Recovery Fund: dietro i sussidi il commissariamento?

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di Marco DaniAgustín José Menéndez

Non sarà il “momento Hamilton” a cui tanti sembrano anelare, ma la novità c’è tutta: con la Recovery and Resilience Facility (RRF) decisa dal Consiglio europeo per la prima volta si affaccia all’orizzonte la prospettiva tangibile di un consistente indebitamento condiviso da parte dell’Unione europea. Si tratta di uno sviluppo di sicuro rilievo: in maniera ancora più consistente rispetto a quanto già accade con i fondi strutturali e i fondi di coesione, si prevede l’introduzione di un significativo elemento di solidarietà transnazionale, ovvero il trasferimento di ingenti risorse a fondo perduto a beneficio degli stati maggiormente colpiti dalla pandemia Covid-19.

Certo, molti sono ancora gli snodi cruciali da definire, primo fra tutti la determinazione delle risorse da utilizzare per il servizio al debito (tasse europee, direttamente riscosse dell’Unione Europea, o ulteriori trasferimenti a carico degli stati membri?). Numerose sono poi le concessioni che si sono dovute accettare per convincere gli stati più riluttanti all’accordo (rebates che rendono ancora più barocco ed iniquo il bilancio europeo; tagli di notevole entità ad alcuni importanti programmi europei, fra i quali la ricerca scientifica).

Mentre lasciamo volentieri agli economisti il compito di calcolare l’effettivo beneficio che deriverà ai diversi stati membri da questo strumento di politica economica, riteniamo importante approfondire uno specifico aspetto riguardante le implicazioni istituzionali dell’accordo. Come si è detto, la Commissione europea prenderà a prestito ingenti quantità di risorse per finanziare gli investimenti, ma non le spenderà direttamente. Spetterà infatti agli stati membri elaborare dei recovery and resilience plans, ovvero dei programmi di investimento che saranno approvati dal Consiglio a maggioranza qualificata; l’attuazione di questi programmi sarà monitorata periodicamente attraverso una procedura che, in virtù del meccanismo del cosiddetto “freno di emergenza”, potrà coinvolgere il Consiglio europeo. Pare di capire che i sussidi e, successivamente, i prestiti saranno erogati in tranches; prima di ogni erogazione, Commissione e, eventualmente, Consiglio europeo faranno il punto della situazione per verificare il rispetto dei requisiti.

Già, ma di quali requisiti? Questo è un aspetto cruciale dello strumento in questione: non si tratterà solo di verificare che il programma e le misure di attuazione siano coerenti con gli obiettivi previsti in maniera piuttosto vaga dall’Unione (growth potential, job creation, economic and social resilience, effective contribution to the green and digital transition). I recovery and resilience plans dovranno essere coerenti anche con le country-specific reccomendations, ovvero con le prescrizioni più dettagliate di politica economica e sociale che la Commissione ogni anno indirizza agli stati membri all’interno del ciclo di bilancio. Basta guardare ai rapporti degli anni scorsi per rendersi conto che queste raccomandazioni riguardano il nocciolo duro della politica economica e sociale. Insomma, agli stati non sarà chiesto solo di elaborare progetti di politica economica e industriale diretti a rafforzare la crescita economica; assieme a questo si esigerà, pena la sospensione dei finanziamenti, l’attuazione di una serie di riforme strutturali (leggi: la solita combinazione di taglio di spese, aumento della tassazione, liberalizzazione del mercato del lavoro, privatizzazioni, ecc). La portata di questo tipo di impegno si può cogliere pienamente se si considera che prima o poi il Patto di stabilità sarà riattivato e la maggior parte degli stati membri si troverà a dover fronteggiare una procedura per deficit eccessivo. In buona sostanza, questo significa che per un periodo medio-lungo andremo a votare non per scegliere tra indirizzi politici alternativi, ma per individuare i partiti o le coalizioni incaricate di attuare decisioni in larga misura preconfezionate a Bruxelles, in un processo dove la Commissione e gli stati “creditori” avranno una influenza decisiva: gli unici investimenti pubblici possibili saranno probabilmente quelli del recovery and resilience plan; il resto delle politiche economiche e sociali sarà la declinazione delle raccomandazioni della Commissione europea.

Un simile sistema di co-optazione dei circuiti democratici nazionali sarebbe forse sostenibile se a Bruxelles si fosse in presenza di un sistema politico ed un circuito democratico degni di questo nome. In una situazione simile, gli stati membri si troverebbero grosso modo in una posizione analoga a quella dei Länder tedeschi chiamati a dare fedele esecuzione dei programmi decisi a Berlino da Bundestag e Bundesrat (Art. 83 GG). Le cronache dei giorni scorsi hanno dimostrato ampiamente tutta la distanza che ancora intercorre tra Bruxelles e Berlino, visto che le decisioni sono il frutto di complesse ed opache negoziazioni intercorrenti tra istituzioni tecnocratiche ed intergovernative, secondo modalità che certo non contribuiscono ad una soddisfacente deliberazione democratica.

Se quindi si può salutare con favore la creazione di uno strumento di debito comune, occorre altrettanto riconoscere che il combinato disposto di RRF e Patto di Stabilità costituisce un ulteriore passo nella deriva post-politica dell’Europa. Invece di democratizzare l’Unione si corre il rischio di compiere un ulteriore passo in direzione dello svilimento dei circuiti democratici nazionali. Non tutto è perso però. Gli impegni assunti dal Consiglio europeo nei prossimi mesi dovranno essere tradotti in regolamenti europei. Il Parlamento europeo ha già fatto capire che non si limiterà a fare il copia-incolla delle decisioni del Consiglio europeo e che, in virtù del proprio ruolo di co-legislatore, intende giocare un ruolo da protagonista. Speriamo che questa volta, a differenza di quanto accadde nella crisi precedente, il Parlamento europeo sappia mantenere i propri buoni propositi. Nella partita la differenza la faranno i dettagli, primo fra tutti la distinzione tra condizioni e condizionalità. Riteniamo del tutto legittimo che le istituzioni europee impongano condizioni per la spesa di risorse comuni (per esempio, se si erogano fondi per la riconversione ambientale dell’economia, è legittimo verificare che i progetti proposti contribuiscano effettivamente al raggiungimento degli obiettivi del Green Deal europeo); riteniamo molto discutibile invece che questi sussidi siano il pretesto per interferire su materie sulle quali l’Unione europea non è competente (pensioni, scuola, sanità, servizi sociali). Se si riuscirà a tracciare e a garantire questo importante confine, il RRF sarà davvero ricordato come un momento di svolta nel processo di integrazione europea; viceversa, si tratterà dell’ennesimo tentativo di indorare l’amara pillola del commissariamento.

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2 commenti su “Recovery Fund: dietro i sussidi il commissariamento?”

  1. Lentamente la verità viene a galla. Contrariamente agli autori ho analizzato in dettaglio la parte che loro preferiscono lasciare agli economisti. Per merito dell’intransigenza francese e tedesca l’Italia trasferimenti per € 82 miliardi mentre partecipa al finanziamento complessivo dei trasferimenti per solo € 50 miliardi (un ottavo di 390); compensa quindi ampiamente il contributo netto sul bilancio settennale che nel precedente periodo era di circa € 35 miliardi. Il grande vantaggio è però che i trasferimenti sono immediati (dal 2021 al 2024) mentre la partecipazione al loro rifinanziamento è rinviata al trentennio 2028-2058. Sarebbe inutile festeggiare future tasse “europee” perché sono sempre prelevate, come tutte le attuali risorse proprie dell’UE (a parte multe, etc), in ultima analisi sui contribuenti degli stati membri. Questo vale addirittura per i dazi prelevati dal paese dove l’importazione avviene (il porto di Rotterdam) e sui quali gli stati possono trattenersi una quota, ora alzata al 25%. Vale ovviamente per l’IVA, definita dall’UE sin dall’introduzione, ma di cui gli stati fissano le aliquote e provvedono, bene o male, all’incasso. La quota che va all’UE è stata ridotta nei decenni fino a un misero 0,3% attuale. Con questo siamo ai “rebates” di thatcheriana memoria; nell’ultimo periodo valevano per quattro paesi (NL, DK, S e D) che pesano per il 30% e che pagavano solo lo 0,15% con un importo totale degli sconti di circa € 3,5 miliardi l’anno (ossia 25 per il periodo 2014-21). Con il nuovo accordo anche l’Austria riceve uno sconto e l’importo complessivo su 7 anni per i cinque paesi raddoppia a circa € 50 miliardi. Razionalmente si tratta di compensare alcuni contributori netti che beneficiano meno di Francia e Italia della politica agricola comune; concretamente è puro mercanteggiare. Non se ne parla troppo perché i “rebates”, che sono delle correzioni all’effetto ridistributivo delle politiche comuni, non fanno onore a nessuno, né ai beneficiari né agli altri. Il governo italiano tutto concentrato sul “massimo di trasferimenti senza condizioni” ha dichiarato in anticipo alla riunione del Consiglio che non si sarebbe opposto alla conferma degli sconti. Non ha fatto un affare.

    Ma perché gli altri governi hanno finalmente dato retta alla Francia e alla Germania che insistevano su importanti trasferimenti a favore dell’Italia (e di altri)? Semplice, perché è quello l’unico modo per mettere il paese in riga. Per comprendere questo bisogna studiare l’articolo 19 dell’accordo che deve ancora essere ratificato dai parlamenti di tutti i paesi membri.

    La governance prevista per l’approvazione dei piani nazionali d’investimento e per l’erogazione progressiva dei fondi contraddice clamorosamente la pretesa di assenza di condizioni. In sintesi funziona come segue:

    1. I singoli piani d’investimento devono essere in linea (a.) con le condizioni del Recovery fund (NGEU), contribuire allo sviluppo digitale e ecologico, (b.) con il piano nazionale annuale di riforme (PNR) e (c.) con le raccomandazioni della Commissione per far convergere le politiche economiche e fiscali per sostenere crescita, occupazione ed equilibrio sociale. 1.1. La Commissione valuta la conformità 1.2. ma l’approvazione spetta al Consiglio che decide a maggioranza qualificata.

    2. Poi parte l’investimento con la prima erogazione. Le successive erogazioni richieste dallo Stato beneficiario dipendono da una valutazione concreta del rispetto degli obiettivi intermedi, simili agli stati di avanzamento dei lavori di un cantiere che devono essere conformi al capitolato. La Commissione chiede 2.1 il parere del Comitato economico e finanziario (i ministri delle finanze) che si esprime all’unanimità. 2.2. La Commissione infine autorizza l’erogazione. 2.3. Se uno stato membro dissente, può rinviare la questione al 2.4. prossimo Consiglio il quale si esprime entro tre mesi dall’inizio dell’intera procedura (la richiesta di parere al Comitato Ecofin). Dopo la delibera del Consiglio, 2.5. è la Commissione che prende la decisione finale.

    Non devo aggiungere altro. Chi vuole capire, capirà e saprà giudicare sia l’operato del governo che gli argomenti del dibattito pubblico fra cui i commenti eruditi pubblicati non solo su questo forum. Temo che il nodo della questione non sia ancora venuto al pettine e che ci saranno pericolose polemiche politiche quando si capirà interamente che cosa vuol dire condizioni, unione monetaria e convergenza economica e fiscale.

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  2. La BCE aveva la possibilità storica di iniettare liquidità o se volete creare moneta dal nulla.
    Finalmente anche molti costituzionalisti si rendono conto(come in questa pagina) che la visione ordoliberista dell’Europa con la sua moneta ,ci condurrà al disastro se gli Stati non negozieranno il prima possibile una riforma Europea in senso contrario al federalismo(Stati uniti d’Europa).
    l’alternativa è l’italexit.
    Ci sono tante forme per cambiare, a cominciare dai crediti fiscali(CCF).

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