- di Salvatore Curreri
Una delle questioni che il (perenne) dibattito sulla futura legge elettorale dovrà affrontare riguarda le modalità di scelta dei parlamentari da eleggere. L’acceso dibattito appena avviato – con l’appello firmato da dieci costituzionalisti contro le liste bloccate al quale ha fatto subito quasi da ideale contraltare un articolo sulle sconcezze delle preferenze – dimostra… quanto il tema sia destinato ad essere percepito come decisivo da un elettorato palesemente insofferente circa la qualità dell’attuale classe politica.
Chi scrive è convinto che la pessima immagine dei parlamentari sia in parte anche imputabile ai media che preferiscono dare ampia pubblicità agli aspetti deteriori della politica-spettacolo (salvo poi lamentarsene), anziché all’oscuro lavoro svolto dalla maggioranza di essi che, proprio perché tale, non merita l’onore delle cronache. Ciò nondimeno, non c’è dubbio che i partiti politici, e per essi i loro dirigenti, non siano stati all’altezza del senso di responsabilità istituzionale che la selezione di candidature “bloccate” impone, facendo prevalere la fedeltà (talora non solo politica) alla competenza. Né il rimedio della apertura indiscriminata delle liste ai candidati più votati dagli iscritti sperimentato dal MoVimento 5 Stelle con le c.d. parlamentarie ha sortito gli esiti sperati, come dimostrano i francamente imbarazzanti casi di parlamentari assolutamente privi di competenze (talora anche sintattiche e grammaticali).
Attestarsi nella impopolare difesa ad oltranza delle liste bloccate è quindi assolutamente inopportuno, non perché esse siano di per sé costituzionalmente illegittime, come ha chiarito la Corte costituzionale nelle due sentenze nn. 1/2014 e 35/2017, ma per la cattiva prova che esse hanno dato di sé, contribuendo ad allargare il solco tra elettori ed eletti.
Quali alternative? Scartata la soluzione di sorteggiare gli eletti (dall’«uno vale uno» all’«uno vale l’altro»), per la decisiva obiezione che avremmo parlamentari che non sarebbero chiamati a rispondere del potere politico loro attribuito, giocoforza è tornata in auge la proposta di reintrodurre il voto di preferenza. Evidentemente un paese senza memoria ha dimenticato le ragioni che indussero la stragrande maggioranza degli elettori prima a ridurre, poi ad abrogare le preferenze nei referendum elettorali del 1991 e del 1993. Ragioni che sono vieppiù oggi valide. Difatti, il voto di preferenza: aumenta i costi (talora nascosti e quindi illeciti) delle campagne elettorali, tanto più in circoscrizioni elettorali estese come quelle risultanti dalla recente riduzione del numero dei parlamentari; alimenta i rischi di corruzione e di voto di scambio (specie nelle regioni meridionali dove è statisticamente dimostrato che ad esso si fa maggiore ricorso); aumenta la competizione all’interno dei partiti, degradandoli a meri comitati elettorali e contribuendo così a renderli ancora più disgregati di quanto oggi siano. Infine, non è vero che le preferenze comportino magicamente un miglioramento della classe politica, come se nel paese che primeggia per economia sommersa, evasione fiscale, abusivismo edilizio, privilegi corporativi e rendite parassitarie esistesse una società civile migliore della classe politica che la rappresenta. I risultati anche di queste ultime elezioni regionali, dove il voto di preferenza è previsto, dimostrano la diffusione del peggiore clientelismo politico, con “signori delle preferenze” che, specie se incandidabili, riescono a spostare interamente i loro pacchetti di voti a parenti e sodali.
E allora dobbiamo tenerci le liste bloccate? No. C’è una terza via: il collegio uninominale, in base al quale il partito presenta un unico candidato in una parte circoscritta del territorio. Esso, infatti, permette di avvicinare gli elettori all’eletto, specie se espressione di quel territorio anziché “paracadutato”; impone ai partiti una migliore selezione delle candidature; annulla la competizione all’interno del partito, con conseguente riduzione delle spese elettorali dei candidati.
È vero che in tal modo i candidati continueranno ad essere scelti dai partiti, ma ciò è quanto accadrebbe anche con il voto di preferenza, con l’aggiunta però che, rispetto ad esso, il collegio uninominale obbliga il partito a selezionare in modo più rigoroso quel solo candidato con cui si presenta e s’identifica, anziché permettere di rinunciare a tale sua essenziale funzione costituzionale (v. Corte costituzionale, sentenza n. 35/2017, 11.2 cons. dir.), lasciandola (talora pilatescamente volentieri) nelle mani degli elettori.
È parimenti vero che, rispetto al voto di preferenza, il collegio uninominale riduce il potere di scelta degli elettori perché unico è il candidato che l’elettore di un partito può scegliere. Ma, come detto, a fronte di ciò vi sarebbe indubbiamente una migliore selezione delle candidature, dato che in un tempo in cui le scelte dell’elettorato sono volatili e sempre più “personalizzate” è illusorio credere che gli elettori scelgano sempre per il partito, subendo il candidato, anziché scegliere il candidato, subendo il partito.
Vi è, infine, un’ultima obiezione: i collegi uninominali sono propri di formule elettorali maggioritarie (a turno unico o doppio) per cui sono incompatibili con l’attuale tendenza verso l’introduzione di una formula elettorale interamente proporzionale. Errore. Non è vero che il collegio uninominale si debba necessariamente abbinare al maggioritario. Esso, infatti, può essere applicato anche a formule proporzionali. È stato così per l’elezione del Senato dal 1948 al 1993 e per l’elezione dei consigli provinciali ed è ora così, in Germania, per l’elezione della camera politica (Bundestag). Certo si tratta di sistemi elettorali tecnicamente diversi in ragione della diversa combinazione tra elemento personale e elemento politico. Ad esempio, il totale dei voti di una forza politica al Senato e nei Consigli regionali era la somma dei candidati dei collegi a tal fine uniti in gruppo mentre in Germania è dato dai voti per la lista (bloccata), per cui, da questo punto di vista, il voto è meno personalizzato. Di contro, mentre al Senato venivano eletti i candidati dei collegi uninominali che avevano ottenuto le migliori percentuali di voto rispetto agli elettori (per cui poteva accadere e di fatto accadeva che taluni collegi uninominali non eleggevano alcun candidato e altri, all’opposto, più di uno), in Germania, anche se i seggi sono attribuiti in base al voto proporzionale, nella loro assegnazione si parte dai candidati dei collegi, anche quando eccedenti rispetto alla percentuale di voto ottenuta dal partito corrispondente (con successive compensazioni che spiegano perché il Bundestag è oggi composto da 709 deputati rispetto ai 598 previsti). Infine in Germania è previsto il voto disgiunto invece escluso nel nostro paese, dove per l’appunto non vi erano liste e l’identificazione tra partito e candidato era piena.
Si tratta di profili tecnici sui quali, volendo, si potrà tornare ma che lasciano intatto l’assunto per cui è possibile conciliare collegi uninominali e ripartizione proporzionale dei seggi.
Infine, se si vuole affrontare il problema della selezione delle candidature in modo serio e completo, si deve intervenire legislativamente perché essa sia il risultato di un processo democratico all’interno delle forze politiche, anziché il frutto di metodi opachi e autoritari. È l’annoso problema della democrazia all’interno dei partiti che va risolto sviluppando quel “metodo democratico” cui fa riferimento l’art. 49 Cost. in modo più incisivo di quanto finora accaduto (d.l. 149/2013).
Ma questa è un’altra storia, su cui presto si avrà modo di ritornare.
Non condivido quasi nulla dell’analisi delle procedure elettorali proposta dal prof. Curreri. Confonde categorie di scienze politiche (legittime, utili) con categorie di diritto costituzionale (a priori prevalenti sulle precedenti).
1. Votando per eleggere democraticamente un’assemblea rappresentativa, l’elettore vota necessariamente per dei candidati individuali, anche se sono presentati su liste bloccate, nella misura in cui l’assemblea è composta da rappresentanti liberi ed uguali senza vincolo di mandato. Le liste bloccate tolgono semplicemente all’elettore il diritto di scegliere il candidato e limitano la scelta a una preferenza di schieramento (lista, partito).
2. La soluzione delle liste bloccate sarebbe democraticamente accettabile, se prima delle elezioni i candidati fossero scelti e ordinati democraticamente. Questo presuppone primarie, non previste dalla legge e comunque poco democratiche tanto che non è chiaro chi può partecipare, tutti, i simpatizzanti, gli iscritti, gli eletti, i dirigenti? In concreto, con le liste bloccate l’elenco dei candidati e l’ordine della loro elezione sono decisi dai capi o dal capo, l’opposto della democrazia.
3. All’inverso, il collegio uninominale – soprattutto se abbinato ad un doppio turno o una procedura equivalente, i.e. il voto singolo trasferibile – non dà ai partiti il potere di nominare i candidati, nella misura in cui chiunque si può presentare contro i candidati “ufficiali”, come in Francia effettivamente accade: per es. Ségolène Royal nominata in un collegio “sicuro” è stata punita nell’urna a beneficio di un candidato scartato dal partito, dimessosi e preferito dagli elettori al secondo turno nonostante il frazionamento del voto di sinistra. La selezione dei candidati dei grandi partiti è quindi una cosa rischiosa e aperta, per questa ragione democratica.
4. L’errore forse più grave dell’articolo, perché alimenta una falsa opinione molto diffusa, riguarda l’abolizione delle preferenze per via referendaria. Non è vero che il referendum del 1993 abbia abolito, dopo l’abolizione delle preferenze multiple nel 1991 (per la Camera), anche l’ultima preferenza rimasta. Lo scopo era di arrivare a un sistema uninominale per il Senato. Il voto in un collegio uninominale è un voto per definizione individuale, cioè di preferenza unica a valenza anche politica.
5. L’elettore possiede il potere di scelta maggiore con il voto (= preferenza) unica (single vote). Frazionare l’espressione del voto può solo indebolire il potere di scelta. Bisogna quindi mettersi d’accordo sull’oggetto del voto per eleggere i componenti di un’assemblea parlamentare: individui, partiti, una maggioranza, un governo, un capo del governo? Ovviamente né il governo né il presidente del consiglio. Neanche la maggioranza che viene decisa liberamente dagli eletti. Ma nemmeno i partiti che sono solo associazioni di candidati, simpatizzanti e dirigenti politici in attesa di un incarico pubblico, istituzionale o altro. Se l’elettore deve decidere direttamente anche il governo, bisogna prevedere una seconda procedura elettorale, se no si crea confusione e si favorisce la manipolazione riducendo il potere di scelta democratica degli elettori, l’uguale accesso alle cariche elettive e il libero mandato degli eletti.
6. Detto ciò, rimane vero (una tesi o legge delle scienze politiche) che la scelta del sistema elettorale determina il coordinamento degli attori politici. Il frazionamento politico (il numero dei partiti parlamentari) è un prodotto della legge elettorale. Per permettere un coordinamento efficace ed equo, la normativa deve in qualche misura essere stabile. Piccole circoscrizioni favoriscono i partiti mediani, l’uninominale secco più di tutti. Il doppio turno è più aperto e più democratico perché tende a costruire la maggioranza assoluta, un criterio che di nuovo favorisce l’elezione del candidato mediano. Grandi circoscrizioni e formule proporzionali neutre favoriscono il frazionamento perché tendono a premiare la divisione dei candidati in piccoli gruppi.
Un abbozzo della mia analisi giuridica delle procedure elettorali si trova nella monografia “Comment réformer le système électoral” pubblicato nel 2019 a Lussemburgo. Critico da sempre la giurisprudenza 1/2014 e 35/2017 troppo permissiva sulle liste bloccate. I miei commenti censurati da varie riviste di costituzionalisti sono disponibili su academia.edu: “La garanzia dei diritti costituzionali fondamentali”.