ciò che non è vietato e che è perciò libero. Invece, avrebbe senso una norma che espressamente, in via di eccezione, mi permettesse di entrare in un museo fuori dall’orario di chiusura: qui la regola generale è che in una certa fascia oraria l’ingresso sia inibito, ma può esserci una norma permissiva eccezionale che mi consente di farlo per questo o quello scopo (ad esempio, per effettuare interventi di restauro o di manutenzione dei locali). Insomma, mi sembra che il concetto sia chiaro: lo scopo generale – fisiologico, direi – delle norme giuridiche è porre vincoli, poiché di regola siamo liberi di fare quel che vogliamo.

Però, alcuni atti normativi vigenti sembrano rovesciare questa logica; e lo dimostrano i casi ricordati all’inizio dell’articolo. Se «è consentito accedere alle spiagge», allora forse è corretto interpretare la norma come se dicesse che è permesso solo “accedere” alle spiagge ed è quindi vietata in linea di principio qualsiasi altra attività che non sia accesso in senso proprio. È vero che c’è pure chi, come il Comune di Sassari, ha interpretato la formula in modo ampio, in modo da “consentire” tutto quello che di solito si fa in una spiaggia. Sono interpretazioni opposte, ma entrambe muovono dal medesimo rovesciamento di prospettiva, poiché assumono che senza permessi espressi sia di regola tutto vietato. Questo, evidentemente, rende complicato il lavoro dell’interprete e del comune cittadino, i quali finora hanno sempre agito presumendo che la libertà sia la regola generale implicita e non l’eccezione bisognosa di esplicito permesso.

Probabilmente questo modo di approcciare il rapporto tra autorità e libertà è una scia psicologica di quella che fino a qualche giorno fa era la “regola-base” dell’emergenza Covid: mi riferisco al divieto di spostamenti infra-comunali se non per i noti e comprovati motivi (salute, necessità, lavoro). La norma generale era, perciò, il divieto di uscire di casa, salvo eccezioni espressamente indicate da norme permissive: un divieto che rovesciava lo schema liberale classico della libertà coma regola. È vero che dentro la propria abitazione ciascuno era libero di fare tutto quello che non era vietato, ma tutto ciò che un tempo si poteva fare fuori casa era in linea di principio proibito.

Bisogna rimarcare con decisione che, ora, questa norma generale non è più vigente a seguito dell’art. 1 del decreto legge n. 33 del 16 maggio 2020. Quindi, in teoria non esiste più il divieto di uscire di casa (salvo eccezioni), bensì la piena libertà residuale di fare, anche fuori casa, tutto ciò che non è espressamente proibito.

Temo però che in questi mesi abbia preso una mentalità refrattaria ad assumere “il principio di libertà” come regola basilare: e difatti, ancora si ragiona e si scrivono gli atti normativi come se fossero necessarie regole che “consentono” la libertà. Spero che nelle prossime settimane e mesi questo timore si riveli infondato.

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